Apertura del Festincontro con l’intervento del sociologo Luca Diotallevi e l’ironia leggera di don Giovanni Berti (Giobacomix) con le sue note vignette.
L’edizione numero 40, intitolata “Vite a contatto”, è partita dal primo “contatto” del cristiano: quello con Dio.
La prima serata è stata aperta infatti dall’intervento del sociologo Luca Diotallevi, autore del libro “La messa è sbiadita”. Il testo analizza a livello sociologico l’attuale situazione della frequenza dei cristiani italiani alla celebrazione dell’Eucaristia. Tema spinoso, che poteva suscitare rassegnazione o indifferenza.
La chiacchierata invece, si è rivelata serena e profonda al contempo. Accanto al sociologo, professore di sociologia all’Università di Roma 3, è intervenuto il nostro Vicario episcopale, don Giovanni Rossi ed è stata rasserenata dall’ironia del noto vignettista Giobacomix (il lombardo don Giovanni Berti).
Si è ragionato sulle cause di questa progressiva disaffezione al rito della messa e su come ridare “colore” a ciò che appare sbiadito. Si è entrati nel cuore della situazione in modo lucido ed oggettivo, ma da credenti, quindi con la consapevolezza di chi sa che le cose cambiano…se prima di tutto ciascuno di noi coltiva serenamente in sé il desiderio e le motivazioni profonde del cambiamento.
Nella realtà odierna, sempre meno persone accettano di dover essere introdotte al rapporto con Dio da un rito che non sono loro a definire. Tanto più nella messa, dove il rito procede per sottrazione, richiedendo ascolto e contemplazione e non si dovrebbe basare sulla performance di chi presiede o anima, perché la messa non è uno spettacolo.
Ogni forma di partecipazione nella nostra società è in crisi. Siamo sempre più convinti di poter partecipare senza dover per forza portare il corpo in ciò che viviamo. Inoltre, siamo sempre più convinti di poter partecipare anche senza la presenza dell’altro vicino a noi.
Chi partecipa maggiormente oggi all’allontanamento dalla Chiesa sono le donne. Mentre in passato erano state il baricentro della trasmissione della fede ai figli (in famiglia, nella catechesi), ed erano numericamente maggiori nella presenza ai riti religiosi, i dati odierni ci restituiscono una sostanziale equivalenza tra maschi e femmine. Prevedibilmente l’educazione religiosa dei bambini passerà in futuro sempre meno attraverso la figura femminile.
Il sociologo ha poi lanciato un affondo provocatorio sulla tendenza, nella chiesa postconciliare, alla spettacolarizzazzione del rito. In questo modo la Chiesa si è per così dire arresa all’idea che l’incentivo alla partecipazione sia da ricercare nelle versioni performanti del rito.
Una scelta perdente, che dimentica l’originaria intenzione del Concilio, quella di “far crescere la coscienza del credente”, confermando che è il rito che detta il mio credere e non viceversa!
Oggi invece nella chiesa esistono molti “stili” di celebrazione della messa (dalla più tradizionalista a quella più trash quando non addirittura pacchiana), nella quale ciascuno, come un cliente al supermercato, può scegliere quella più adatta al proprio “sentire” in quel momento della vita. Il credente quindi si sceglie questo o quel predicatore, in questo o quel movimento… Una visione consumistica distorta e potenzialmente pericolosa, perché svuota da dentro la forma ecclesiale del cattolicesimo. Perché?
Offrendo, in certo modo, una sorta di risposta ad ogni “bisogno”, il singolo credente tende quindi a rimanere vicino a chi condivide la stessa sensibilità: il tradizionalista col tradizionalista, l’amante della natura con chi condivide questa prospettiva ecc).
Viene così a mancare una fedeltà alla comunità del territorio (la parrocchia che va da Via Po a via Manzoni), quella “in se stessa inclusiva”, perché all’interno trovi tutte le età, diverse condizioni di vita, fratelli e sorelle che non si scelgono come compagni di banco, così come non ci si sceglie il prete.
Nell’Eucarestia inoltre, si rivela sì, come dono di Dio, ma contemporaneamente mostra la sua parzialità, perché il dono attende, da parte del credente, l’aprirsi al desiderio, quella “circoncisione del cuore” che domanda di fare verità in se stessi e di prendere posizione con chiarezza. Si tratta perciò di un rito provocatorio, che chiede di uscire da se stessi, verso scelte strappanti, scelte che danno colore alla vita. Un rito, quindi, molto scomodo e non semplicemente la risposta ai bisogni del singolo.
E allora come ridare “colore” e sapore alla Messa?
Prima di tutto, portando a messa la nostra vita. Non perché siamo operatori pastorali impegnati o fedeli devoti, ma perché la fede si “vede” nelle cose ordinarie della vita, dove ogni laico fa sintesi tra fede e vita. Se la vita (tutta, anche i miei peccati) non viene portata nel rito, il rischio è di far svanire nella società l’impronta della fede e di fare del rito una scatola vuota.
Nella messa portiamo la nostra piccolezza, la nostra vita normale, non spettacolare. Se la nostra vita è riconosciuta come preziosa, diventa un grazie e allora c’è la messa ed essa ha colore.
I dati raccontano di una corrispondenza tra la partecipazione al rito e la maggiore propensione al volontariato, anche se esso si manifesta più come scelta personale che come disponibilità ad un impegno istituzionale della carità.
Le comunità sono e saranno in futuro numericamente più piccole, eterogenee e varie, anche per età; questo potenzialmente fa sperare in una maggiore generatività.
È vero che ci sono molti anziani, ma la loro vita può essere una testimonianza molto importante.
Se l’anziano non è depresso, arrabbiato o chiuso, può essere veramente giovane, perché sta nascendo in lui “l’uomo interiore” di cui parla san Paolo, quell’uomo “nascosto nel cuore”, che gli dà la capacità di guardare il mondo in modo giovane, nuovo, non banale, purificato e non indulgente.
L’anziano credente è così capace di raccontare, con le sue scelte di vita, un modello ascetico dell’esistenza: nel compimento del dovere c’è un intimo godimento che non ti dà nulla, se non il semplice fatto di sapere di aver compiuto la cosa giusta; non c’è furbizia, divertimento o narcisismo che possano assicurare una gioia più grande.
Da dove ripartire allora?
Non dai falsi problemi, ma dai problemi che ci attanagliano, cioè dal livello irrinunciabile della vita spirituale. Quello che “mi rode” oggi è ciò da cui devo partire. Se si parte da problemi che in realtà non pesano davvero, sarà facile scivolare nel fascino perverso dell’attivismo. Questo attivismo fa tacitare le domande che ci portiamo dentro davvero e le copre con la preoccupazione per qualcosa di meno importante, ma che mi dà immagine.
È un cammino di comunione da fare insieme, da amici, guardando i problemi in faccia, facendo verità nelle cose della vita che Dio illumina. Occorre farlo da laici, non come operatori pastorali o funzionari ecclesiastici. In questa dimensione il laico di AC non può che sentirsi a casa. È un lavoro difficile confrontarsi su questioni “rognose”, perché non richiedono di avere progetti, ma capacità di discernimento comunitario e di scelte che non risultano simmetriche, ma SEMPRE sfidanti. Siamo tutti imperfetti e quindi siamo sempre in “agonia”, in questa lotta dove si cresce, sapendo di essere quella fucina della fede dove Vangelo e vita si mischiano continuamente.
Rita Mussini
per il Consiglio diocesano