Sono 468 le case di vita contemplativa in Italia, dove vivono circa 4.200 religiose di voti perpetui, 270 di voti temporanei e oltre 300 tra postulanti e novizie. Questo stando agli ultimi dati riportati nell’Annuario pontificio aggiornati al 2022. Si tratta di un tesoro umano e spirituale che la Chiesa oggi invita a ricordare nella preghiera, rendendo grazie per questa presenza e ricambiando l’orazione incessante con cui le suore di clausura sostengono la vita della Chiesa stessa.
Ogni 21 novembre si celebra infatti la Giornata pro orantibus, che fu istituita da papa Pio XII e si tenne per la prima volta nel 1953. In quell’anno nacque anche il Segretariato Assistenza Monache – oggi è anche un po’ la sua festa – che opera in collegamento con il Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica promuovendo iniziative per i monasteri femminili e rispondendo a richieste che giungono da diverse parti del mondo.
L’ente nacque dopo la seconda guerra mondiale quando sempre papa Pacelli fece inviare questionari a tutti i monasteri per capire le condizioni in cui versavano dopo il conflitto. Dalle risposte si capì allora che le monache avevano molti bisogni ma, soprattutto desideravano sentirsi sostenute dalla Chiesa.
Oggi nel calendario liturgico ricorre la Presentazione della Beata Vergine Maria, che richiama l’episodio narrato dai vangeli apocrifi della consacrazione al servizio del Tempio di Gerusalemme della Madonna, che vi fu accompagnata dai genitori Gioacchino e Anna e vi rimase fino all’età di 12 anni
«Occorre fare di più e con più coraggio». Il cardinale Matteo Zuppi chiede un cambio di passo per fermare la guerra in Ucraina. Perché «la pace non è mai debolezza ma forza, tanto più se garantita seriamente in un quadro credibile e forte». Il presidente della Cei chiama in causa «la comunità internazionale». E lancia un monito alla Ue, schiacciata su posizioni belligeranti: «Ricordiamoci che l’Europa è nata per immaginare la pace, impensabile fra popoli che si erano combattuti per secoli».
Le sue parole risuonano nella Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma scelta dall’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, per portare intorno all’altare, nella Messa presieduta da Zuppi, le sofferenze e le speranze della sua gente a mille giorni dall’inizio dell’invasione russa. Ma anche per ringraziare «il Papa per tutte le iniziative volte a sostenere il popolo ucraino» e il presidente della Cei «che, in quanto inviato speciale del Pontefice per la pace, sta aiutando a rimpatriare gli ucraini dalla prigionia, fra cui bambini, detenuti di guerra, membri del clero incarcerati, giornalisti, civili e militari, ma anche i corpi dei nostri difensori uccisi», dice Olena Zelenska. La moglie del presidente Volodymyr Zelensky è in prima fila nella celebrazione di oggi pomeriggio. Al suo fianco la figlia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Laura, ma anche le first lady di Lituania, Serbia e Armenia riunite per «condividere gli orrori dell’aggressione russa e dell’oblio cosciente della verità», afferma l’ambasciatore Yurash.
Descrive una «notte ancora profonda» il cardinale Zuppi nell’omelia. E ricorda «l’insistenza commossa di papa Francesco che non si arrende di fronte alla guerra e non si stanca di domandare se abbiamo fatto tutto il possibile» per una svolta. Poi ripete un interrogativo: «Quanto manca al giorno della pace?». Francesco, sottolinea il presidente della Cei, «cerca di affrettarlo chiedendo di favorire il dialogo». Dialogo che «non è arrendevolezza ma via per ottenere ciò che altrimenti si misura solo con le armi». Quindi l'invito «il coraggio di fermarsi non per perdere, ma per vincere con il negoziato». Eppure, in mezzo alle bombe e alle battaglie, ci sono persino «luci di vita e di vicinanza che rendono umano anche quello che più disumano non potrebbe essere», dice il porporato. E cita qualche esempio: i «bambini ucraini accolti questa estate in tante famiglie italiane», «la solidarietà che ha mobilitato le parrocchie nella Penisola», l’«accoglienza dei profughi» che, aggiunge Zuppi allargando lo sguardo oltre l’emergenza di Kiev e lanciando un monito alla politica italiana, «va sempre assicurata, anche con corridoi umanitari e di lavoro».
È la moglie di Zelensky che racconta i «cuori feriti» della nazione invasa per «le perdite quotidiane» e per l’«ansia nei confronti dei nostri cari». Ma anche i suoi desideri. «Il Paese vuole vedere tutti i suoi figli a casa e ambisce a una pace giusta a duratura». Necessità di cui si fa interprete anche Zuppi quando avverte che «pace e giustizia sono unite come due sorelle inseparabili: infatti l’una aiuta, permette e difende l’altra». Nella Basilica che è la “casa” della Comunità di Sant’Egidio di cui il cardinale è uno dei nomi illustri, i volti dei romani si mescano a quelli degli ucraini, con le coccarde gialle e blu sugli abiti. Fra loro il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, e il presidente della Comunità, Marco Impagliazzo, a fare gli onori di casa con il rettore monsignor Marco Gnavi. Numerosi i sacerdoti ucraini. E i seminaristi greco-cattolici che studiano nella capitale.
Per Olena Zelenska la celebrazione con Zuppi è uno degli ultimi appuntamenti della sua giornata romana. Al mattino visita l’ospedale Bambino Gesù dove sono stati accolti e curati 2.500 bambini ucraini grazie all’azione della Santa Sede. E la first lady viene ricevuta anche in udienza privata da Francesco che torna ancora a parlare dei mille giorni di invasione russa. «Una ricorrenza tragica per le vittime e per la distruzione che ha causato. Ma allo stesso tempo una sciagura vergognosa per l’intera umanità», chiarisce durante l’udienza generale in piazza San Pietro. E, incontrando i partecipanti al Colloquio del dicastero per il Dialogo interreligioso che si sta tenendo in Vaticano, spiega che l’attualità di un mondo «diviso e lacerato da odio, tensioni, guerre e minacce di un conflitto nucleare», come si legge anche «sui giornali», deve spingere «a pregare e a operare per il dialogo, la riconciliazione, la sicurezza e lo sviluppo integrale dell’intera umanità».
Nel corso del Giubileo 2025 verranno canonizzati i beati Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati. Mentre il prossimo 3 febbraio in Vaticano si terrà un importante Incontro Mondiale sui diritti dei bambini. Il duplice annuncio è stato dato da Papa Francesco questa mattina, nel corso dell’udienza generale del mercoledì. Insieme ad un nuovo accorato appello per porre termine alla guerra nella «martoriata» Ucraina, «sciagura vergognosa» per l’umanità. «L'anno prossimo, durante la Giornata degli adolescenti, canonizzerò il beato Carlo Acutis, e nella Giornata dei giovani canonizzerò il beato Piergiorgio Frassati», ha detto a sorpresa il Papa durante il saluto ai fedeli di lingua italiana davanti a migliaia di fedeli presenti in piazza San Pietro. Nel Calendario dell’Anno Santo il Giubileo degli adolescenti è programmato tra il venerdì 25 e la domenica 27 aprile e quello dei giovani dal lunedì 28 luglio alla domenica 3 agosto. Circa le date precise, il vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino monsignor Domenico Sorrentino ha scritto che la canonizzazione di Acutis sarà domenica 27 aprile alle 10.30 in Piazza San Pietro.
«In occasione della Giornata Internazionale dei diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza che si celebra oggi, - ha poi rivelato Francesco - desidero annunciare che il prossimo 3 febbraio si svolgerà qui in Vaticano l'incontro Mondiale dei diritti dei bambini intitolato “Amiamoli e proteggiamoli” con la partecipazione di esperti, di personalità di diversi Paesi». «Sarà l'occasione per individuare nuove vie volte a soccorrere e proteggere milioni di bambini ancora senza diritti, che vivono in condizioni precarie, vengono sfruttati e abusati e subiscono le conseguenze drammatiche delle guerre», ha sottolineato il Pontefice aggiungendo con un sorriso: «C'è un gruppo di bambini che sta preparando questa giornata. Grazie a tutti voi». E subito un gruppo di bambini, accompagnati da padre Enzo Fortunato ed Aldo Cagnoli – i promotori della Giornata Mondiale dei Bambini - è andato dal Papa per salutarlo e ringraziarlo. In piazza San Pietro questa mattina era presente anche Olena Zelenska, consorte del Presidente dell’Ucraina, che ha avuto una udienza con Francesco. E il Papa nei suoi saluti ha rinnovato il suo appello per la pace. «Ieri – ha detto - si sono compiuti mille giorni dall'invasione dell'Ucraina. Una ricorrenza tragica per le vittime e per la distruzione che ha causato. Ma allo stesso tempo una sciagura vergognosa per l'intera umanità». «Questo però - ha sottolineato - non deve dissuaderci dal rimanere accanto al martoriato popolo ucraino, dall'implorare la pace e dall'operare perché le armi cedano il posto al dialogo, lo scontro all'incontro».
Nell’Udienza di oggi Francesco, riprendendo il ciclo di catechesi “Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza”, ha incentrato la meditazione sul tema “ I doni della Sposa. I carismi, doni dello Spirito per l’utilità comune”. Dopo aver parlato nei mercoledì passati dell’opera santificatrice dello Spirito Santo che si attua nei sacramenti, nella preghiera e seguendo l’esempio della Madre di Dio, Francesco ha affrontato il tema dei carismi personali e comunitari. Questo secondo modo di operare dello Spirito Santo nella Chiesa, ha spiegato, «non è destinato principalmente e ordinariamente alla santificazione della persona, ma è destinato al “servizio” della comunità». Il carisma poi è «il dono dato “a uno”, o “ad alcuni” in particolare, non a tutti allo stesso modo, e questo è ciò che lo distingue dalla grazia santificante, dalle virtù teologali e dai sacramenti che invece sono gli stessi e comuni per tutti». I carismi sono insomma «i “monili”, o gli ornamenti, che lo Spirito Santo distribuisce per rendere bella la Sposa di Cristo». Per Francesco la riscoperta dei carismi avvenuta sulla scia del Concilio Vaticano II fa sì che «la promozione del laicato e in particolare della donna venga inteso non solo come un fatto istituzionale e sociologico, ma nella sua dimensione biblica e spirituale». I laici, infatti, «non sono una specie di collaboratori esterni o delle truppe ausiliari del clero, ma hanno dei carismi e dei doni propri con cui contribuire alla missione della Chiesa». Non solo. Quando si parla dei carismi «bisogna subito dissipare un equivoco: quello di identificarli con doti e capacità spettacolari e straordinarie; essi invece sono doni ordinari – ognuno di noi ha il proprio carisma - che acquistano valore straordinario se ispirati dallo Spirito Santo e incarnati nelle situazioni della vita con amore».
E una tale interpretazione del carisma è importante, perché «molti cristiani, sentendo parlare dei carismi, sperimentano tristezza e delusione, in quanto sono convinti di non possederne nessuno e si sentono esclusi o cristiani di serie B». Infatti «non ci sono cristiani di serie B ognuno ha il suo carisma personale o comunitario». L’udienza si è conclusa con il cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dalla Famiglia Agostiniana, la Fondazione Pro Musica e Arte Sacra, i volontari de “Il Testimone del volontariato Italiano”. Un saluto «con affetto» Francesco lo ha riservato gli Allievi Carabinieri della Scuola di Velletri, che hanno ricevuto la cresima («li incoraggio nel loro cammino di fede a servizio della collettività»). Quindi un pensiero ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli. Francesco ha ricordato che domenica prossima, ultima del tempo ordinario, celebreremo la solennità di Cristo, re dell'Universo, con l’invito a ciascuno «a riconoscere la presenza del Signore nella propria vita, così da partecipare alla costruzione del suo Regno di amore e di pace». Domani poi la Chiesa farà memoria liturgica della Presentazione della Beata Vergine Maria al Tempio, e si celebrerà la Giornata pro Orantibus. «Alle sorelle claustrali chiamate dal Signore alla vita contemplativa, - ha detto il Papa - assicuriamo la nostra vicinanza. Non manchi ai monasteri di clausura il necessario sostegno spirituale e materiale della comunità ecclesiale».
Un noto commentatore sportivo definisce così le grandi parate dei portieri di calcio, finendo per banalizzarne il significato. Certamente però i miracoli sono eventi straordinari e tutt'altro che facili da riconoscere. Già, cosa fare per capire se un fatto che ci è capitato è dovuto a una serie di circostanze particolari o all'azione di Dio? Se ne parla nel nuovo episodio di Taccuino celeste il podcast di Avvenire dedicato ai temi della fede cristiana. Punto di partenza: la definizione di miracolo, con cui si intende un evento non dovuto a cause naturali ma frutto di un intervento divino. Concetto che porta con sé tutta una serie di domande: perché alcune richieste di miracoli vengono esaudite e altre no? Questi interventi sono riservati solo a Dio o possono essere realizzati anche dai santi? I miracoli negano la scienza?
Quesiti cui prova a rispondere Taccuino celeste, spazio che negli ultimi episodi precedenti si è occupato, tra l’altro, di come si vestono i preti nella vita di tutti i giorni, dei passi necessari per diventare santi, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Pubblichiamo parti dell’intervista, inedita in italiano, raccolta nel 1983 dal Passauer Bistumsblatt col cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, e dedicata all’Anno santo della Redenzione proclamato da Giovanni Paolo II per il 1950° della morte e resurrezione di Gesù. Il testo fa parte di In dialogo con il proprio tempo (Libreria Editrice Vaticana), il nuovo volume, suddiviso in tre tomi per un totale di 1.688 pagine, dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, in corso di pubblicazione per Lev. Il volume raccoglie tutti i libri-intervista firmati dal cardinale Ratzinger-Benedetto XVI, così come tutte le sue interviste ai più diversi mezzi di comunicazione, da quando era teologo e docente negli anni ’60 fino al papato, e sarà in libreria dal 25 novembre. Il volume, curato da Pietro Luca Azzaro e Lorenzo Cappelletti, verrà presentato domani alle 17 alla Lumsa di Roma (via di Porta Castello 44). Sono previsti i saluti di Francesco Bonini, rettore della Lumsa, di padre Federico Lombardi, presidente della Fondazione Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, e di Lorenzo Fazzini, responsabile editoriale della Lev. Intervengono l’arcivescovo Georg Gänswein, nunzio apostolico in Lituania, Estonia e Lettonia, già segretario particolare di Benedetto XVI, e Gian Guido Vecchi, vaticanista del Corriere della Sera. Modera Pietro Luca Azzaro, curatore dell’Opera Omnia.
Il senso e lo scopo dell’Anno santo non sono di fare notizia sui giornali. Sicuramente l’Anno santo non può essere celebrato nel modo in cui si manifesta la gioia – peraltro del tutto legittimamente – per una vittoria calcistica. L’Anno santo s’indirizza a dimensioni più nascoste dell’uomo e che tuttavia sono quelle centrali per la sua vita nel suo complesso. In ultima analisi si tratta della questione della redenzione, vale a dire della questione di ciò in cui consiste l’umano: come deve diventare la vita perché io possa essere felice di essa? La questione se sia poi un bene essere uomo s’impone sempre più, e proprio in un tempo in cui la paura per il futuro provoca la domanda se – anche solo fra trent’anni – si potrà ancora essere felici di essere uomini. In questo senso l’Anno santo tocca senz’altro, dunque, il nocciolo del sentimento dell’esistenza, della paura esistenziale e anche delle speranze di questo tempo. Si tratta in primo luogo di dire che la redenzione c’è; la prima parola dell’Anno santo – credo – è innanzitutto redenzione, e poi penitenza. E redenzione nel presente, non solo nel futuro. Sarebbe uno sbaglio se, al contrario, si trasponesse la redenzione nel passato e si dicesse che è accaduta 1950 anni fa. Bisogna invece dire che con quello che allora è accaduto è stato posto in essere un presente che permane e che continua a generare speranza. C’è una risposta al nostro domandare. Non siamo dimenticati. Un amore indistruttibile ci attende e ci dischiude futuro. Solo a partire da questa realtà, che ci chiama, può anche svilupparsi la risposta dell’uomo. Nell’ambito di questa risposta la penitenza rappresenta un momento importante: essa significa organizzare diversamente la propria vita, uscire dal tran tran quotidiano degli affari e andare incontro all’essenziale, alla speranza vera, e dunque significa essere anche capaci di ammettere la colpa. In tutta questa struttura della redenzione, della speranza, del Vangelo, il riconoscimento della colpa, il cambiare se stessi nella penitenza, ha un senso. A mio parere, la ricerca di come poter cambiare se stessi per cambiare il mondo è molto forte proprio nella generazione più giovane. La penitenza è dunque da riferire alla questione del trasformare il mondo e del trasformare se stessi, ed è un tema che sta perciò al centro del nostro presente.
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Una delle caratteristiche dell’Anno santo sono le indulgenze. (...) Com’è possibile rendere più comprensibile il loro senso a cattolici e non cattolici?
(...) L’indulgenza rappresenta, per l’uomo peccatore e graziato, un invito ad approfondire il suo rapporto con Dio. Oggi è soprattutto un invito alla preghiera, ai sacramenti e alla comune testimonianza della fede, ad esempio nella forma di un pellegrinaggio. L’elemento più importante del superamento interiore della colpa, dunque, è, nella sua forma attuale, l’approfondimento e la vivificazione del rapporto con Dio. Vanno aggiunti altri due aspetti. Ci si può e ci si deve innanzitutto chiedere: in base a che cosa in fondo la Chiesa può ridurre questo dato del tutto personale, il superamento esistenziale della colpa? (...) La remissione in quanto tale – questo è chiaro – proviene da Cristo, dalla libertà della sua grazia, e da nient’altro. Ma qui non si tratta più di questo elemento propriamente teologico, la remissione, ma dell’elemento antropologico: come possa l’uomo, in quanto uomo, elaborare la colpa, viverla umanamente nello spazio della remissione. Non è forse questo qualcosa di talmente personale che non ci può essere l’intervento di alcuna potestà ecclesiastica? La risposta classica recita: la “copertura” per il condono sta nel “tesoro della Chiesa”, vale a dire in quel sovrappiù di bene che c’è nel mondo grazie al vivere e al patire dei santi con Cristo. L’idea dunque è questa: quando è in gioco l’acquisizione umana della grazia, gli uomini possono riconoscere che fra loro non c’è solo solidarietà del peccato, ma anche solidarietà della grazia. (...) Nel mondo non c’è solo una riserva di male, ma anche un sovrappiù di bene. Anche nelle cose più personali, quali il superamento interiore della colpa e la grazia, non siamo individui rigidamente separati gli uni dagli altri; anche in questo caso c’è solidarietà. Possiamo, per così dire, aggrapparci gli uni agli altri, prendere in prestito la libertà che l’altro ha già trovato per essere portati anche da essa. L’indulgenza mette semplicemente in pratica questi convincimenti. A questo si aggiunge un altro aspetto. (...) L’indulgenza esprime la certezza della fede che le porte tra la vita e la morte non sono completamente chiuse; che – nella corrente di bene, nella profonda comunione spirituale che unisce i credenti fra loro – è come se tendessimo le nostre mani verso i morti, potendo dar loro un segno di amore, anche senza sapere nello specifico che cosa avvenga. Per l’amore è data una permeabilità tra vita e morte, che è messa in pratica nell’indulgenza.
Nella bolla d’indizione del Giubileo il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) esprime un desiderio, esortando tutti quelli che credono in Cristo a incontrarsi. In questo modo il Papa si è rivolto anche ai cristiani evangelici, agli ortodossi e agli anglicani. Quali possibilità di un cammino comune può offrire l’Anno santo? (...)
Noi non abbiamo solo un comune pensiero di fondo, viviamo di una comune realtà. Cristo è morto e risorto e ha mandato lo Spirito. (...) L’Anno santo ruota tutto attorno al centro del messaggio cristiano delle origini. Esso vuole raccogliere la Chiesa cattolica attorno a questo centro. Con ciò esso è anche un invito a tutti gli altri a cercare in quest’Anno santo di fare memoria del centro comune, che costituisce la nostra unità. Proprio le Chiese scaturite dalla Riforma sono molto impregnate dall’idea della penitenza, dall’idea che l’intera vita cristiana sia penitenza, dalla teologia della croce. Per converso, la Chiesa ortodossa è segnata dalla gioia della risurrezione e dalla forza già presente dello Spirito Santo. Si possono così sviluppare diverse espressioni, che provengono dalla medesima chiamata, di ciò che l’Anno santo intende essere. In questo senso l’Anno santo potrebbe diventare anche un Anno dell’unità dei cristiani. (...)
La preghiera (recitata da Giovanni Paolo II all’apertura dell’Anno santo, ndr) culminava con queste parole: «Aiutaci a cambiare la direzione delle crescenti minacce e sventure nel mondo contemporaneo! Risolleva l’uomo! Proteggi le nazioni e i popoli! Non permettere l’opera di distruzione che minaccia l’umanità contemporanea!». L’Anno santo può effettivamente fornire un contributo alla soluzione dei problemi che oggi gravano sull’umanità?
Dall’Anno santo sicuramente non ci si devono attendere soluzioni immediate a problemi di tipo politico o economico, ma la predisposizione di quelle premesse di tipo etico senza le quali le questioni mondiali di tipo economico o politico divengono sempre più irrisolvibili. (...) Se l’Anno santo ruota attorno al tema della “redenzione”, la questione è: come si può giungere a un modo giusto di essere uomini? Come può l’umanità trovare la via del futuro? La questione della redenzione è una questione classica di tutte le religioni. Per le religioni asiatiche, per il buddhismo come per l’induismo, il motivo dominante è cercare di sfuggire a ciò che è insopportabile nella nostra esistenza empirica. Le tre grandi religioni teistiche – ebraismo, cristianesimo, islam – hanno la loro radice comune nella promessa abramitica e, di conseguenza, nella speranza della terra in cui si possa vivere, nella speranza della restaurazione del paradiso terrestre. Ma anche nel più forte movimento antireligioso del nostro tempo, il marxismo, è questa eredità abramitica a rappresentare il vero impulso originario e al contempo la promessa che lo rende affascinante. Anche qui il punto di partenza è la ricerca della redenzione, la ricerca di un umano non più alienato ma che ha ritrovato se stesso. Così quest’Anno santo è anche un richiamo perché riconosciamo personalmente di nuovo ciò che è originariamente umano e non puramente cattolico in senso particolare della nostra fede. Quanto più in noi stessi ciò ridiventa esperienza e riconoscimento, tanto più possiamo immetterlo nella situazione generale degli uomini. La radice più profonda di tutti i grandi problemi politici ed economici che ci opprimono, infatti, sta nel declino delle basi spirituali dell’uomo. Il fatto che movimenti come il marxismo siano tanto forti non deriva innanzitutto dal fatto che abbiano avuto a loro disposizione una forza politica, quanto dal fatto che un’ideologia si è imposta come risposta all’uomo che non riusciva più a trovare queste risposte nella tradizione cristiana. Ora che è seguita la rassegnazione ed emerge l’incapacità di risposta di questi tentativi, si presenta una possibilità del tutto nuova di reimparare a testimoniare il realismo del fatto cristiano e a immettere nel dibattito del nostro tempo ciò che di integralmente umano in esso si esprime.
© LIBRERIA EDITRICE VATICANA «Fra gli uomini non c’è solo solidarietà del peccato, ma anche solidarietà della grazia. L’indulgenza mette in pratica questi convincimenti» Il cardinale Ratzinger porge la croce a Giovanni Paolo II durante la Liturgia della Passione nel Venerdì Santo del 2004 / Siciliani
Secondo le categorie della geopolitica, incombe ancora sui Balcani l’incubo della Grande Serbia. E il barometro continua ad annunciare “burrasca” fra Belgrado e due Paesi limitrofi: il Kosovo che, secondo lo Stato da cui si è dichiarato indipendente nel 2008, resta una provincia da riannettere; e il Montenegro che accusa la nazione vicina di mire espansionistiche. Tensioni che, fra alti e bassi, segnano il quotidiano di dieci milioni di abitanti. Se, però, il punto di vista diventa quello della Chiesa cattolica, allora Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord vivono già nel segno della fraternità. Come testimonia la Conferenza episcopale dei Santi Cirillo e Metodio che riunisce i vescovi delle quattro realtà nazionali. «Mettiamo in pratica ciò che tutta l’area dei Balcani desidera: vivere in pace e in armonia gli uni con gli altri e gli uni accanto agli altri. Non abbiamo la bacchetta magica per cambiare l’intera regione, ma possiamo essere profezia di una nuova coesistenza», spiega l’arcivescovo Ladislav Nemet. Il presule guida l’arcidiocesi di Belgrado e presiede la Conferenza episcopale internazionale dei Santi Cirillo e Metodio. Ed è uno dei nuovi ventuno cardinali che saranno creati da papa Francesco il 7 dicembre.
Viene da chiamarlo un “globetrotter” perché parla sette lingue ed è stato nelle Filippine e in Ungheria, in Italia e in Austria, prima di tornare da vescovo nella sua terra d’origine, la Serbia, dove è nato 68 anni fa. Una berretta senza confini, sui passi del carisma missionario della Società del Verbo Divino in cui Nemet è entrato a 21 anni grazie a uno degli zii materni. «Quando seppe che volevo diventare prete - racconta ad “Avvenire” - mi rivelò di essere un verbita, ma clandestino perché a quel tempo in Ungheria gli ordini religiosi erano stati messi al bando. Non dimenticherò mai quel colloquio che ha segnato per sempre la mia vita. Del resto ancora oggi mi sento innanzitutto un missionario del Verbo Divino». E adesso anche una berretta-ponte: fra Est e Ovest dell’Europa; e fra il cristianesimo orientale e quello occidentale in una nazione dove la mentalità prevalente (insieme con le sue forze politiche) vuole che ogni serbo debba essere di per sé ortodosso. La religione del 90% della popolazione. Eppure, quando il Pontefice ha annunciato la porpora per Nemet, è arrivato anche il messaggio affettuoso del capo della Chiesa ortodossa serba, il patriarca Porfirije, che ha definito la scelta di Francesco un «riconoscimento per la nostra patria». «Viviamo in un’epoca dove i rapporti fra le nostre Chiese sono ben più positivi rispetto a 30 anni fa - sottolinea l’arcivescovo -. Anche Porfirije gioca un ruolo importante e, con il suo stile aperto, la sua esperienza multiculturale e la sua gentilezza, ha fatto molto perché a noi cattolici sia permesso di vivere in modo più sicuro e sereno in Serbia». Un avvicinamento che ha lasciato ipotizzare anche il primo viaggio di un Papa nel Paese, dopo l’invito delle autorità di Belgrado. Ma davanti ai giornalisti il futuro cardinale mette le mani avanti soprattutto considerando certe titubanze ortodosse: «Il Papa non si recherai mai in una nazione dove le altre realtà religiose non sono d’accordo. Ma la speranza della visita c’è tutta».
Eccellenza, la guerra in Ucraina ha congelato il dialogo ecumenico con la maggioranza del mondo ortodosso?
«A livello globale è una visione condivisibile, ma non in Serbia. Qui la Santa Sede e il patriarca serbo non hanno mai interrotto i rapporti. Anzi, si sono intensificati. Ad esempio, a settembre il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, è stato fra noi: il patriarca lo ha invitato nella sua residenza e poi è venuto alla Messa nella Cattedrale cattolica».
Lei è uno dei vicepresidenti del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa. Il continente fa poco per la pace?
«L’Europa è troppo frammentata per avere un significativo peso politico nel mondo. Quasi tutti i “grandi” Paesi agiscono per i propri interessi. Così non sentiamo la voce dell’Europa di fronte ai conflitti che insanguinano l’umanità e alla possibilità di aprire negoziati. La Ue è utile solo dal punto di vista economico, non per apportare cambiamenti sulla scena politica internazionale».
Lei ha denunciato più volte le divisioni fra Est e Ovest dell’Europa. Che cosa sta accadendo?
«La storia europea ci insegna che il continente si è sviluppato quando è stato segnato da una visibile unità politica e sociale. Cito l’Impero Romano o il regno di Carlo Magno, ma anche il Medioevo delle università e degli ordini religiosi. Oggi manca un dialogo reale, aperto, onesto. Ed è ormai anacronistico ritenere che alcune nazioni debbano avere un ruolo di leadership. La mancanza di dialogo vale anche per la Chiesa. Ma ad agosto, prima del Sinodo a Roma, si sono riuniti a Linz i partecipanti europei all’Assemblea in Vaticano. L’atmosfera è stata molto buona e tutti hanno potuto parlarsi e ascoltare a vicenda. Secondo l’opinione di un paio di vescovi, l’evento si è svolto senza “autorità ecclesiastica” e coloro che si considerano gli innovatori si sono tenuti alla larga».
È stato missionario nelle Filippine. Ora è l’Europa una terra di missione?
«Sicuramente. Quando sono rientrato dall’Asia nel 1990, ho compreso quanto il nostro continente, che per centinaia di anni ha portato il Vangelo nel globo, si muovesse ormai verso altri orizzonti. Certo, non è la geografia che determina l’impegno missionario. Ogni continente è terra di missione in sé: non c’è eccezione. E ogni situazione di vita è una sfida alla missione. Inoltre tutti siamo chiamati ad annunciare il Vangelo alle genti: vicine o lontane».
I cattolici sono una piccola minoranza: il 5% in Serbia o lo 0,2% in Macedonia. In gran parte di radici ungheresi, ma c’è anche chi è d’origine slava: croati, bulgari, cechi, slovacchi. Si corre il rischio di essere discriminati?
«Grazie a Dio, in tutti i Balcani regna la pace: quindi anche noi, come Chiesa delle minoranze, viviamo un clima di distensione. Stiamo molto meglio rispetto ad alcuni decenni fa, anche se abbiamo ancora margini di miglioramento. Tuttavia, è importante che i credenti lavorino insieme per una società riconciliata: siano essi ortodossi, cattolici, evangelici o rappresentanti della comunità musulmana».
La Serbia e la Macedonia sono tappe della rotta balcanica, la «via di terra» verso l’Europa dei migranti in fuga da guerre, miseria, persecuzioni.
«Chiunque non sia contagiato dal nazionalismo si rende conto che il fenomeno migratorio fa parte della storia dell’umanità. Purtroppo l’Europa si sta chiudendo in se stessa; si moltiplicano gli atteggiamenti xenofobi; dilaga una politica sovranista. Nel frattempo si dimentica la crisi demografica che sta guastando molti Stati del continente. Allo stesso tempo abbiamo milioni di lavoratori a basso costo che sono trattati come schiavi. Papa Francesco parla chiaramente delle quattro azioni fondamentali, ossia accogliere, accompagnare, sostenere e integrare, che possono aiutare ad affrontare la questione migranti».
La Serbia è considerata vicina alla Russia. Il Papa, anche grazie alla missione affidata al cardinale Matteo Zuppi, mantiene aperto un canale con Mosca.
«Il popolo russo è un grande popolo. Ha dato molto alla cultura e allo sviluppo umano. Ho letto i classici russi mentre ero al liceo: Tolstoj, Dostoevskij, Pasternak, Solzenicyn. Quando sono stato in Russia, sono rimasto colpito dall’ospitalità. È necessario rispettare questa grande nazione e al tempo stesso accettare che la società non sia governata solo da regole di stampo occidentale. Pertanto dobbiamo fare il possibile affinché la Russia non si senta esclusa dalla famiglia europea».
Lei ha partecipato all’ultimo Sinodo in Vaticano. Possiamo parlare di “rivoluzione” sinodale nella Chiesa?
«Questa dimensione era già presente nel primo millennio della Chiesa. Ma ciò di cui stiamo parlando oggi è del tutto nuovo. Finora non ci sono mai stati così tanti laici preparati che sanno dialogare in maniera paritaria con il clero, portando la freschezza di cui abbiamo davvero bisogno. Il Concilio ha aperto la Chiesa al mondo. Adesso, con il processo sinodale, la comunità ecclesiale è chiamata a lasciarsi alle spalle un approccio rigido e stantio per spalancare le porte a tutti».
Al Sinodo si è discusso del ruolo delle donne nella Chiesa e anche di diaconato femminile. Ma nel Documento finale il paragrafo sul “genio femminile” ha avuto il maggiore numero di voti contrari.
«Anche nel 2015, durante il Sinodo sulla famiglia, il punto che aveva ricevuto più “no” era stato quello sui sacramenti per quanti vivono relazioni irregolari. C’è chi teme - non importa se vescovo, prete o laico - che una valorizzazione della donna non sia in linea con gli insegnamenti di Cristo. Le paure vanno comprese, anche se oggi nella Chiesa si manifesta una maggioranza che la pensa diversamente. Una maggioranza che non è il risultato di un iter democratico ma del cammino sinodale. Il Battesimo che rende partecipi del sacerdozio comune dei fedeli ci incoraggia a un serio rinnovamento. Serve trovare risposte pastorali nuove anche in questo ambito. E non sono ammessi ulteriori ritardi».
Mille giorni di guerra sono stati mille giorni di solidarietà della Comunità di Sant’Egidio in Ucraina. Grazie a una radicata presenza nel paese dal 1991, Sant’Egidio fin dai primi giorni dopo l’invasione russa ha realizzato un’estesa rete di aiuti umanitari, in grado di rispondere ai bisogni crescenti della popolazione. L’impegno dei membri di Sant’Egidio in Ucraina, alimentato da una catena di solidarietà che parte dall’Italia e altri paesi europei, ha consentito, tra l’altro, di aprire cinque centri per sfollati interni (3 a Kiev, 1 a Leopoli e 1 a Ivano-Frankivsk) che sostengono 10mila persone al mese, e di inviare medicinali in più di 200 strutture sanitarie nelle regioni orientali e meridionali del paese, maggiormente colpite dalle operazioni belliche. Sono state inoltre aperte 9 Scuole della Pace per bambini che hanno sofferto il trauma della guerra nell’ambito di un più ampio sostegno che ha raggiunto circa 10mila minori.
In mille giorni di guerra sono stati inviati 153 carichi, per un totale di 2400 tonnellate di aiuti umanitari e un valore di 27 milioni di euro. 450mila persone hanno ricevuto generi alimentari, abbigliamento, prodotti per l’igiene personale, mentre 2 milioni di persone hanno usufruito degli aiuti sanitari di Sant’Egidio.
L’Ucraina ha bisogno di pace e l’impegno umanitario ne tiene viva la speranza. Per alimentarla c’è bisogno di un sostegno largo e generoso, che non può affievolirsi, ma anzi deve rafforzarsi: dopo mille giorni di guerra, investire sull’aiuto alla popolazione è l’unico modo per dare un futuro all’Ucraina, perché la solidarietà costruisce già oggi un pezzo di pace.
Questa cosa forse un po’ “oscura” fuori dalla Chiesa che è il Cammino sinodale, in realtà, può aiutare l’intero Paese a guardare con fiducia al proprio futuro. Ne è convinto Nando Pagnoncelli, amministratore delegato di Ipsos e membro del Comitato nazionale del Cammino sinodale.
Con il Cammino sinodale la Chiesa si mette in discussione per continuare a parlare alla società di oggi. Qual è dunque il quadro sociale di partenza entro cui si muove questo sforzo?
Il quadro di partenza è caratterizzato da un clima sociale piuttosto negativo, segnato da una successione di crisi dall’inizio del decennio: la pandemia, l'inflazione, la crisi energetica, le guerre e così via. Queste cosiddette policrisi stanno creando disorientamento, incertezza, preoccupazione che portano spesso a un atteggiamento di ripiegamento difensivo rispetto a tutto ciò che ci circonda, alle minacce vere o presunte. Però il clima sociale attuale è anche figlio di un cambiamento di lungo periodo, che riguarda gli ultimi tre decenni e che potremmo definire un cambiamento antropologico, caratterizzato da tre elementi.
Quali sono questi elementi?
Il primo è questa crescente divaricazione tra la dimensione individuale e il senso di appartenenza a una collettività più ampia, quello che Francesco chiama lo scisma tra l’io e il noi. C'è un investimento solo sul se, sull’io, sulle relazioni sociali ristrette e tutto quanto è più lontano viene vissuto o come molto distante o come minaccioso addirittura. Tutto ciò ha un impatto molto forte anche sulla fiducia: quella nelle istituzioni si è fortemente indebolita. Tale frattura verticale si aggiunge a una frattura orizzontale che si esprime in un senso di coesione che è piuttosto limitato. Un secondo aspetto molto importante è la frammentazione identitaria, cioè l’assenza di una visione unica e coerente del sé, che porta a due grandi conseguenze: la multiappartenenza (non c'è un ambito prevalente di cui io mi sento parte) e a contraddizioni enormi nei comportamenti individuali di cui non si è consapevoli.
E il terzo elemento?
È la netta prevalenza delle percezioni sulla realtà: in Italia, più che in altri Paesi, siamo portati ad amplificare la portata dei fenomeni, soprattutto quelli che ci preoccupano di più. Così il Paese viene percepito come “distopico”, un luogo dove, a dispetto di quello che dicono i dati, si pensa ci siano tanti crimini, tanti disoccupati, tanti anziani, tanti immigrati (e potrei continuare con tutti gli altri indicatori). Questo si traduce anche molto spesso in una ignoranza di quelli che sono gli aspetti positivi del Paese. Pochi sanno, infatti, che siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, il primo nella raccolta differenziata dei rifiuti.
E questa visione riguarda anche i credenti?
Sì, su questo non c’è differenza tra credenti e non credenti. Anche i credenti vivono questa frammentazione identitaria e il Vangelo conforma sempre meno il comportamento del credente che tende a tenere conto o a rifiutare il messaggio evangelico in base a quello che è più o meno in sintonia col proprio stile di vita.
E il Cammino sinodale come potrebbe contribuire a cambiare le cose?
È evidente che il Camino sinodale potrebbe rappresentare un antidoto a questo a questo clima. Lo può fare grazie al metodo che si è scelto di seguire, partendo proprio da questa attenzione all’ascolto lungo tutto il processo. Uno stile, che oggi non è scontato, nel momento in cui una parte rilevante degli italiani mette in discussione la democrazia “perché la mia voce non conta, perché non vengo ascoltato”. Il secondo elemento è l'idea del cambiamento: è interessante vedere come tutti reclamino il cambiamento ma nessuno agisce per il cambiamento perché il cambiamento ci mette in discussione mette in discussione i nostri punti fermi, i nostri diritti acquisiti. In politica questa cosa è un aspetto che ingessa la proposta politica dei partiti, che usano proposte o frasi a effetto immediato, che però poi evaporano, perché non perseguono le vere riforme. Queste, infatti, sono sempre impopolari: c’è questa resistenza da parte dei cittadini nell'accettare i cambiamenti, soprattutto nel momento in cui non si conosce il percorso e non si conosce l'approdo. Ogni transizione, invece, ha vincitori e vinti, ma se non si fa niente il Paese si ingessa nel presentismo. Quindi l'idea che la Chiesa decida di mettersi in discussione e proceda verso cambiamento è un altro elemento estremamente importante. L'idea di mettersi in cammino, di immaginare un futuro, sapendo che per cambiare c’è bisogno di tempo, di riflessione, di confronto, è un metodo che è in contrasto rispetto al “tutto e subito” degli ultimi tempi. La Chiesa sta dando un segnale importante da questo punto di vista.
Ma come si potrà portare questo processo fuori dalla Chiesa?
Una volta completato tutto questo Cammino sinodale, l'elemento decisivo sarà come comunicarlo in maniera efficace a chi non ha partecipato a questo percorso sia tra i credenti che tra i non credenti. E questo processo può donare uno sguardo meno severo, meno pessimista uno sguardo più benevolo nei confronti degli altri: non si tratta di “buonismo” ma di affermare che pur nelle difficoltà c’è una speranza ed è necessario trovare le forza e le risorse per andare avanti, senza chiudere in una inutile “retropia”, la nostalgia del passato di cui parlava Bauman. Perché in realtà non abbiamo mai vissuto in un'epoca con le opportunità che offre questo nostro tempo. In questo senso lo sguardo positivo ma consapevole sulla realtà che il Cammino sinodale potrà offrire al l’Italia sarà prezioso anche per la politica e per chi guida il Paese.
Donne sole in fuga dalla guerra, vittime di tratta e mutilazioni. Sono alcune delle terribili esperienze di cui sono pieni gli occhi delle ragazze che bussano alla porta di Casa Betania, struttura di accoglienza per donne e minori richiedenti asilo, aperta a Ferrara dalla Caritas diocesana grazie ai fondi 8xmille, indispensabili per mantenere e assistere le famiglie monogenitoriali al femminile che non rientrano in progetti finanziati da servizi sociali e prefettura e che dunque, altrimenti, non avrebbero dove stare. La struttura - inaugurata nel 2014 nei locali di un ex convento femminile in via Borgovado - può ospitare 30 persone, tra ragazze e bambini. A chi la visita si presenta su tre piani: al primo e al secondo trovano spazio un dormitorio con 12 posti letto, 11 stanze singole e doppie e quattro mini appartamenti con cucine private o condivise dove le ospiti possono preparare i pasti e attraverso l’alimentazione confrontarsi con la cultura delle altre coinquiline e delle otto operatrici. Il piano terra invece è riservato alla lavanderia, cui si accede su turni, l’ambulatorio medico (aperto anche alle persone in difficoltà esterne a Casa Betania), il chiostro dove sono state interrate piante officinali, alberi da frutto e un piccolo orto, e i locali per le attività e la socialità.
Le ragazze sono molto giovani, in media hanno tra i 20 e i 30 anni, e viaggiano con bambini dagli zero ai 14 anni. Fino a qualche anno fa arrivavano soprattutto dalla Nigeria, oggi - oltre alle profughe in fuga dall’Ucraina - provengono in larga parte da Costa d’Avorio e Camerun. "Spesso - spiega Maria Teresa Stampi, che da sette anni lavora come operatrice nella struttura d’accoglienza - si tratta di persone che dopo essere scappate dal proprio Paese hanno trovato lavoro in Tunisia e più recentemente, in seguito all’inasprimento dell’odio nei confronti degli stranieri, hanno dovuto andarsene anche da lì. Sono persone che hanno subito traumi e violenze: storie strazianti con cui sono obbligate a fare i conti, una volta in Italia, dovendo raccontare il proprio passato per sottoporre la richiesta di asilo".
Perciò a Casa Betania le donne vengono accolte e affiancate anche a livello medico, legale e psicologico. "Quando le ragazze arrivano - continua Stampi - sono molto spaesate. Non conoscono la lingua né la cultura e spesso nemmeno esattamente il luogo in cui sono finite. La prima cosa da fare è dare loro un orientamento spazio-temporale. Poi, a poco a poco, cerchiamo di inserirle nel tessuto della società: si spiega come si accede ai servizi e come ci si muove in città". L’accoglienza può durare da uno a tre anni con l’obiettivo di condurre le donne all’autonomia: anzitutto logistica, come iscrivere i bambini a scuola oppure andare a fare un esame del sangue da sole, e poi economica.
In questo senso un ruolo importantissimo lo svolge la scuola di italiano che a Casa Betania frequentano i bambini, con corsi pomeridiani, ma soprattutto le donne suddivise per classi a seconda del livello e seguite quotidianamente da una docente specializzata in insegnamento L2 (quello dedicato agli stranieri).
e tanti volontari. "La lingua - spiega Stampi - è un requisito fondamentale per l’integrazione e l’autonomia. Chi la impara e ottiene la certificazione ha accesso a corsi professionalizzanti per diventare operatrice sociosanitaria oppure cuoca e così accede a lavori anche a tempo indeterminato". Altrimenti è difficile: già i tempi di rinnovo per il permesso di soggiorno sono lunghissimi e spesso rendono impossibile tenere un impiego; se in più non si padroneggia la lingua si trovano solo lavori in campagna e stagionali.
Casa Betania è un calderone di culture e di personalità variegate. "A volte - confida Stampi - è molto difficile la convivenza: sono donne che arrivano da parti del mondo completamente diverse, con mentalità ed esperienze opposte. Eppure riescono a vivere insieme e ad aiutarsi. Ho visto persone che non parlavano una lingua in comune e che pure, nelle difficoltà, si sono date una mano. La nostra è una piccola buona esperienza, che fa poca notizia, ma esempio di quell’umanità invisibile e diffusa che tiene insieme il mondo. A me le ragazze di Casa Betania hanno insegnato ad ascoltare, a non dare niente per scontato e che i problemi - e loro ne hanno visti numerosi e di atroci - ci sono ma si possono affrontare senza farsi sopraffare, con coraggio".
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«La nostra istituzione non vuole essere un collegio, ma un vero e proprio rifugio per i fanciulli abbandonati, dando per ora la preferenza agli orfani di guerra, i quali sono la sacra eredità di chi tutto sacrificò per la patria. Non delimitiamo confini alla Provvidenza: i primi saranno sempre quelli del rione, ma se anche di fuori qualche voce dolorosa di bimbo invocherà il nostro aiuto, se i mezzi e il locale ce lo permetteranno, apriremo le nostre braccia!». Con queste parole don Giulio Facibeni raccontava nel 1924 l’apertura del primo orfanotrofio con il quale nasceva a Firenze, nel quartiere di Rifredi, l’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa.
Iniziava così una storia lunga un secolo fatta di carità, di accoglienza, di apertura alla vita, di attenzione ai bisogni sempre nuovi che via via si affacciavano. Una storia che ancora prosegue, perché la Madonnina del Grappa è attiva ancora oggi nel servizio ai poveri, ai giovani, ai carcerati. L’Opera ha aperto sabato 9 novembre le celebrazioni che durante quest’anno centenario permetteranno di ricordare le radici: non solo come rievocazione del passato, spiega don Vincenzo Russo, che oggi la guida, ma per raccontare un’esperienza viva: «Vivere il centenario è, ancora, andare incontro alle persone e alle famiglie che vivono vecchie e nuove povertà e che bussano alle porte dell’Opera».
Il nome – Madonnina del Grappa – è legato all’esperienza che don Giulio Facibeni (dichiarato venerabile da papa Francesco nel 2019) fece come cappellano militare durante la Prima Guerra mondiale. In mezzo alle granate e ai colpi dei fucili, raccolse le implorazioni dei suoi soldati che in punto di morte gli raccomandavano i figli rimasti a casa. « Ho fisso nell’animo – scrive – lo sguardo invocante e riconoscente dei feriti; l’atteggiamento, sublime nella maestà del sacrificio, di coloro che altri chiamano morti, ma che noi sentiamo così vivi, così presenti». Tornato in parrocchia, al centro della sua attenzione restano i piccoli, gli orfani, i bambini bisognosi: con il desiderio di non limitarsi all’assistenza durante il giorno, come già aveva fatto, ma di poter dare loro una famiglia. La casa, candida e bella come don Giulio la sognava, verrà inaugurata il 4 novembre del 1924.
L’Opera si caratterizzò subito per il suo stile evangelico: cieca fiducia nella Provvidenza e accoglienza verso tutti i bisognosi. Facendo ogni sforzo per non dire no a nessuno. L’arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli, nell’aprire il centenario, ha detto che «nella figura del venerabile don Giulio Facibeni troviamo un modello di un uomo che seppe lasciarsi guardare dal Signore. Salì sul Monte Grappa come assistente dei soldati e scese come padre dei loro orfani. Proprio su quel monte accompagnando i morenti seppe essere un riflesso della misericordia del Signore stesso, attraverso l’intercessione di Maria a cui volle dedicare la sua opera, di cui oggi celebriamo il centenario».
E' una parola “caustica” per la pelle di Israele, ancora ferita dal massacro del 7 ottobre. Non solo per le sue implicazioni giuridiche. L’impiego del termine «genocidio» associato al conflitto a Gaza fa male ai discendenti dei superstiti della Shoah, il genocidio per antonomasia, perché la categoria è stata codificata sui contorni dello sterminio nazista.
L’ultimo libro di Luigi Giussani Una rivoluzione di sé. La vita come comunione (1968-1970), curato da Davide Prosperi e pubblicato da Rizzoli, è stato presentato giovedì 14 novembre presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Il volume raccoglie gli interventi svolti fra 1968 e il 1970 da don Giussani presso il Centro culturale “Charles Péguy”, dal quale sarebbe poi sorto il movimento di Comunione e Liberazione. Durante l’incontro, organizzato da Comunione e Liberazione e dal Centro Culturale di Milano (CMC), sono intervenuti Onorato Grassi, docente emerito di storia della filosofia medievale alla Lumsa; Silvano Petrosino, docente di antropologia filosofica all’Università Cattolica; Alessandro Poltronieri, dottorando di filosofia teoretica all’Università di Bari; Eugenia Scabini, docente emerito di psicologia sociale all’Università Cattolica e co fondatrice del centro culturale “Péguy” nel 1964. A moderare l’incontro è stato Francesco Cassese, responsabile della Fraternità di Comunione e Liberazione per la siocesi di Milano.
Di seguito, alcuni estratti degli interventi:
Francesco Cassese: «Giussani colse l'istanza profonda del sommovimento culturale e sociale del Sessantotto, che indicava il risveglio del desiderio di autenticità nella vita e di cambiamento del mondo, ma sviluppò una proposta per molti versi controcorrente: mentre tutti volevano imporre le proprie immagini rivoluzionarie della politica e della società, Giussani continuò a sostenere che solo nella comunione cristiana è possibile sperimentare la vera liberazione, cioè l'avvento di un mondo più umano concretamente sperimentabile dalla persona».
Eugenia Scabini: «Giussani in quel periodo era nel pieno della sua maturità, eppure si trovava in una situazione precaria. Nel 1965 Gioventù Studentesca viene riconosciuta ufficialmente dalla Diocesi di Milano, ma a Giussani (che aveva dato vita a GS) viene chiesto di proseguire i suoi studi negli Stati Uniti. Al rientro, scopre che circa metà dei “suoi” ex studenti hanno preso strade diverse che sottolineavano l’impegno etico e sociale piuttosto che l’aspetto religioso. Quindi mortificazione e dolore fanno da sfondo agli interventi che si leggono in questo testo. Eppure, da Giussani noi non sentimmo mai una sola parola di recriminazione. Non ha mai fatto trapelare scoraggiamento, abbattimento e perplessità. Ha reagito rilanciando i suoi pochi rimasti, un piccolo gruppo, ai quali comunicò l'annuncio cristiano con una forza e una radicalità che si ritrova in questo volume, che è un testo veramente radicale. Quando ci trovammo la prima volta con lui nel 1968, delle 180 persone che erano lì, una sola proveniva dall’esperienza iniziale di GS, ma per Giussani è un'unità profonda, è la storia che continua; ne è rimasto uno solo, ma quell’uno contiene tutti gli altri, perché è unito agli altri toccati dallo stesso avvenimento».
Onorato Grassi: «Questo volume ci fa capire come è nato o rinato il movimento. Giussani era un lottatore, era come se vedesse qualcosa presente in quel momento e usava le parole per descrivere quello che stava avvenendo davanti ai suoi occhi in quel gruppetto di persone, in quella amicizia in cui lui riscopriva il Mistero che si incarna in un particolare. Era rimasto solo un “piccolo resto”, ma quel resto può cambiare tutto. Neanche Giussani immaginava cosa sarebbe stato, ma non contava cosa sarebbe avvenuto, contava quello che c'era lì.Dopo il Vaticano II c'era un'aria di cambiamento nella Chiesa e nella società. Giussani è unodei pochi a dire che sarebbe tutto inutile se il cambiamento non riguardasse la persona, l'io. Capisce inoltre che non è un progetto di liberazione a mettere insieme le persone, ma è “qualcosa che viene prima” che crea la comunione ed è questa che libera l’uomo. Da qui l’ordine dei fattori nel nome “Comunione e Liberazione”».
Silvano Petrosino: «Di solito i libri riportano tesi “esterne” a chi scrive, invece questo non è un libro di filosofia o di teologia, mentre Giussani è personalmente “dentro” al discorso che sta facendo. Si può essere contro Cl o non condividere le analisi o le scelte del movimento, ma se si ha un minimo di onestà non si può non riconoscere l'autenticità del discorso, di cui questo libro fa emergere il momento sorgivo. Ratzinger distingue tra un Gesù “reale” e un Gesù “storico”. È quello che in questo volume fa anche Giussani, quando nota che la cristianità è finita (oggi lo dicono tutti, lui lo diceva nel 1968…) e pone il problema dell’incontro reale con Cristo. Oggi nessuno nega la storicità di Gesù, ma il problema è come fare a compiere il passaggio al reale. Per questo io penso che Giussani sia stato un padre della Chiesa esattamente perché compie questo passaggio: non ha paura di dire che la cristianità è una forma, mentre il cristianesimo è un avvenimento».
Alessandro Poltronieri: «Giussani in questi incontri si rivolgeva a giovani tra i 25 e i 30 anni, e lui non ha voluto risparmiare a nessuno la sua proposta di un cristianesimo esigente e radicale. Quindi ho letto questo libro cogliendolo innanzitutto come una provocazione per me. Giussani afferma che gli apostoli “credettero per una presenza con una faccia ben precisa”. Ecco, se il cristianesimo viene destituito del suo carattere storico di avvenimento, non può avere la forza di cambiare l'uomo di oggi, nel 2024. Giussani si chiede come quell'incontro avviene ora, e risponde: attraverso la comunione dei credenti. Per Giussani, il metodo dell'Incarnazione è vero oggi come all'inizio. Cristo non è una lontananza nella nebbia del passato, ma è una realtà presente, è la realtà della Chiesa non in termini generici, ma come presenza reale lì dove sei».
«Tante volte come missionari ci siamo sentiti dei “fuori legge” che non significa solo rompere gli schemi, ma trasformare le cose dall’interno, come lievito nella pasta». Così don Giuseppe Pizzoli, direttore della Fondazione Missio ha tracciato le conclusioni dei lavori del Forum missionario che si è tenuto dall’11 al 14 novembre a Montesilvano. «Sostituiamo la parola potere con le parole abilità, prossimità, impegno, prendersi cura», ha suggerito Pizzoli. La Chiesa missionaria in questo senso ha un ruolo fondamentale: «riconciliare tutto ciò che è posto nel segno della divisione», andando oltre la tentazione del potere, ha suggerito il filosofo Roberto Mancini. «Nel messaggio evangelico i cristiani devono saper assumere la direzione di vita annunciata: servizio e cura anziché potere», ha ribadito il docente di Filosofia teoretica, tra i relatori della kermesse alla quale hanno preso parte 230 persone. Convertirsi, significa «uscire dalla cultura della separazione che vede l’altro ridotto a estraneo, la felicità ridotta a chimera e i morti ridotti ad un nulla».
Fin dal titolo, “Cantiere Missione”, il forum di Missio ha voluto tracciare un orizzonte ampio: quattro giorni di incontri, scambio, testimonianze e laboratori per riflettere su una nuova rotta. Dai laboratori tematici è emerso il desiderio di essere “profetici”: la base chiede «comunità aperte e meno clericali», maggiore attenzione «ai fragili, ai giovani, ai poveri, alle Chiese sorelle». Desidera «manifestare la gioia di essere cristiani» attraverso il «coraggio di partire» per dar seguito «all’integrazione tra culture». «Pensiamo spesso che profezia sia rompere gli schemi – ha ribadito don Pizzoli - ma non è solo questo. La trasformazione non fa rumore, è silenziosa, è efficace», lavora sotto traccia.
«Per andare avanti nella nostra missione dobbiamo essere capaci anzitutto di disimparare - ha suggerito padre Dario Bossi, comboniano, da molti anni in Brasile - per fare spazio allo spazio dell’altro». Mettere da parte i protagonismi, imparare dal basso, alla «cattedra dei poveri», apprendere percorsi per stare al passo con i tempi. Padre Dario ha raccontato la sua storia di redenzione con gli impoveriti del nord-est brasiliano, dove le multinazionali minerarie sfruttano il territorio. Paola Caridi, giornalista, storica e scrittrice esperta di Medio oriente e Palestina ha parlato in modo molto esplicito del genocidio di Gaza. «Quello che sta succedendo dentro Gaza viene descritto spesso come qualcosa che non riguarda esseri umani ma oggetti. Noi vediamo solo frammenti di carne e non ne riconosciamo l’umanità». A Gaza «stiamo assistendo ad un genocidio», ha detto Caridi. Suor Rosemary Nyirumbe dall’Uganda ha condiviso la sua “intuizione creativa” per trasformare in dono la vita delle donne ugandesi vittime dei guerriglieri, grazie ad una macchina da cucire. Donne rapite e coinvolte loro malgrado nella guerra, oggi sono risorte. Padre Filippo Ivardi, comboniano da Castel Volturno ha parlato della rete di bellezza sorta nella «discarica dei popoli». «Siamo a due passi da tutto, tra Caserta e Napoli, lungo la via Domiziana: in 27 km sono rappresentati 92 stati al mondo. I più numerosi sono nigeriani e ghanesi, arrivati nel corso degli anni». Giacomo Crespi e Silvia Caglio, coppia missionaria fidei donum di Milano per sei anni sono stati in missione a Pucallpa, in Perù. «Eravamo stranieri in terra straniera ma non ci siamo mai sentiti soli. Al rientro in Italia abbiamo vissuto la difficoltà di tornare in un mondo che sentivamo non più nostro». Padre Alejandro Solalinde dal Messico ha detto: «penso che la migrazione non sia solo un fenomeno di per sé ma il segno più importante dei tempi: uno specchio attraverso il quale possiamo vedere la nostra anima. Noi siamo loro e quando loro camminano anche noi camminiamo».
«Noi come gruppo animatori ci impegniamo a non creare queste situazioni nella nostra comunità, infondendo i buoni valori nei ragazzi come il rispetto, la pazienza, l’ascolto, la fiducia, la gentilezza, l’empatia». È un passaggio della preghiera preparata dal gruppo di animatori della diocesi di Concordia-Pordenone che questa sera verrà recitata nel corso della Veglia per le vittime e degli abusi. Una delle cento e più iniziative che da questo fine settimana e per i prossimi quindici giorni vengono organizzare nelle comunità ecclesiali del nostro Paese in occasione della quarta Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, che si celebra oggi in tutta Italia e che è dedicata al tema «Ritessere fiducia» . Obiettivo - dell'iniziativa di Pordenone, come di tutte le altre in programma - quello di raccogliere l’invito del Consiglio permanente della Cei per un momento di riflessione e di confronto da dedicare alla prevenzione e alla sensibilizzazione su un tema complesso, delicato ma sempre più fondamentale. Promuovere cioè una nuova cultura della generatività, capace di mettere al centro i minori e le persone più fragili. Che non significa soltanto sconfiggere la piaga degli abusi in tutte le diverse declinazioni – di potere, spirituale, sessuale – ma costruire una Chiesa in cui la fraternità prenda il posto del clericalismo.
Ecco perché la quarta Giornata di preghiera, pur importante in sé, diventa davvero rilevante per come è stata preparata e per quello che riuscirà a suscitare. La presenza di un Servizio per la tutela dei minori in tutte le 226 diocesi italiane e l’attività dei 108 centri d’ascolto – di cui tanti interdiocesani – racconta di un impegno ormai condiviso e convinto. Per tutti, tra le attività più urgenti, c’è la formazione.
«Negli ultimi due anni – raccontano Flora e Michele De Leo, coppia referente del Servizio diocesano della diocesi di Concordia-Pordenone – abbiamo affrontato con i seminaristi vari aspetti del problema, da quelli legali a quelli psicologi. Nella nostra équipe diocesana abbiamo psicologi, avvocati, educatori, canonisti, esperti di pastorale e non è stato difficile quindi gestire questi momenti di approfondimento». Le proposte formative sono state rivolte anche ai sacerdoti, alle parrocchie, agli educatori di Azione Cattolica, alle religiose. «Abbiamo anche preparato un volumetto per sintetizzare i sussidi diffusi dal Servizio nazionale – aggiungono i coniugi De Feo, che hanno alle spalle vent’anni di impegno nella pastorale familiare – in modo da fornire un testo più agile sul pensiero della Chiesa. E abbiamo visto che si tratta di un aiuto gradito».
Spiegare e formare non significa naturalmente mettere in secondo piano le ferite da risanare. Don Andriano Di Gesù, referente del Servizio interdiocesano Lazio Sud che coinvolge le diocesi di Gaeta, Agnani-Alatri, Frosinone-Veroli-Ferentino, Latina-Terracina-Sezze-Priverno, Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo, spiega che negli ultimi due anni il Centro d’ascolto online ha fatto soprattutto da catalizzatore per uomini e donne desiderosi di raccontare il loro dramma esistenziale. Nella maggior parte dei casi abusi risalenti a vari decenni or sono, tutti risolti anche dal punto di vista giudiziario, ma le cui ferite interiori non si sono richiuse. «Queste persone – racconta don Di Gesù – hanno soprattutto il desiderio di parlare, di aprire il cuore, perché la sofferenza di un abuso, anche risalente a molti anni fa, non è mai davvero superata». In questi casi alle persone incaricate di gestire lo “sportello”, tutte con grande sensibilità umana, non rimane che condividere il dolore: «Sono pratiche che non si archiviano mai. Non è che risolto il caso, si possono dimenticare. Credo che una Giornata di preghiera come quella che celebriamo oggi – riprende il referente del Centro interdiocesano Lazio Sud – serva appunto a far capire a tutte le vittime che non ci dimentichiamo di loro, che la Chiesa intera soffre per un fratello o per una sorella ferita». L’importante, fa notare ancora il sacerdote, che non siano parole di vago conforto, ma diventino un percorso riparativo autentico, sia a livello spirituale, sia – quando è il caso – sotto il profilo della giustizia civile e penale. Perché in questo ambito lo sforzo è quello di “ritessere fiducia”, con un impegno comune capace di coinvolgere Chiesa e società. Che è proprio il titolo del convegno organizzato dal Servizio interdiocesano Lazio Sud per il prossimo 27 novembre, con gli interventi della presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori, Chiara Griffini, e della responsabile dell’Area salute e welfare del Censis, Ketty Vaccaro.
Obiettivi ad ampio spettro – educativi, culturali, formativi, spirituali – che si ritrovano anche nell’attività del Servizio diocesano per la tutela dei minori di Bologna, dove quest’anno la Giornata di preghiera non verrà celebrata con un evento centrale, ma con decine di proposte locali, nelle parrocchie e nelle comunità. Lo racconta don Gabriele Davalli, direttore dell’Ufficio famiglia e membro della Commissione diocesana per la tutela dei minori. «Con la nostra referente, Giovanni Cuzzani, che è psicologa, e con la responsabile del Centro d’ascolto, Maria Parma, avvocato, abbiamo deciso che tanti eventi su scala ridotta potessero essere più coinvolgente rispetto alla grande celebrazione in cattedrale». A Bologna, accanto all’impegno nella formazione con molti fronti aperti (diaconi, insegnanti di religione, educatori Agesci), sono arrivate anche varie richieste di aiuto al discernimento da parte di sacerdoti. «Ci sono alcuni episodi che non possono essere definiti abusi, ma situazioni particolari che però non vanno trascurate né banalizzate. Di fronte alle varie richieste – prosegue don Davalli – decidiamo in équipe il modo migliore per intervenire e affrontare il problema da varie prospettive. Sappiamo che gli abusi rappresentano una spirale subdola, dall’abuso di potere si può passare a quello di coscienza e poi a quello sessuale. Non è sempre facile educare a questa consapevolezza». Da una parte il rischio – come mettono in luce tutti gli addetti ai lavori – si chiama negazione, dall’altra tentativo di ridimensionare, minimizzare. «Ecco – conclude l’esperto – questi sono gli atteggiamenti negativi che dobbiamo superare. E una Giornata come quella di domani può servire a ribadire con forza che tutti insieme, come Chiesa, abbiamo imboccato un’altra strada».
Intanto da ieri, MilanoSette, il dorso settimanale di Avvenire per l’arcidiocesi ambrosiana, ha avviato una rubrica dedicata alla tutela dei minori. Sarà un vocabolario della prevenzione. Ogni mese, una parola. Si parte da “fiducia”. Riconquistarla sarà un grande traguardo.
Tra i tanti insegnamenti controcorrente che ci vengono dal Vangelo uno dei più originali, e per certi versi rivoluzionari, riguarda la grandezza. Cioè il Signore ci insegna che la via privilegiata per essere grandi agli occhi di Dio è farsi piccoli. Che non significa falsa modestia ma rinunciare al proprio narcisismo, svuotarsi il più possibile della propria rivendicata autosufficienza per lasciare spazio all’amore di Dio, in modo da lasciarsene guidare. Ma “diventare piccoli” è anche sinonimo di libertà. Pensiamo ai bambini: dicono quello che sentono dentro perché hanno il cuore leggero, senza inutili vincoli, così da poter più facilmente volare in alto. Lo ricorda in questa breve meditazione spirituale don Luigi Pozzoli (morto nel 2011 a 79 anni), per oltre vent’anni parroco di Santa Maria del Paradiso a Milano nonché autore di tanti fortunati volumi, tra cui appunto “Elogio della piccolezza”.
«Dio non vuole gente che abbia delle virtù, ma fanciulli che egli possa prendere come si solleva un bambino, in un momento, perché è leggero e ha grandi occhi; non è una santità a basso prezzo, ma una “piccola via”, per collegare la santità allo spirito d'infanzia evangelico, che è spirito di semplicità, di fiducia, di abbandono incondizionato alle iniziative di Dio. C'è un complotto dei “grandi” contro l'infanzia forse? Basta leggere il vangelo per rendersene conto. Leggeri, come quella lunga schiera di piccoli che attraversano la storia senza che la storia parli di essi: sono uomini e donne che hanno nel cuore le parole della leggerezza, che sono capaci di solitudine e silenzio, che sono guariti da ogni smania di apparire e da ogni pretesa di sapere. Ancora la domanda: perché Dio si è convertito al fascino della piccolezza? Perché la piccolezza è libertà. Chi è evangelicamente piccolo, non solo è leggero, ma anche libero. È il bambino che può dire tutto quello che vuole, non l'adulto. Potremmo dire: i bambini sono «pericolosi» perché non hanno il buon senso di tenersi per sé la verità. Allo stesso modo i piccoli del vangelo sono le persone più libere. E si potrebbe facilmente dimostrare che le persone grandi e «pesanti», attaccate al potere e alle cose, non sono libere. Nessuno è più libero di Gesù, perché nessuno è più povero di lui. È povero di beni, è povero di legami familiari, è povero di successi umani. Per questo, non avendo nulla da difendere è libero anche di fronte alla morte».
Se la Chiesa deve cambiare per continuare a parlare al mondo allora deve prima di tutto pensare a come trasformare se stessa, senza chiedere che a mutare siano prima di tutto gli altri. Ecco perché oggi alla comunità cristiana «è richiesta una dieta, è chiesto di liberarsi da pesantezze che la affliggono»: per farlo basta che segua lo stile emerso con chiarezza nel percorso di questi ultimi tre anni con il Cammino sinodale. È l’arcivescovo Erio Castellucci, vicepresidente della Cei e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, a fare luce su come guardare avanti dopo l’intensa esperienza della prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, che ha visto mille delegati dalle 226 diocesi italiane convenire nella basilica di San Paolo Fuori le Mura. Lo fa chiudendo i lavori, al termine della restituzione dei lavori di confronto ai cento tavoli e degli interventi dei delegati, nell’ultima mattina di lavori dell’Assemblea. «L’organizzazione di questo evento – ha detto il presule – è già di per sé esperienza di Chiesa sinodale». L’auspicio, allora, è che lo stile del dibattito che ha brulicato tra le sedie e i tavoli in basilica, fatto di ascolto, dialogo e partecipazione, espressione concreta di tutto quel lavoro capillare compito in tre anni sul territorio di tutta la Penisola, incida profondamente nelle Chiese locali.
Infine, ha concluso Castellucci, l’esperienza sinodale ha dotato chi vi ha preso parte «di una vista più profonda; ci ha abituato a scrutare le pieghe della nostra storia, cogliendo con umiltà sia le ferite dentro e fuori la Chiesa, sia i raggi di speranza e di vita, che abitano il quotidiano delle case e delle strade e che spesso restano sepolti sotto la coltre delle cattive notizie. Anche in questi giorni, ai nostri tavoli, abbiamo fatto circolare esperienze belle e positive, autentiche spie della crescita del Regno di Dio nel nostro tempo. Sono solo germogli, ma la sfida della ricezione sinodale sarà poi quella di sostenere questi stili perché diventino strutturali nelle nostre Chiese».
Chiuso questo capitolo, quindi, è il tempo di guardare avanti: lo hanno ricordato tutti i delegati presenti anche nel messaggio inviato al Papa in risposta alle parole che lui stesso aveva mandato all’inizio dei lavori. Nel testo, letto dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, i rappresentanti delle diocesi italiane rivolgono il lodo grazie al Pontefice per il sostegno e l’incoraggiamento ricevuti. «La nostra gratitudine diventa adesso impegno nel tradurre in decisioni e scelte concrete le riflessioni raccolte nelle fasi di ascolto e discernimento di questi anni di Cammino sinodale e dai lavori di queste giornate», sottolinea, poi, il messaggio. «È il tempo di realizzare quella missione nello stile della prossimità, che aveva animato san Paolo – prosegue il testo –. Il libro degli Atti racconta che i primi passi della sua missione sono avvenuti con altri apostoli e discepoli come Barnaba e Giovanni, prendendo letteralmente il largo per fondare e sostenere le comunità cristiane primitive. Sentiamo anche noi questa vocazione ad una missione condotta non in solitaria, ma insieme, per portare con coraggio e speranza il Vangelo, anzitutto attraverso la testimonianza dell’amore fraterno».
Anche per Zuppi, le giornate di lavoro a Roma sono state particolarmente intense, percorse da un profondo sentimento di gioia. Giorni in cui, secondo il porporato, si è respirata una «sobria ebbrezza». Un atteggiamento che fa riflettere davanti a un mondo ferito, rabbuiato, sofferente e segnato dalle guerre: «Di fronte a questo mondo – ha detto Zuppi – la Chiesa ha espresso la sobrietà che nasce dall’essere consapevoli, ma non scettici, senza supponenze ma con convinzione, senza enfasi, ma con consapevolezza della storia». Ma serve anche l’ebbrezza: «Non dobbiamo avere paura di essere contenti, di provare questa gioia – ha auspicato Zuppi –, semmai dobbiamo avere paura di perderla». All’Assemblea sinodale, ha proseguito il cardinale, «forse non abbiamo capito tutto, ma proviamo ebrezza per questa esperienza di Chiesa, per una Chiesa con le ammaccature che non abbiamo nascosto, ma anche capace di esprimere maternità ad esempio verso i fragili e verso gli ultimi». E i poveri, ha ricordato Zuppi inserendosi così nella celebrazione della Giornata mondiale del povero, «sono la prima attenzione che chiedono alla Chiesa di uscire. La Chiesa non esiste senza i poveri, perché altrimenti diventa un club in cui ci si parla addosso». Ecco il compito allora: «Essere costruttori di comunità, essere famiglia: perché – ha notato il cardinale - se non siamo famiglia difficilmente aiuteremo le famiglie».
La rotta in qualche modo è tracciata, anche se non definita, come ha ben sottolineato monsignor Valentino Bulgarelli, segretario del Comitato nazionale del Cammino sinodale: «Non c’è un documento scritto nei cassetti, lo stiamo costruendo assieme», ha notato il sacerdote riferendosi alla fase di rielaborazione delle sintesi e poi di confronto nelle diocesi che si svolgerà nei prossimi mesi fino alla seconda Assemblea sinodale.
Un lavoro da vivere nella gioia: ad auspicarlo è stato, durante la preghiera delle Lodi che hanno aperto l’ultima giornata di lavoro, il vescovo di Cassano all’Jonio, Francesco Savino, vicepresidente della Cei: «Di quanta gioia abbiamo bisogno! Essa manca, ci insegna papa Francesco, quando restiamo una Chiesa autoreferenziale – ha notato nella sua meditazione –. Uccidono la gioia le prudenze ipocrite, quelle tese a non perdere favori e vantaggi, a non avere noie coi potenti. Uccidono la gioia gli eterni rinvii, il far finta di non avere sentito, il rinviare di commissione in commissione, la bugia insistente che “i problemi sono altri”: sono sempre altri, mai quelli che il popolo ha inteso, mai quelli che hai visto tu, mai quelli che ci caricano di voglia di rimboccarci le maniche e lavorare insieme». E poi un appello forte a laiche, laici: «In forza del vostro Battesimo scuotete la nostra Chiesa perché il clericalismo sia vinto. Esso imprigiona anche noi vescovi e tanti bravi preti in un sistema di sicurezze e di distanze, di temporeggiamenti e di rinvii a fronte dei quali abbiamo gente che muore, italiani che non sanno cosa sperare, migranti criminalizzati e deportati, diritti calpestati e doveri dimenticati, carismi soffocati e profeti isolati».
«Desidero che i miei amici incontrino Gesù in modo semplice, perché un incontro autentico è anche semplice, e semplicità spesso è sinonimo di cura – sottolinea Matteo Spadini, 20 anni, delegato alla Prima Assemblea sinodale per la diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, uscendo dalla Basilica di San Paolo fuori le Mura, durante una pausa dai lavori nei tavoli –. Non possiamo sbagliare comunicando in modo non comprensibile, e il Sinodo in questo può fare molto bene alla Chiesa».
Cento tavoli sinodali e, attorno a ciascuno, seduti uno accanto all’altro, tantissimi giovani che per un giorno intero si sono confrontati alla pari con vescovi, sacerdoti, religiosi, suore e laici adulti. L’ingresso della Basilica, che ospita fino a oggi la Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, ieri si è riempito delle voci dei circa mille delegati, dalle diocesi di tutto il Paese, al lavoro insieme sulle 17 Schede tematiche. Proprio dalle parole dei giovani sono emerse la grande passione per la realtà ecclesiale e le spinte più forti verso un cambiamento sempre più urgente.
«La vita cristiana deve arrivare a toccare la quotidianità dei giovani, altrimenti non ha senso», continua Matteo che studia all’università e fa parte della Pastorale giovanile. L’Assemblea gli sembra lo specchio di una Chiesa autenticamente sinodale, che fa sedere un giovane «allo stesso tavolo di un vescovo per confrontarsi su come portare agli altri Gesù nella maniera migliore». Quella che sogna è una comunità cristiana «che riesca a parlare alla ferialità di ciascuno, nelle sue sfumature più luminose e più buie». Un’ultima sottolineatura riguarda la comunicazione. «Mi stanno a cuore le modalità con cui la Chiesa sceglie di raccontare le questioni più importanti della vita – conclude Matteo –, troppo spesso resta ingessata nella formalità».
Sul tema dell’attenzione alla marginalità, invece, si sofferma Giulio Lago, che ha 25 anni, nella vita fa lo psicologo ed è delegato della diocesi di Vicenza. «La Chiesa che sogno è una casa per tutti – racconta –, che rimette al centro chi è spinto ai margini della società. Una Chiesa che sappia tornare al messaggio autentico di Gesù, che non ha parlato solo a una categoria di persone e non ha mai emarginato nessuno». E poi aggiunge: «La società sta cambiando, stanno nascendo forme nuove di pensiero, e ci viene chiesto di cambiare mentalità sulle questioni giovanili, sui migranti, sulle nuove forme di affettività e sul supporto alle famiglie. Come Chiesa dobbiamo raggiungere questi “ambienti”, dovremmo “uscire” come ci chiede papa Francesco, uscire talmente tanto da rischiare anche di starci male».
E “uscire” è cosa da cuori giovani e appassionati, come ha ricordato lo stesso Pontefice ieri all’udienza per i vent’anni del Consiglio nazionale dei giovani. «È importante dunque sapere che i giovani italiani sanno essere artigiani di speranza perché sono capaci di sognare – ha sottolineato il Papa –. Per favore, non perdete la capacità di sognare: quando un giovane perde questa capacità, non dico che diventa vecchio, no, perché i vecchi sognano. Diventa un “pensionato della vita”. È molto brutto. Per favore, giovani, non siate “pensionati della vita”, e non lasciatevi rubare la speranza!».
Antonina Bommarito, invece, ha 23 anni e studia Beni culturali all’Università di Palermo. È a Roma come delegata dell’arcidiocesi di Monreale. «A toccarmi più di tutti è il tema della missione – spiega la giovane, che fa parte del Cammino neocatecumenale – soprattutto perché molti ragazzi non credono più nella Parola, non pensano sia utile per la vita». Nel suo tavolo di lavoro, il tentativo è stato quello di «cercare un metodo per far riscoprire la bellezza del Vangelo che è una Parola di felicità, di gioia, di libertà». Quella che desidera Antonina è una Chiesa «che sappia ascoltare tutti e lasciare che tutti possano esprimersi, andando incontro in prima persona a chi è lontano». Una richiesta importante, poi, è per il mondo adulto. «Spesso i giovani vengono messi a tacere dai più grandi, come se i loro problemi non fossero mai all’altezza. Invece molti di noi vivono sofferenze anche nuove, esistenziali, profondissime e servirebbe un ascolto che non giudica».
La Chiesa che sogna Pasquale Ciuffreda, che ha 26 anni ed è delegato dell’arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo, è una Chiesa «permeabile all’umano, che si lascia “attraversare” dal vissuto degli uomini e delle donne, e che sa ascoltare le domande di senso dei giovani». Una Chiesa sinodale, dunque, che «parli con la prima persona plurale: il noi. Un “noi” in cui tutti possiamo essere protagonisti, dove tutti siamo sullo stesso livello, dove le nostre idee sono messe a disposizione di tutti, per essere davvero Chiesa missionaria». I giovani, aggiunge Pasquale che vive il suo cammino di fede in Azione Cattolica, «ci chiedono di essere più attraenti, perché molte volte non sappiamo essere una Chiesa gioiosa, che sa contagiare con la felicità. La sfida, per giovani e adulti, è quella di mettersi in dialogo con queste persone, un dialogo che spesso non è fatto di parole ma di gesti, di emozioni che sanno fare breccia nei cuori».
«La Chiesa che sogno è aperta all’accoglienza, è gioiosa, lieta e sempre in cammino verso gli altri, testimoniando con i fatti l’amore di Cristo – afferma Maria Chiara Galli, 26 anni, delegata dell’arcidiocesi di Modena-Nonantola –. Vorrei che non avessimo paura del confronto e che usassimo i termini giusti, chiamando le cose con il loro nome, senza giri di parole. Termini che incarnino il momento che stiamo vivendo. Ecco, sono convinta che questa Assemblea darà molti frutti, porterà a molti cambiamenti, senza snaturare la bellezza di ciò che siamo».
«L’introduzione della seconda edizione del Messale Ambrosiano è occasione per riprendere il tema del celebrare, per rendere le celebrazioni attrattive e edificanti per tutto il popolo di Dio». Inoltre: «Il Messale può essere illuminante anche per la preghiera personale. Per noi ambrosiani, la ricchezza dei prefazi è un’autentica miniera di spiritualità». Così l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, scriveva nella proposta pastorale 2024-2025 Basta. L’amore che salva e il male insopportabile.
Ebbene: il giorno è arrivato. Oggi – 17 novembre, prima Domenica dell’Avvento ambrosiano – entra in vigore il nuovo Messale. O, più precisamente, la seconda edizione del Messale Ambrosiano, la cui prima edizione – realizzata durante l’episcopato del cardinale Giovanni Colombo – risale al 1976, mentre l’ultimo aggiornamento è del 1990 - quando era arcivescovo il cardinale Carlo Maria Martini.
Annunciata da Delpini lo scorso 20 febbraio, in Duomo, al termine della celebrazione penitenziale quaresimale per il clero, la seconda edizione è stata promulgata il 28 marzo, Giovedì Santo, durante la Messa Crismale. Oggi alle 17.30 in Cattedrale Delpini presiede la Messa della prima Domenica d’Avvento (nel corso della quale si ricorda anche l’80° di Coldiretti: diretta su chiesadimilano.it e sul canale YouTube della diocesi). E si servirà del nuovo Messale: che lo stesso presule – ieri sera nella chiesa dell’oratorio San Rocco di Seregno (Monza), in occasione della veglia d’inizio Avvento con i 18 e 19enni – ha idealmente consegnato ai giovani della diocesi perché se ne facciano “ambasciatori” nelle comunità.
La seconda edizione del Messale sarà utilizzata non solo nelle parrocchie di rito ambrosiano dell’arcidiocesi di Milano, ma anche nelle parrocchie delle diocesi di Bergamo, Lodi, Lugano e Novara che seguono lo stesso rito. Il libro liturgico – ricorda inoltre una nota diffusa dall’arcidiocesi – è stato inviato ad altre chiese fra cui le quattro Basiliche papali maggiori, a Roma, la basilica di San Francesco ad Assisi, i santuari mariani di Loreto, Lourdes e Fatima, la Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme e quella della Natività a Betlemme.
Il nuovo Messale – che ha comportato anche un intervento di ripensamento grafico – è il frutto di un importante lavoro di revisione che ha riguardato sia la composizione sia il contenuto. Le novità qualificanti? Anzitutto: la riorganizzazione del Tempo Ordinario, le cui 32 domeniche – in linea con la nuova scansione dell’Anno Liturgico – sono state ripartite nei Tempi “dopo l’Epifania” (dall’Epifania alla Quaresima) e “dopo Pentecoste” (dalla Pentecoste all’Avvento). L’introduzione di nuovi santi e beati ha inoltre reso necessario un aggiornamento del Santorale o “Proprio dei Santi”. Ora, dunque, ci sono le Messe complete di figure care ai fedeli ambrosiani come santa Gianna Beretta Molla (28 aprile), san Paolo VI (30 maggio) e i beati Alfredo Ildefonso Schuster (30 agosto) e Carlo Gnocchi (25 ottobre). Sul piano dell’aggiornamento del linguaggio: alcuni testi liturgici sono stati rivisti per renderli più attuali e vicini alla sensibilità contemporanea. Sul versante dei nuovi testi liturgici: sono stati introdotti nuovi brani, come un secondo prefazio per la domenica della Santissima Trinità, e la Messa “Chiesa dalle genti”, arricchendo e rinnovando così la preghiera liturgica ambrosiana. Una particolare attenzione è stata inoltre posta alla revisione delle Messe per i defunti. L’obiettivo: esprimere meglio il senso della morte e l’annuncio della speranza cristiana nella vita futura.
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«Padre, fonte della vita, con umiltà e umiliazione ti consegniamo la vergogna e il rimorso per la sofferenza provocata ai più piccoli e ai più vulnerabili dell’umanità e ti chiediamo perdono». Fanno abbassare lo sguardo, risuonano sotto la pelle e toccano le profondità del cuore queste parole pronunciate nella maestosa e solenne cornice della Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma. Parole che segnano la sera romana, poco dopo il tramonto, ieri sera, quando tutti i delegati dell’Assemblea sinodale delle Chiese in Italia le hanno pronunciate assieme: cardinali, vescovi, preti, diaconi, religiose, religiosi, laiche e laici, uniti in questa richiesta di perdono per una delle macchie più gravi e pesanti nel cammino della Chiesa. Hanno un peso, quelle parole, perché lì, in quell’aula che per tre giorni si è animata di tutta la bellezza della vita ecclesiale, ci sono idealmente tutti, a partire da quei pastori, che per loro mandato hanno il compito di vegliare sulle persone che si affidano alla comunità cristiana, specie i piccoli e i fragili.
Ed è proprio sfruttando quel senso di affidamento e di fiducia che chi compie abusi genera ferite profonde non solo nelle vittime, ma anche in chi appartiene alle rete di relazioni delle vittime, come i familiari. Ecco perché «Ritessere fiducia» è il tema scelto per questa quarta Giornata nazionale di preghiera per le vittime di abusi, che si terrà domani. Una ricorrenza che la Chiesa italiana, però, ha voluto anticipare proprio con le preghiera dei Vespri di ieri sera, alla fine delle giornata centrale di lavori della prima Assemblea sinodale.
Di fronte al dramma degli abusi, ha detto il segretario generale della Cei, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, nell’omelia durante i Vespri, «non volgiamo lo sguardo da un’altra parte», perché «uno strappo come l’abuso non può essere sanato da una nuova toppa ma solo da una nuova veste, da un cambiamento radicale di cultura, di metodo, di cuore, un cambiamento che richiede l’infinita pazienza del dolore espresso e ascoltato, la speranza alimentata e valorizzata, la fiducia riannodata».
La celebrazione di ieri sera, ha spiegato alla stampa Chiara Griffini, presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori della Cei, «è stata un gesto importante e doveroso. Nella fase narrativa si sono costituiti 50mila gruppi di ascolto – ha sottolineato Griffini – e dalla sintesi di questo capillare lavoro sul territorio è emersa la forte richiesta di saldare il debito di ascolto con coloro che sono stati feriti dagli abusi nella Chiesa. La preghiera per le vittime all’Assemblea, quindi, è un passo in questa direzione, è un passo per aiutare a ritessere la fiducia ed esprime un impegno più deciso da parte della Chiesa italiana a rendere sempre più sicure le comunità cristiane, non solo per i minori – ha chiosato Griffini – ma per chiunque ne incroci il cammino».
Il materiale di riflessione per la quarta Giornata nazionale di preghiera e sensibilizzazione per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, in particolare il commento biblico, è stato preparato da persone che stanno cercando con fatica di ritessere la fiducia spezzata in loro da abusi subiti in prima persona o dai loro figli da parte di sacerdoti e operatori pastorali laici. «È un gruppo di persone che incontra regolarmente la presidenza e la segreteria della Cei e da questi incontri sono nati, in maniera spontanea, questi testi: non si può pregare per le vittime senza dare voce alle vittime – ha sottolineato ancora Chiara Griffini –. E nel cammino di preparazione alla Giornata questo gruppo ha riconosciuto un impegno importante nella cura delle ferite. Una via – ha concluso la presidente del Servizio per la tutela dei minori – che non può sostituirsi ai necessari procedimenti giuridici, ma che è necessaria per accompagnare chi vive questo dolore».
Il cambiamento richiesto, ha notato da parte sua Baturi, «è possibile imparando ad amare gratuitamente i nostri piccoli, senza possessività e violenza, senza alcuna pretesa. La vita nostra per la loro felicità. Per noi, oggi, tale cambiamento è parte della grazia della fede, della scelta di seguire il Signore per guardare i piccoli come lui li guarda, per amarli come lui li ama. Così la gratitudine della fede diviene cura. Guardiamo questa immagine posta davanti a noi – ha concluso l’arcivescovo –: sappiamo essere gli occhi, gli orecchi, le braccia di Cristo per ogni piccolo affidato alle nostre cure».
La preghiera del povero
Papa Francesco, nell’anno 2017, ha istituito la Giornata Mondiale dei Poveri intendendo così essere risposta della Chiesa intera ai poveri (dolore, emarginazione, sopruso, violenza, torture, prigionia e guerra, privazione della libertà e della dignità, ignoranza e analfabetismo, emergenza sanitaria e mancanza di lavoro, tratta e schiavitù, esilio e miseria) perché non pensino che il loro grido sia caduto nel vuoto. Ecco i temi delle Giornate Mondiali dei Poveri:
Il 13 giugno 2024, nella memoria liturgica di S. Antonio da Padova, patrono dei poveri, papa Francesco ha inviato alla Chiesa universale un messaggio molto bello per l’VIII Giornata Mondiale dei Poveri dal titolo «la preghiera del povero sale fino a Dio» (Sir 21,5). Il testo biblico mette in evidenza come i poveri hanno un posto privilegiato nel cuore di Dio, a tal punto che, davanti alla loro sofferenza, Dio è “impaziente” fino a quando non ha reso loro giustizia. Nessuno, proprio nessuno è escluso dal suo cuore!
La giornata mondiale dei poveri è diventata un appuntamento annuale che invita ogni credente e ogni comunità ad ascoltare la preghiera dei poveri, prendendo coscienza della loro presenza e necessità. Ascoltare i poveri significa anche essere discepoli dei poveri; sì possiamo andare alla scuola dei poveri! Essi, in una cultura che ha messo al primo posto la ricchezza e spesso sacrifica la dignità delle persone sull’altare dei beni materiali, remano contro corrente evidenziando che l’essenziale per la vita è ben altro.
Nel suo messaggio, Papa Francesco ci invita, in cammino verso l’Anno Santo 2025, a custodire «i piccoli particolari dell’amore» nella fedeltà quotidiana: fermarsi, avvicinarsi, dare un po’ di attenzione, un sorriso, una carezza, una parola di conforto...
Un aspetto, a mio parere molto importante, è richiamato al n. 5 del messaggio del Papa: la preghiera. “Abbiamo bisogno di fare nostra la preghiera dei poveri e pregare insieme a loro. È una sfida che dobbiamo accogliere e un’azione pastorale che ha bisogno di essere alimentata. In effetti, la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria”.
Mani per la preghiera
Il quarto centenario della fondazione della Congregazione della Missione è, non solo per i Missionari vincenziani ma per tutta la Chiesa, per tutti i credenti un invito alla preghiera, ad avere mani per la preghiera.
Anche in questa seconda riflessione vi propongo un dipinto su tela Uomo in preghiera dell’artista bosniaco, fuggito dall’assedio di Sarajevo, durante la guerra nei Balcani degli anni ’90, Safet Zec. L’artista raffigura un uomo che proprio nella preghiera, trova la luce e la speranza nell’oscurità.
Questa immagine può essere accompagnata dall’icona biblica della guarigione del sordomuto (Marco 7,32-37): «Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: "Effatà", "Apriti"».
Il testo biblico rivela che il profondo legame tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo deve entrare anche nella nostra preghiera. In Gesù, vero Dio e vero uomo, l’attenzione verso l’altro, specialmente se bisognoso e sofferente, Lo portano a rivolgersi al Padre, in quella relazione fondamentale che guida tutta la sua vita. Ma anche viceversa: la comunione con il Padre, il dialogo costante con Lui, spinge Gesù ad essere attento in modo unico alle situazioni concrete dell’uomo per portarvi la consolazione e l’amore di Dio. La relazione con l'uomo ci guida verso la relazione con Dio, e quella con Dio ci guida di nuovo al prossimo.
Vincenzo de’ Paoli tra servizio e preghiera
Vincenzo, toccato dalla vicinanza con i poveri, ebbe su di loro uno sguardo teologico, uno sguardo cioè che Dio, nella storia della salvezza, ha mostrato di avere verso il popolo dell’alleanza, ridotto in miserevoli condizioni: lo sguardo onnicomprensivo dell’amore di misericordia, che e` stato reso trasparente e inconfondibile dallo sguardo con cui Gesu` accarezzava peccatori, sfortunati e deboli.
I poveri divengono per Vincenzo il punto maggiormente sensibile della sua coscienza, al cui contatto il suo spirito vibrava. Jean Calvet (un suo biografo) scrive: “Egli sentiva, credeva che realmente, senza metafora, il mendicante, lo straccione era suo fratello. Se tutti i giorni faceva sedere alla sua mensa due poveri della strada e voleva servirli lui stesso e` perche´ vedeva in loro Gesu` Cristo, ma prima di tutto e` perche´ vedeva in loro i suoi fratelli. E poiche´ fratelli infelici, pensava che meritassero questo sguardo particolare: li considerava suoi “padroni e signori”[1].
Ritraducendo con altro linguaggio una sua esortazione in favore dei poveri, possiamo riascoltarlo in queste parole: “Guardate i poveri, osservateli bene. Sono rozzi, abbruttiti dal dolore e dalla fame. Sporchi. Non hanno quasi l’apparenza umana. Eppure, girate la medaglia e vi vedrete l’immagine del Figlio di Dio, che ha assunto nella sua passione in croce quel loro volto sfigurato e umiliato!”[2].
Per Vincenzo, ogni povero era un volto carico di storia. Un volto da decifrare e da amare con tenerezza e cordialità riconoscendo il mistero stesso del Dio che si e` fatto uomo ed ha condiviso il disagio dell’umano.
A tal proposito, ricordo un testo tratto dal Regolamento della Carità femminile di Montmirail dove Vincenzo educa al servizio e alla preghiera: Entrando da un malato lo salutera` amabilmente, poi avvicinandosi al letto con un volto modestamente lieto, l’invitera` a mangiare, gli alzera` il cuscino, accomodera` la coperta, mettera` il tavolinetto, il tovagliolo, il piatto, il cucchiaio, pulira` la ciotola, versera` la minestra, mettera` la carne nel piattino, fara` dire la preghiera di benedizione al malato e prendere la minestra, gli tagliera` la carne apezzetti, lo fara` mangiare dicendogli qualche parolina santamente allegra e di conforto per rallegrarlo, gli versera` da bere, lo invitera` di nuovo a mangiare. Finalmente, quando avra` finito il pranzo, dopo aver lavato piatti e posate, piegato il tovagliolo e tolto il tavolinetto, fara` dire la preghiera di ringraziamento al malato, e subito lo salutera` per andare a servire un altro[3].
Non dimentichiamo che il povero, la gente, le “cose da fare” non distolsero Vincenzo dal cuore della sua esperienza con Dio, nella preghiera: Dedito continuamente alla preghiera, non era distratto dalla contemplazione dei misteri divini, ne´ dalla gente, ne´ dagli affari, ne´ da cose liete o tristi: infatti teneva Dio sempre presente nella sua mente, e con grande impegno e sante industrie era riuscito a far si` che tutte le cose che si presentavano ai suoi occhi gli richiamassero alla mente il loro Creatore; esprimendo a modo loro la gloria di Dio e le lodi divine, lo spingevano alla contemplazione della bellezza celeste. Percio` era sempre modesto, mite, mansueto e benigno, conservando in tutte le cose una meravigliosa uguaglianza di spirito: non si lasciava esaltare dalle cose liete ne´ turbare dalle avversita`, poiche´ poteva dire col profeta: “Avevo sempre Dio davanti ai miei occhi perche´ egli e` alla mia destra affinche´ non sia scosso”.
Conclusione
Il Signore ci conceda di essere capaci di una preghiera sempre più intensa, per rafforzare il nostro rapporto personale con Dio Padre, allargare il nostro cuore alle necessità di chi ci sta accanto e sentire la bellezza di essere «fratelli nel Figlio» (Lumen gentium, 62) per costruire fraternità e amicizia sociale (Fratelli tutti, 6).
Le parole da mettere al bando: “si è sempre fatto così”, immobilismo, individualismo, lettura negativa. Quindi paura. Le parole, invece, da promuovere: Chiesa in uscita, ascolto, cammino, compagni di strada, sinodalità, conversione pastorale, sguardo positivo sui fenomeni sociali. Parlando con i mille delegati che nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, a Roma, stanno partecipando alla Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, il primo cambiamento che si coglie è quello del vocabolario. E poiché per chi crede in Cristo le parole sono importanti, non si tratta solo di un cambiamento formale. In questo caso, verrebbe da dire, la forma è sostanza.
Milena Libutti, delegata della diocesi di Palermo, mette l’accento sul «momento veramente straordinario per la Chiesa che stiamo vivendo. Un tempo che segnerà importanti cambiamenti». L’esempio più lampante è la diversità di sguardo. «Stiamo leggendo questo tempo con occhi positivi e siamo testimoni di sinodalità. In questi giorni sediamo allo stesso tavolo, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici uomini e donne. E parliamo tutti in virtù di un ministero battesimale. Mi sembra bellissimo poterci confrontare così. Solo cinque anni fa una cosa simile non riuscivamo neanche a immaginarla. E allora di tutto questo bene dobbiamo essere testimoni anche all’esterno. Il senso di comunità che respiriamo qui possiamo offrirlo al mondo come antidoto all’individualismo imperante. Perché ancora oggi il Signore semina il bene nella storia dell’uomo».
La parola che Simona Pancaldo, delegata della diocesi di Albano, mette in evidenza è domanda. Anzi, domande. «Dobbiamo chiederci che cosa serve oggi per entrare in relazione con l’uomo di questo tempo. Riconoscere i bisogni spirituali e le urgenze. E rinnovare il modo di entrare in relazione con le persone». In altri termini «la Chiesa deve cambiare il proprio linguaggio e le prassi di evangelizzazione». Come? «Uscendo per portare il Vangelo là dove ci si dovrebbe occupare del bene di tutti. Tornare ad abitare i luoghi della cultura, della politica, della società civile, essere capaci di influenzare le decisioni fondamentali».
Ma per fare questo, serve appunto una conversione pastorale. Marcello Musacchi, della diocesi di Ferrara-Comacchio, nell’Assemblea svolge la funzione di facilitatore. Deve cioè mettere tutti a proprio agio nello scambio di idee intorno al tavolo. «Sta emergendo – sottolinea – una triplice conversione: soggettiva (la nostra idea di cristianesimo deve essere più aperta e meno radicata al “si è sempre fatto così”), comunitaria (“perché la prima forma di comunicazione, soprattutto verso gli altri, è la comunità e quindi se noi non viviamo per primi la comunità, le nostre parole perdono efficacia”) e poi strutturale. È un impegno grande. In sostanza dobbiamo cambiare il nostro modo di entrare in contatto con gli altri. Fare meno gli arrivati ed essere soprattutto persone comunicano cominciando dall’ascolto». Secondo Musacchi «si ascolta ancora poco». Un aspetto che ne influenza altri. Il facilitatore lo esprime così: «Siamo stanchi di essere fuori dalla cultura, dobbiamo ricominciare a dire delle cose importanti sul piano sociale e politico. Ma per fare questo bisogna percorrere le strade polverose delle crisi esistenziali e delle grandi domande della gente».
Alla necessità di concretezza, dopo tre anni di lavoro, si richiama anche Marco Peduzzi della diocesi di Biella. «Vedo l’urgenza di far fronte all’emorragia di uomini e donne che si allontanano dalla comunità ecclesiale e più in generale proprio dalla fede cristiana. Negli anni Settanta del secolo scorso uno slogan in voga era “Cristo sì, la Chiesa no”. Oggi il no si è esteso anche a Cristo. Di qui la necessità di puntare tutto nuovamente sulla centralità di Gesù, dando valore ai germogli che già ci sono».
Per Nunzia Lestingi, delegata della diocesi di Fabriano-Matelica, il fenomeno degli abbandoni è particolarmente accentuato tra i giovani, ma è un segnale che va interpretato. «Secondo me ci stanno chiedendo di uscire fuori dalla nostra comfort zone (la parrocchia, i gruppi, le chiese di pietre), per raggiungerli nei luoghi in cui essi trascorrono le loro giornate, per imparare i loro linguaggi e ascoltare ciò che vogliono. Che poi è esattamente quello che faceva Gesù, andando in mezzo alla gente». Il cantautore Ultimo ha detto di non conoscere nessuno che vada in Chiesa o voti. «Non stento a crederlo – riprende Nunzia –. Tradotto, vuol dire che i luoghi istituzionali come possono essere le chiese e i posti del voto i giovani non li riconoscono più come propri. Sicuramente c’è da fare un grande lavoro di cultura, che attingendo al tesoro della tradizione, sappia parlare a queste persone con un linguaggio nuovo. Non dobbiamo avere paura di essere come i primi cristiani che hanno annunciato il Vangelo in un mondo pagano».
Don Paolo Pala, delegato della diocesi di Tempio-Ampurias, riassume così ciò che finora è emerso. «Abbiamo preso coscienza, come dice il Papa, di essere in un cambiamento d’epoca, di essere minoranza, ma soprattutto della necessità di farci compagni di strada degli uomini e delle donne del nostro tempo. Questo ci porta verso un’azione pastorale di risposta, piuttosto che di proposta. Risposta – spiega il sacerdote – a tutte le domande che emergono: dalla questione della vita a quella di come intendere la fede, se in maniera privatistica o comunitaria». Parole nuove dunque. Perché la paura e la nostalgia del passato non abbiano più l’ultima parola.
La data indicata è il 9 novembre. Quel giorno le Chiese particolari, le diocesi sono invitate, anzi «esortate» a ricordare i santi e i beati, come anche i venerabili e i servi di Dio appartenenti ai rispettivi territori locali. Non si tratta di aggiungere una festa alla celebrazione dei patroni ma «di promuovere con opportune iniziative al di fuori della liturgia, oppure di richiamare all’interno di essa, ad esempio nell’omelia o in altro momento ritenuto opportuno, quelle figure che hanno caratterizzato il percorso cristiano e la spiritualità locali». Lo chiede il Papa in una Lettera nella quale sollecita le Conferenze episcopali a, «eventualmente», cioè senza obbligo, elaborare e proporre indicazioni pastorali e linee guida. Attraverso questo nuovo segno, in vigore dal 2025, le singole Comunità diocesane - scrive il Papa – avranno l’opportunità di «riscoprire o perpetuare la memoria di straordinari discepoli di Cristo che hanno lasciato un segno vivo della presenza del Signore risorto e sono ancora oggi guide sicure nel comune itinerario verso Dio, proteggendoci e sostenendoci».
Non una festa in più
La lettera è anche l’occasione per riproporre, alla luce dell’Esortazione apostolica “Gaudete et exsultate” la chiamata universale alla santità, richiamando l’esempio di quei santi della porta accanto, che magari senza clamori o gesti memorabili hanno testimoniato il Vangelo giorno dopo giorno., Cioè, aggiunge papa Francesco, «coniugi che hanno vissuto fedelmente il loro amore aprendosi alla vita; uomini e donne che nelle varie occupazioni lavorative hanno sostenuto le loro famiglie e cooperato alla diffusione del Regno di Dio; adolescenti e giovani che hanno seguito Gesù con entusiasmo; pastori che mediante il ministero hanno effuso i doni della grazia sul popolo santo di Dio; religiosi e religiose che vivendo i consigli evangelici sono stati immagine viva di Cristo sposo. Non possiamo dimenticare i poveri, i malati, i sofferenti che nella loro debolezza hanno trovato sostegno nel divino Maestro». Tutti noi, aggiunge il Pontefice, «siamo chiamati a lasciarci stimolare da questi modelli di santità, tra i quali emergono anzitutto i martiri che hanno versato il proprio sangue per Cristo e coloro che sono stati beatificati e canonizzati per essere esempi di vita cristiana e nostri intercessori. Pensiamo poi ai venerabili, uomini e donne dei quali è stato riconosciuto l’esercizio eroico delle virtù, a quanti in singolari circostanze hanno fatto della loro esistenza un’offerta d’amore al Signore e ai fratelli, come pure ai servi di Dio di cui sono in corso le cause di beatificazione e canonizzazione».
L'iter per diventare santi
Quanto all’iter per diventarsi santi, il primo passo è essere morti in fama di santità, cioè essere stati nell’opinione comune uomini e donne dalla vita integra, ricca di virtù cristiane. La prima fase della causa avviene a livello diocesano raccogliendo documenti e testimonianze su chi da questo momento è detto servo o serva di Dio. Terminata questa tappa la documentazione passa al dicastero delle cause dei santi che sovrintende, tramite un relatore, all’elaborazione della cosiddetta positio, il volume che sintetizza le prove raccolte. Se dall’esame fatto da un gruppo di consultori storici e teologi e poi dei vescovi e dei cardinali membri del dicastero, risulterà che il servo di Dio ha vissuto in modo eroico le virtù cristiane, egli sarà dichiarato venerabile. A questo punto per essere proclamato beato occorrerà un miracolo, cioè una guarigione inspiegabile scientificamente ottenuta per sua intercessione. Si viene infine riconosciuti santi una volta accertato un secondo miracolo. Fanno eccezione i martiri, cioè persone uccise a causa della loro fede, che vengono proclamati beati senza bisogno di un miracolo.
La Dedicazione della Basilica Lateranense
Tornando alla decisione del Papa, il 9 novembre si celebra la Dedicazione della Basilica Lateranense. Dedicazione compiuta da papa Silvestro I nel 324. Costruita dall’imperatore Costantino, la Basilica fu più volte distrutta e sempre ricostruita. L’ultima volta nel 1724 sotto il pontificato di Benedetto XIII. Fu allora che la festa della dedicazione venne stabilita ed estesa a tutta la cristianità.
Autorità (del vescovo o del parroco) e sinodalità non è detto che facciano rima. Anzi, spesso vengono viste in conflitto tra loro. Ma è proprio così? Don Matteo Visioli, docente di diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana e al San Pio X di Venezia, propone una lettura diversa e più approfondita della secca alternativa. «Quella della sinodalità è una dimensione attraverso cui il vescovo e il parroco possono esercitare la propria autorità – afferma lo studioso -. Ci possono essere tanti modi per esercitare questa autorità. C’è quello che il Sinodo dei vescovi ha definito “monarchico”, in un certo senso assoluto. E quello che il magistero di Francesco ci sta aiutando a comprendere, e cioè di una modalità di esercizio dell’autorità nella Chiesa portata avanti con stile sinodale».
Tradotto in termini pratici?
Significa che l’autorità resta in capo al vescovo e al parroco, i quali devono prendere le decisioni e devono assumersene la responsabilità ultima. Ma nel fare questo discernimento non sono svincolati dal popolo di Dio loro affidato. Sapendo che il popolo è a sua volta infallibile in credendo, dice la teologia cattolica, cioè che lo Spirito Santo parla al cuore non solo di alcune persone ma di tutti i battezzati. È un cammino ancora lungo, ma i passi compiuti finora sono promettenti.
Qual è il modello a cui riferirsi? Il Papa mi sembra abbia escluso quello delle assemblee parlamentari.
Sì, la sinodalità non è un parlamento, perché la Chiesa non è una democrazia, ma è mistero di comunione e quindi è abitata da altre dinamiche. Ma ciò non esclude, pur non potendo far valere il criterio della maggioranza nel prendere le decisioni, che il popolo di Dio possa essere consultato su alcune delle principali questioni la cui decisione resta in capo al vescovo o al parroco. Di solito le democrazie passano attraverso una fase di elaborazione, poi di votazione e la maggioranza prevale. Il fatto che la Chiesa non sia una democrazia non esclude che chi la governa ai diversi livelli possa chiedere la manifestazione di una volontà ai singoli fedeli che passa anche attraverso un voto, dopo un dibattito e il discernimento necessari. Questo non significa trasformare la Chiesa in una democrazia, ma vuol dire che chi governa necessita di acquisire una volontà anche attraverso lo strumento del voto.
Come intendere questo voto: deliberativo o consultivo?
È certamente consultivo. Io non condivido la tesi di chi lo vorrebbe deliberativo. Propendo maggiormente per una Chiesa che riduca la distanza tra il consultivo e il deliberativo cosicché chi governa, pur chiedendo un consiglio, sia chiamato a non distanziarsi da questo consiglio, soprattutto quando è prevalente, a meno che non vi siano ragioni di coscienza o veramente fondate per cui ci si debba discostare. Il consiglio in questo caso diventa vincolante perché basato sul fatto che il discernimento avviene attraverso tutto il popolo di Dio o una sua parte. E quindi chi ha l’autorità non può “tradire” l’orientamento del popolo di Dio anche se questo orientamento viene espresso attraverso un consiglio e non attraverso una deliberazione. Il mio desiderio sarebbe quello di poter crescere verso una maggiore rilevanza e dignità del consigliare nella Chiesa al punto da ridurre la distanza tra deliberazione e consiglio e quest’ultimo resti vincolante per chi deve decidere.
E nel caso in cui il consiglio vada palesemente contro la dottrina, la tradizione, il magistero?
Allora l’autorità è legittimata a discostarsi dalla maggioranza che si è espressa attraverso il voto. Ma deve rendere ragione del perché in coscienza non può seguire l’orientamento maggioritario del popolo di Dio. Dovrebbero però essere casi estremi.
Ma alla fine tutto questo gran discorrere di simili temi non è che nasconde, da parte di alcuni laici, la volontà di comandare di più e quindi avere più potere?
Dipende sempre dal valore che diamo alla parola potere. Se è l’esercizio della dignità battesimale posso dire sì: è una questione di potere, ma in senso positivo, cioè di potestà che coinvolge in modo attivo ogni battezzato nella vita della Chiesa anche nel suo momento decisionale. Se invece potere ha un valore negativo, come prevalentemente succede, allora cade tutto questo discorso, poiché non si può comprendere la sinodalità, soprattutto quando viene applicata al processo decisionale, se questa idea di potere in senso negativo in qualche modo la inquina. Il presupposto è l’esercizio di una potestà da parte di ogni fedele, laico o non laico, rispetto al battesimo che vive e che esercita con carismi e ministeri diversi. È vero però che i due concetti di potere spesso vengono confusi e questo può creare degli equivoci.
È corretto affermare che il discorso deve essere ricondotto alla comunione?
Certamente. La sinodalità è un’espressione della comunione ecclesiale, nel senso che la prima si comprende pienamente nella logica della comunione. Al di fuori di questa logica si cade in una questione di esercizio di potere che anziché illuminare può generare frustrazione in chi ha delle aspettative di un certo tipo e poi non le vede realizzate.
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«Il bene comune, alla base del pensiero sociale della Chiesa, riassume in sé tutte le condizioni che garantiscono la dignità umana che, come ho più volte chiarito, si concretizza in tre diritti inviolabili: la terra, la casa e il lavoro. In vista del Giubileo ho chiesto alla mia diocesi di dare un segno tangibile di attenzione alle problematiche abitative affinché, accanto all’accoglienza rivolta a tutti i pellegrini che accorreranno, siano attivate forme di tutela nei confronti di coloro che non hanno una casa o che rischiano di perderla. In questa prospettiva, desidero che tutte le realtà diocesane proprietarie di immobili, offrano il loro contributo per arginare l’emergenza abitativa con segni di carità e di solidarietà per generare speranza nelle migliaia di persone che nella città di Roma versano in condizione di precarietà abitativa».
Così scrive il Papa in una lettera per il Giubileo ai parroci, ai religiosi e al clero della diocesi di Roma. «Le istituzioni e le amministrazioni ai vari livelli – si legge ancora nella lettera – insieme alle associazioni e ai movimenti popolari, si stanno organizzando per rafforzare la risposta di accoglienza e di solidarietà verso questi fratelli e sorelle, operando in collaborazione tra istituzioni e società civile, e la Chiesa è chiamata a contribuire. [...] Le persone da accogliere saranno seguite dalle istituzioni e dai servizi sociali, mentre le associazioni e i movimenti popolari forniranno i servizi alla persona, le attività di cura e i beni relazionali che contribuiscono in modo fondamentale a rendere l’accoglienza degna e a costruire fraternità».
Con i suoi 30mila fedeli, quasi tutti stranieri, la comunità cattolica di Tunisia si colloca in una posizione di estrema minoranza in un Paese di 12 milioni di abitanti quasi esclusivamente musulmano La tradizione cristiana, però, è antichissima e sono molte e pregevoli le vestigia risalenti ai primi secoli dopo Cristo. In questi ultimi decenni, la Chiesa di Tunisia è cambiata molto. Ma l’impegno resta sempre lo stesso: rimanere aperta al dialogo e all’incontro, che si realizzano soprattutto nella presenza in vari contesti e nell’attenzione ai più deboli e vulnerabili, con uno sguardo rivolto anche ai popoli subsahariani che arrivano o transitano dal Paese e un altro al Mediterraneo verso il quale si avventurano pure molti giovani tunisini.
A guidare l’unica grande diocesi del Paese c’è, dallo scorso 4 aprile, l’arcivescovo Nicolas Lhernould, francese di 49 anni, che di questa Chiesa è “figlio”. È stato infatti ordinato qui nel 2004 e, dopo due anni come vescovo di Costantina in Algeria, è tornato a Tunisi.
Eccellenza, quali sono gli aspetti che caratterizzano la Chiesa tunisina?
«Ci sentiamo una famiglia e questo lo condividiamo con tutte le Chiese del Nord Africa. Quella della Tunisia, in particolare, è una famiglia che ha origini molto antiche. I primi martiri risalgono al II secolo. Ma è anche una Chiesa che è cambiata molto dopo l’indipendenza del 1956. Se un tempo era più francese e italiana, anche per la presenza di molti siciliani, adesso è davvero internazionale, multietnica e multiculturale. Siamo una Chiesa universale in miniatura».
Una ricchezza, ma anche una sfida.
«Non è sempre facile. È la bellezza dell’amore fraterno vissuto nella diversità e nella piccolezza. Siamo per molti versi una Chiesa fragile e parca di mezzi, sia in termini di personale sia di risorse economiche. Ma continuiamo a portare avanti la nostra testimonianza in questa realtà musulmana, anche attraverso alcune opere e piccole strutture».
Rispetto ad altre realtà del Nord Africa, in Tunisia è ancora permesso alla Chiesa di gestire alcune scuole. Come sono percepite dalla società tunisina?
«Abbiamo nove scuole, dalle materne alle medie, con circa seimila studenti. La nostra attività educativa è apprezzata. C’è fiducia. Noi seguiamo i programmi dello Stato, compreso l’insegnamento della religione musulmana. Vorremmo contribuire a crescere buoni cittadini e anche buoni fedeli nella loro religione, nell’apertura umana e culturale all’alterità».
Oggi però molti si lamentano che il livello generale dell’istruzione si stia abbassando, mentre cresce la sfiducia nel futuro anche a causa della crisi economica che sta mettendo in difficoltà molte famiglie. È così?
«L’educazione è sempre stata un pilastro del modello sociale tunisino. Ora, però, tante famiglie fanno fatica a mandare tutti i figli a scuola. E molti giovani pensano di poter avere un futuro solo altrove. È come se mancasse la speranza, malgrado una resilienza notevole del popolo tunisino in generale. Noi vorremmo lavorare per tenere viva e contribuire a sviluppare una speranza comune».
Quali forme di dialogo portate avanti con il mondo musulmano?
«Un proverbio di qui dice che “non si sceglie la casa ma il vicino”. Quindi crediamo molto nei rapporti della vita quotidiana come base per qualsiasi dialogo. Questo fa parte anche del nostro modo di radicarci in questa società, riconoscendoci autenticamente come cittadini del Paese. Dopodiché portiamo avanti anche alcune opere di carità che non vogliono in nessun modo avere un’impostazione paternalistica, ma che intendono aiutare le persone in difficoltà a rialzarsi e a riprendere in mano le loro vite».
In ambito culturale, l’Istituto delle belle lettere arabe (Ibla) dei Padri Bianchi resta un punto di riferimento?
«È certamente un luogo privilegiato di dialogo. Così come lo sono altre iniziative più specifiche come i centri culturali e le biblioteche della diocesi, o il Gruppo di ricerca islamo-cristiano (Gric)».
A livello di Conferenza episcopale del Nord Africa (Cerna), quali sono i punti comuni su cui state lavorando?
«Cerchiamo di portare avanti una riflessione teologica sulle tematiche della missione. La modalità in cui la viviamo noi – a partire dalle icone bibliche della Visitazione e dell’Epifania –, in un contesto in cui il nostro fratello è musulmano, significa innanzitutto essere dono gratuito per l’altro. È la nostra peculiarità».
Lei è impegnato anche nella teologia dal Mediterraneo. Quale contributo può dare la sponda Sud?
«Il processo voluto da papa Francesco nasce dalla consapevolezza che ci sono temi che ciascuna Chiesa e ciascun popolo non possono affrontare da soli, da quello dell’educazione alle questioni sociali, dalla giustizia e pace all’ecologia sino al dialogo interreligioso. Credo che questo percorso possa costruire fraternità e soluzioni concrete davanti alle sfide comuni, attingendo al meglio delle risorse umane e spirituali di ciascuno. È un’esperienza positiva di reciproca fecondazione di riflessioni e buone pratiche».
Un tema comune, molto sensibile, è quello dei migranti. In quale modo lo affrontate?
«Credo sia importante interrogarsi innanzitutto sulle cause profonde che spingono le persone a spostarsi e che riguardano spesso conflitti, crisi climatica, diseguaglianze, ma anche il desiderio di un “paradiso” che spesso non c’è. Dopodiché, per quanto ci riguarda, cerchiamo di mettere in campo la pastorale del Buon Samaritano, aiutando le persone che soffrono e provando a sollecitare i migranti a ritrovare una bussola e a domandarsi quale sia davvero il loro progetto di vita.
Si respira aria di Concilio nella Basilica di San Paolo II, dove il primo annuncio del Vaticano II venne dato da san Giovanni XXIII nel 1959. Ma si sente insieme anche il profumo del Giubileo della speranza, cioè del futuro. Di cui non bisogna avere paura, come scrive il Papa. Francesco ha inviato ieri un suo messaggio alla prima assemblea sinodale delle Chiese in Italia, letto ai mille delegati dal cardinale presidente della Cei, Matteo Zuppi. I lavori, infatti, si sono aperti nel pomeriggio nel grande tempio romano dedicato all’Apostolo delle genti. Scrive dunque il Pontefice: «Non abbiate paura di alzare le vele al vento dello Spirito». E perciò i cattolici italiani sono «chiamati a guardare alla società in cui viviamo con uno sguardo di compassione per preparare il futuro, superando atteggiamenti non evangelici, quali la mancanza di speranza, il vittimismo, la paura, le chiusure. L’orizzonte si apre davanti a voi - esorta papa Bergoglio - continuate a gettare il seme della Parola nella terra perché dia frutto».
È un invito che risuona più volte nel corso dei lavori della prima giornata. A partire dal momento di preghiera ecumenico (nell’assemblea c’è la presenza di sette rappresentanti di Chiese cristiane in Italia), poi nei saluti monsignor Antonello Mura, vescovo di Nuoro e Lanusei (e membro della presidenza del Comitato del cammino sinodale), del cardinale James Harvey, arciprete della Basilica di San Paolo fuori le Mura, dell’abate dom Donato Ogliari «e naturalmente nell’intervento iniziale del cardinale Zuppi.
«Il Signore chi chiama e ci manda, oggi in questo mondo difficile e terribilmente sofferente che impaurisce e sembra cancellare il futuro», nota il porporato. Ma il suo è un messaggio di speranza. «In una società sempre più fratturata siamo chiamati a rammendare quel tessuto di relazioni e di umanità che costituisce il patrimonio vero del nostro Paese, le sue radici più profonde». È vero, c’è la guerra («cui «non vogliamo abituarci», forse «preghiamo troppo poco per la pace») e nella società italiana cresce il clima conflittuale: «La spietata avanzata del numero dei femminicidi, la crescita della violenza tra i giovani, l’inasprirsi del linguaggio sempre più segnato dall’odio, i casi di antisemitismo, che non possiamo tollerare, sono come semi che da sempre il male getta nei cuori e nelle relazioni delle persone e contaminano i cuori e i linguaggi». È così che nascono i sentimenti cattivi. Un mondo di “Io” soli finisce facile preda di questi sentimenti. Persone con poca fede finiscono prigionieri della paura», sottolinea Zuppi.
Una strada per sottrarsi a tutto questo è il dialogo. «Fare qualcosa insieme, costruire insieme, fare progetti non da soli, fra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà». Anche nell’ambito politico. Il presidente della Cei spiega: «Non dobbiamo mai smettere di lavorare con pazienza e intelligenza per l’unità del nostro Paese, certo, nella laicità e nel pluralismo delle politiche e delle opinioni, ma sfuggendo alla banalizzazione della vita, al nichilismo, all’aggressione e alla contrapposizione come modalità del parlare e del decidere». La Chiesa è madre di tutti, sottolinea il porporato. «Leggere e qualificare le sue posizioni in un’ottica politica, deformando e immiserendo le sue scelte a convenienze o partigianerie, non fa comprendere la sua visione che avrà sempre al centro la persona senza aggettivi e limiti». Come Chiesa, aggiunge il cardinale, «di tempo in tempo, con la nostra esperienza umana dell’Italia, maturata tra la gente, esprimiamo “preoccupazioni” che non sono mai per dividere o alimentare contrapposizioni, ma per fortificare quel bene comune che esiste e che va perseguito e difeso».
Tra le preoccupazioni più urgenti il presidente della Cei indica la denatalità, «che ha raggiunto livelli preoccupanti». Eppure, fa notare, «tutti sappiamo che non basta combattere la denatalità senza una cultura della speranza nel futuro e senza preoccuparci di evitare l’emorragia di giovani dal nostro Paese e dalle aree interne. Il futuro dipende dalle politiche in favore della natalità, ma anche da politiche della casa, da politiche attive del lavoro e da autentiche politiche di integrazione dei migranti: tutti questi aspetti insieme saranno in grado di generare un’alba nuova all’orizzonte».
La Chiesa non vuole restare nelle sagrestie. Anzi, insiste Zuppi davanti all’assemblea in cui sono presenti anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e il nunzio in Italia, l’arcivescovo Petar Rajic, vuole essere «più partecipativa e missionaria». E su questo panorama si staglia l’orizzonte del Giubileo. « Quante ombre lunghe del pessimismo, dello scetticismo, ma anche del nichilismo si stendono sulla vita - dice Zuppi -. È la sfida: camminare con speranza con tanti italiani e italiane, con tanti credenti magari un po’ spenti o rassegnati. Una nuova passione per il mondo deve percorrere le vene delle nostre comunità. Una nuova passione per il mondo deve percorrere le vene delle nostre comunità»., conclude Zuppi.
Parole che trovano un’eco anche nell’intervento di Erica Tossani della presidenza del Comitato nazionale. «Siamo qui per questo - sottolinea - perché è la passione per l’umanità e il Vangelo che ci brucia dentro».
A metà del decennio la Chiesa italiana raccoglie le proprie forze migliori per gettare il cuore oltre l’ostacolo, ri-progettarsi e tracciare rotte per continuare a dare risposte agli interrogativi più profondi delle donne e degli uomini del nostro tempo. E aiutarli così a orientare la loro vita e quella del Paese. Lo fa dandosi appuntamento a Roma, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, per la prima Assemblea sinodale. Un evento che rappresenta un ulteriore concreto passo decisivo nel Cammino sinodale partito quattro anni fa con l’intento, come auspicato più volte da papa Francesco a partire dall’enciclica Evangelii gaudium, non di occupare spazi ma di avviare processi.
Testimoni di questo movimento, che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone, saranno i circa mille delegati dell’Assemblea: tra loro, oltre ai vescovi, saranno presenti i componenti del Comitato del Cammino sinodale, i delegati di ciascuna Chiesa locale e alcuni membri designati dalla presidenza della Cei. Le loro voci e le loro storie s’incroceranno in un incontro, che, come spiegato dagli organizzatori, vuole prima di tutto essere «un’esperienza di Chiesa, un’occasione per costruire e curare relazioni».
Ecco perché l’intera dinamica che si è scelto di mettere al cuore del Cammino sinodale è quella della “piramide rovesciata”: non grandi documenti pensati nelle stanze di pochi responsabili, ma una raccolta di vita che parta dalla quotidianità di chiunque “viva la Chiesa” in qualsiasi modo. Questa visione ha guidato l’intero percorso, avviato nel 2021 e scandito in tre fasi: quella narrativa (2021-2023), quella sapienziale (2023-2024) e quella profetica (2024-2025).
Tutto facile, sereno e ben ordinato quindi? Per nulla: essendo il Cammino sinodale non un “evento a latere” della vita della Chiesa ma un’esperienza intensamente calata nell’ordinario svolgersi delle attività delle comunità locali, esso ne ha incrociato e assunto tutte le difficoltà e i rallentamenti. Ma in questo caso gli ostacoli hanno rappresentato una ricchezza in più, indicando con ancora maggiore chiarezza i nodi da sciogliere, le scelte da prendere con coraggio, le priorità da curare.
Ma come si è arrivati fin qui e di cosa parleranno i mille delegati a Roma, riuniti da oggi e fino a domenica? Come detto, il Cammmino è stato aperto nel 2021, ma di fatto ha le proprie radici nel Convegno ecclesiale di Firenze del 2015, quando il Papa invitò la Chiesa italiana a fare proprio lo stile sinodale, tornando sul tema anche nel 2019. In questo modo, di fatto, l’intero percorso raccoglie il compito, che per la Chiesa italiana hanno avuto i Convegni ecclesiali di metà decennio: fermarsi a fare il punto della situazione, mettere in file le priorità cui dare risposta, cercare il modo migliore per continuare a essere una presenza efficace tra la gente, nel cuore dell’Italia. Tutto questo, per il decennio degli anni ’20, quindi ha preso la forma di un’esperienza sinodale, scandita, appunto, in tre tappe, in grado di coinvolgere attivamente fin dai primi passi mezzo milione di persone.
E ha generato uno spazio, che ha messo in luce non solo le potenzialità e le risorse ma anche le «annose questioni che affaticano il passo», come sottolineano i documenti di sintesi: «Il clericalismo, lo scollamento tra la pastorale e la vita reale delle persone, il senso di fatica e solitudine di parte di sacerdoti e di altre persone impegnate nella vita della comunità, la mancanza di organicità nella proposta formativa, l’afasia di alcune liturgie». La consapevolezza condivisa è quella legata alla necessità di superare «una visione di Chiesa costruita intorno al ministero ordinato per andare verso una Chiesa “tutta ministeriale”, che è comunione di carismi e ministeri diversi».
Si parte da qui, quindi, per dare forma a un cambiamento concreto e non solo di facciata o di intenzioni. Lo ha ricordato bene anche Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola, vescovo di Carpi e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, in un’intervista ad Avvenire al termine dell’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi: «Per noi è questa la fase finale del Cammino sinodale, che poi sarà, speriamo, la fase iniziale di un rinnovamento. Raccogliamo i frutti di questi anni».
Questo pomeriggio, dopo i saluti del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, e di Erica Tossani, membro della presidenza del Comitato del Cammino sinodale, sarà proprio Castellucci a tenere la relazione introduttiva, mentre Pierpaolo Triani, membro della presidenza del Comitato, presenterà le modalità di lavoro ai tavoli, cui sarà dedicata la giornata di domani.
A guidare il confronto saranno i Lineamenti, i cui contenuti (approfonditi in questi giorni anche da Avvenire attraverso diverse interviste) sono tutti orientati a una visione missionaria della Chiesa e riguardano numerosi temi come il rapporto con la cultura, i linguaggi della comunicazione e della liturgia, l’ascolto e la valorizzazione dei giovani, i percorsi di iniziazione cristiana, la formazione dei formatori, dei responsabili, dei sacerdoti, l’impegno nella carità, la ministerialità, gli organismi di partecipazione, la presenza, il servizio e i ruoli di responsabilità delle donne, l’organizzazione amministrativa, la riforma delle curie, la struttura sul territorio, la trasparenza nella rendicontazione. Dai tavoli di questi giorni uscirà uno “Strumento di lavoro”, che saranno offerti alle diocesi. La loro restituzione sarà al centro del dibattito della seconda Assemblea ecclesiale (31 marzo-4 aprile 2025), che produrrà delle “proposizioni” destinate al vaglio della prossima Assemblea generale della Cei, chiamata a poi a offrire delle indicazioni pratiche concrete. Ma anche quelle non saranno un punto di arrivo, bensì il punto di partenza di un cammino di cambiamento ormai non più rinviabile.
La Chiesa non sa parlare al mondo contemporaneo? Alla domanda posta dai ricercatori del Censis, nell’ambito della rilevazione sulla fede degli italiani, il 51,2% degli intervistati ha risposto positivamente. La proporzione è lievemente più alta tra le donne – 52,2% contro il 50,1% degli uomini – e fra i giovani sotto i 33 anni, 57%. Lo pensano soprattutto i cattolici non frequentanti – 56,1% – mentre fra i praticanti la percentuale cala nettamente al 29%. Quest’ultimo dato, però, non fa che ribadire un fatto: la comunità ecclesiale ha difficoltà a narrarsi nel senso più autentico oltre il ristretto circuito degli intimi. Non riesce a farsi prossima – con la parola e con la testimonianza – a quanti sono considerati più lontani.
Si potrebbe parlare di un problema di comunicazione. Il punto è che, nell’accezione standard, viene impiegato troppo spesso come sinonimo di marketing. Il racconto come un “make up” per rendere attraente agli occhi di eventuali clienti un dato prodotto nel mercato della fede. Non è questa la comunicazione che alla Chiesa fa difetto e di cui deve appropriarsi o, meglio, riappropriarsi. Da questa convinzione – emersa con forza dall’ascolto delle diocesi e delle realtà locali durante il biennio narrativo – il Cammino sinodale ha messo in moto un percorso di riflessione sul linguaggio e la comunicazione, oggetto di una delle cinque commissioni tematiche che hanno lavorato nella fase sapienziale. Dai territori era emersa la richiesta di un linguaggio meno paludato, retorico, avvitato su se stesso, che conservasse e restituisse la freschezza della Buona Notizia. Come trasformarla in prassi quotidiana? Il discernimento comunitario ha consentito di mettere a fuoco un concetto essenziale: la comunicazione non è questione di comunicazione. Riguarda – come si legge nel paragrafo 21 dei Lineamenti – «che cosa la Chiesa è disposta a mettere in comune con il mondo, che immagine ha di se stessa e cosa vuole raccontare».
La forma logora, dunque, rivela un nodo di sostanza da sciogliere. Il percorso di ascolto è stato un laboratorio per maturare uno stile più fedele al Vangelo. Porgendo l’orecchio alla «vita delle persone, con i suoi diversi linguaggi dettati dalle situazioni (gioie e fatiche, scelte e tappe, relazioni, lavoro, festa, affetti), la comunità cristiana può anche cambiare linguaggio: non per un semplice lavoro strumentale di adattamento e condiscendenza, ma per un esercizio spirituale di riconoscimento del vissuto umano come luogo teologico, in virtù del principio dell’incarnazione». Facendosi carne, il Creatore azzera la distanza con la creatura nella convinzione che, solo nel condividere un tratto di strada, possa avvenire quel mutamento del cuore – la metanoia – in cui il soggetto incontra la salvezza. Il modello, pertanto – che ha accompagnato nella riflessione anche i lavori della commissione incaricata di fare discernimento sul tema – è Gesù maestro anche di comunicazione. Dall’analisi dei suoi incontri con l’umanità del tempo, emerge un metodo peculiare – il metodo, appunto, che Dio adotta nei confronti dell’essere umano – in cui la forma esplicita la sostanza. A chiunque – Matteo il pubblicano, il giovane ricco, la Samaritana, l’adultera, il centurione – dà gratuitamente affetto, amicizia e considerazione. Non esige il cambiamento come pre-requisito della sequela. Ha e, per questo, dà fiducia all’interlocutore: l’occhio del Figlio – come l’occhio del Padre – vede chiaramente il peccato ma è capace di guardare oltre perché sa che chi gli sta di fronte è ben più del singolo sbaglio, pur grave o gravissimo. Quella dalla gabbia della condizione di peccatore è la grande liberazione del Maestro. La sola in grado di generare processi di conversione autentica. «Tutti, tutti, tutti», allora, non è un cedimento alla moda del momento. È fedeltà a Colui che era capace di riconoscere dignità a chi nemmeno riteneva di averne. Di non imprigionare l’altro in una definizione categorica. Di sfidare cliché culturali consolidati. Di dire la verità senza impiegarla come arma per ferire.
Un altro dato della ricerca del Censis è estremamente importante: il 72,2% degli intervistati ritiene la dimensione spirituale molto o abbastanza importante. Il cuore dell’umanità dell’Italia secolarizzata del Ventunesimo secolo continua ad avere sete di infinito. Archiviato il regime di cristianità, il cattolicesimo può e deve innaffiare i germogli di Regno sparsi nelle pieghe di questo cambiamento d’epoca.
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«Non posso fare a meno di sottolineare quanto sia toccante il fatto che il più famoso studioso di Cromwell al mondo stia per essere ordinato sacerdote cattolico». Chi fosse entrato per caso lo scorso 21 settembre nella Cattedrale di Norwich e avesse sentito anche solo queste parole dell’omelia del vescovo Peter Collins avrebbe capito che l’occasione era più che singolare, si può dire eccezionale. L’uomo a cui il pastore della diocesi di East Anglia si stava rivolgendo, seduto in camice bianco ai piedi dell’altare, era John Morrill, storico insigne, docente emerito all’Università di Cambridge, un’autorità sulla guerra civile inglese e in particolare sul leader dei puritani Oliver Cromwell. All’età di 78 anni, sotto gli occhi delle sue quattro figlie e di centinaia di fedeli, Morrill è diventato presbitero. «La seconda svolta della mia vita» ci dice al telefono.
Qual è stata la prima svolta, professore e ora reverendo Morrill?
La conversione al cattolicesimo. Sono nato nel 1946 vicino a Manchester in una famiglia anglicana. Mio padre lo vedevo spesso inginocchiato accanto al letto a pregare, mia madre era una persona meno devota ma molto impegnata in parrocchia. Io però ho perso la fede quando ero studente universitario a Oxford. Ero arrabbiato con Dio perché non esisteva e volevo che esistesse, ma non riuscivo a trovarlo. Ho passato diverso tempo senza riuscire a entrare in una chiesa.
Che cosa l’ha cambiata?
Mia moglie ha avuto un grande ruolo, che ho capito meglio con il tempo. Ci siamo incontrati a Oxford quando avevamo vent’anni, nel 1966. Nel giro di tre mesi ci siamo fidanzati, dopo due anni ci siamo sposati. Lei era cattolica. Per il matrimonio, che è stato celebrato con il rito misto, fui però io a chiederle se e a celebrarlo poteva essere un domenicano che avevo conosciuto, padre Geoffrey Preston. Io vivevo in una residenza anglicana che stava vicino al priorato dei domenicani e qualche volta al pub lì vicino si vedevano anche loro. Così il nostro matrimonio fu celebrato da un domenicano, in una chiesa dei gesuiti con un discorso tenuto da un pastore anglicano.
Cosa è successo poi per farla approdare al cattolicesimo?
Quando mia moglie andava a Messa io restavo a casa, senza problemi, non ho mai cercato di dissuaderla dal seguire la sua fede, anzi in fondo la invidiavo. Ero diventato amico con padre Preston, che ogni tanto andavo a trovare, un tipo fisicamente imponente, caloroso e accogliente. Gli esponevo i miei problemi, i miei ragionamenti, ma più che discutere con me lui mi ascoltava, forse perché aveva capito che dal mio groviglio mentale non sarei uscito per via puramente intellettuale. Ogni volta che lo lasciavo mi sentivo meglio ed era il motivo per cui tornavo poi a trovarlo. Nel 1977, quando aveva solo 41 anni, io ne avevo 31, padre Preston morì, per un arresto cardiaco dopo un intervento chirurgico. Al suo funerale mi colpì il fatto che anche in chiesa si percepiva quel senso di pace che provavo quando stavo con lui. All’istante mi resi conto che quando parlavo con quel domenicano stavo parlando con Dio. Era Dio che stava ad ascoltarmi. Quello fu un momento di conversione. Sono stato accolto nella Chiesa cattolica l’8 dicembre del 1977.
A quando risale invece la sua vocazione di storico?
Ho avuto molti buoni insegnanti alla grammar school, me ce ne fu uno che mi fece appassionare alla storia. A sedici anni sapevo che non c’era nient’altro che avrei voluto studiare. Quell’insegnante era figlio di un minatore, era cresciuto in condizioni molto difficili, ma aveva ottenuto una borsa di studio per Oxford e aveva sempre desiderato poter mandare qualche studente al suo vecchio college di Oxford. Fu lui che mi disse: “Penso che ti piacerebbe andare al Trinity College”, e così feci. Fu lui anche a introdurmi allo studio di Oliver Cromwell.
La sua conversione al cattolicesimo le causò problemi nel mondo accademico?
Quando mi convertii ero assistente a Cambridge. Il master del college dove mi trovavo mi scrisse una lettera piuttosto sgradevole. Il cappellano del mio college di Oxford gli aveva garantito che ero un buon anglicano. Lui pensava che i cattolici non avrebbero dovuto avere ruoli di tutoraggio nei confronti degli studenti, ruolo a cui dovetti rinunciare.
Quale parte della storia dell’Inghilterra come potenza anticattolica le causa più sofferenza?
La distruzione e il saccheggio dei monasteri, oltre 800, le terribili bugie che furono raccontate sulla corruzione nei monasteri. I monasteri offrivano assistenza ai pellegrini, ai viandanti, davano ospitalità gratuita. Nel 1530 fornivano quasi tutti i servizi educativi e sociali del Paese. E furono annientati da un re paranoico nei loro confronti perché appartenevano a ordini religiosi internazionali su cui lui non poteva avere il controllo che aveva sul clero secolare.
E Cromwell?
La figura di Cromwell è più complessa di quanto molti pensino. Aveva una profonda fede e cercò di vivere in base ad essa. Pur non condividendone la forma, da cattolico, ho però potuto coglierne l’autenticità. Ciò che gli inglesi fecero in Irlanda in quel periodo fu grave, per altro non meno di vicende che vediamo accadere anche oggi. Ad esempio nel 1641 il 60% delle terre irlandesi era di proprietà dei cattolici, nel 1660 la percentuale era scesa al 20: il 40% era stato tolto ai cattolici e dato ai coloni protestati. Tuttavia, Cromwell non è da biasimare personalmente per tutto ciò che fu commesso allora. Cercò in molti modi di limitare la portata di ciò che avveniva e lo fece in virtù della sua fede cristiana.
Come è maturata in lei l’idea del sacerdozio?
Nel 1996 sono diventato diacono permanente, un ministero in cui ho sempre creduto molto. Per questo quando mia moglie è morta, nel 2006, ho resistito alla proposta del vescovo di diventare sacerdote. Mi sembrava, accettando, di accreditare l’idea che i diaconi sono persone frustrate, che vorrebbero diventare preti ma non possono. Non era il mio caso. C’è stato un lungo discernimento, che è passato anche per il parere delle mie figlie. Un passaggio decisivo è stato il ritiro spirituale che ho trascorso a Mount St. Bernard, l’unico monastero dei cistercensi della stretta osservanza – i trappisti – in Inghilterra. Un monaco di grande esperienza, che vive lì dal 1964, mi chiese cosa avessi intenzione di fare in quei giorni. Io dissi che avevo portato dei libri con me, che avrei letto, fatto lunghe passeggiate. “Non leggerai nulla, tu starai da solo con Dio” mi rispose. Vicino alla foresteria c’è la ricostruzione di un Calvario con un grande crocifisso. Ho passato molto tempo semplicemente a guardarlo. È stata un’esperienza potente.
Come ha vissuto la sua prima Messa da sacerdote?
È stato emozionante. Volevo in qualche modo che anche mia moglie fosse presente. Lei aveva una voce molto bella, così per la processione finale ho usato una registrazione che avevo di lei che cantava un brano composto da padre Joseph Gelineau, religioso francese che negli anni ’60 era molto popolare nella musica sacra, sul cantico dei tre giovani gettati nella fornace dal re Nabucodonosor, nel Libro di Daniele: una celebrazione di Dio e di tutto ciò che ha fatto per noi nella creazione.
«Non funzionerà nulla se non smettiamo di trattare la questione delle donne come un tema fra gli altri. Questa Chiesa ha bisogno di donne e uomini insieme, attratti dalla stessa promessa evangelica di una fioritura della vita». Così Lucia Vantini, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane, va al cuore di una delle questioni chiave affidate al Cammino sinodale delle Chiese in Italia, come emerge dalla Quarta Parte dei Lineamenti per la Prima Assemblea sinodale. Che si apre oggi a Roma. E vede Vantini fra i partecipanti. Membro del Comitato nazionale del Cammino sinodale, la teologa è – nella sua diocesi, Verona – da pochi mesi delegata episcopale per la Prossimità. Il che permette a lei, donna e laica, di partecipare ad esempio al Consiglio presbiterale.
Tema molto sentito e cruciale – come emerge dalle sintesi diocesane – è anzitutto quello della presenza, del servizio e dei ruoli di responsabilità delle donne. Perché – come denunciano i Lineamenti – ci sono ancora tante resistenze? E quali vie praticabili sono suggerite per incrementare la presenza delle donne nei ruoli di responsabilità pastorale?
Sì, è un tema cruciale soprattutto per una comunità che voglia ripensare sé stessa alla luce del Vangelo. Ciò è vero almeno per due motivi. In primo luogo, perché senza le donne la storia cristiana sarebbe addirittura irraccontabile. In secondo luogo, perché la comunità nata dalla Parola del Cristo è fatta di discepole e discepoli che camminano insieme e che si lasciano guidare da un Dio vivente che, come scrive san Paolo, si fa prossimo al di là delle differenze etniche, sociali e sessuali.
Alla luce di queste evidenze minime, possiamo dire che le resistenze che si materializzano verso le donne, verso la loro presenza nei luoghi di decisione e di responsabilità pastorale, sono molto simili a quelle che ha incontrato Gesù: vengono tutte dal potere inteso come dominio e dalla paura di perdere qualcosa che non si dovrebbe nemmeno avere. Nei femminismi, queste resistenze vengono espresse attraverso immagini legate al cristallo, un materiale che non si vede ma che si fa sentire non appena lo si trova sulla propria strada: noi donne conosciamo il soffitto di cristallo, perché spesso urtiamo con qualcosa di nascosto che ci impedisce di arrivare nei luoghi dove si decide; conosciamo i recinti di cristallo, perché a volte sentiamo che i nostri fratelli non sono con noi e per quieto vivere o disattenzione si tengono lontano da ciò che ci sta a cuore; e conosciamo anche la “scogliera di cristallo”, quello strano fenomeno per cui solo nei periodi di grave crisi il mondo sembra accorgersi di noi per affidarci un ruolo tanto importante quanto estremamente rischioso.
Però vorrei ricordare anche un’accezione positiva del termine “resistenze”, che i Lineamenti non menzionano ma che possiamo comunque riconoscere tra le righe. Si tratta delle resistenze del nostro desiderio femminile che ci spinge a esserci comunque, nonostante tutte le fatiche e le ingiustizie. Si tratta dell’ostinazione appassionata di chi continua a credere in un sogno comune offrendo la propria intelligenza, le proprie narrazioni, le pratiche e le visioni profetiche condivise con altre e altri. Le vie “praticabili” emergono da queste resistenze positive, se solo sappiamo ascoltarne la voce.
Tema di fondo decisivo è il rapporto corresponsabilità-missione. I Lineamenti parlano di Chiesa battesimale “quindi aperta ai ministeri” e di “Chiesa tutta ministeriale”: cosa si intende? Nei Lineamenti, partendo dalle sintesi diocesane, si evocano anche nuovi ministeri ed emerge la necessità di una cura della dimensione vocazionale dei percorsi formativi...
L’idea di una Chiesa tutta ministeriale è problematica, perché rimanda a qualcosa di irreale: che nella comunità credente tutti i soggetti siano investiti di un ministero. Ciò non è vero e non sarebbe nemmeno sensato desiderarlo. Per questo motivo i Lineamenti mettono l’espressione tra virgolette e si affrettano a toglierla da ogni ambiguità: si vuole semplicemente portare l’attenzione sulla necessità che tutte e tutti mettano i propri carismi e le proprie competenze a servizio della Chiesa in modo che il popolo di Dio possa goderne. Non si creda che questa specificazione sia un modo per abbassare i sogni di una comunità giusta e profetica, perché essa custodisce la valorizzazione radicale del nostro battesimo: la corresponsabilità trova lì, non in altro, la propria matrice d’autorità e la propria energia pratica. Come ha detto Donata Horak in uno degli incontri di quest’anno con papa Francesco e il C9, «è l’iniziazione cristiana la fonte dalla abilitazione fondamentale di ogni battezzata/o a esercitare il munus regendi, a servire nella Chiesa anche in uffici e ruoli di potere». Si tratta però di uscire dalla logica che pensa e ordina il mondo secondo binomi irrigiditi, perché la linea di demarcazione tra carisma e istituzione, servizio e potere, misericordia e giustizia, mariano e petrino, femminile e maschile è sempre più complessa di come noi la disegniamo per riuscire a orientarci nel mondo.
In questa cornice, possono trovare senso nuove ministerialità ma anche nuove forme narrative, formative, liturgiche e pratiche, per una espressività evangelica condivisa e nutrita delle nostre differenze senza che queste diventino motivo di discriminazione o di gerarchizzazione. I Lineamenti, per esempio, ricordano che si potrebbe immaginare l’apertura al servizio della predicazione anche a soggetti laici che ne abbiano la competenza e il carisma. Ciò contribuirebbe a dilatare l’orizzonte del discorso attraverso altre forme di vita, altre biografie, altre esperienze. È appena uscito Senza indugio. Omelie per l’anno C, a cura del Coordinamento teologhe italiane. Si può già cominciare a sentire l’effetto che fa.
Come promuovere lo sviluppo del ministero del parroco in forma sinodale? Nei Lineamenti si parla ad esempio della formazione di équipe ministeriali…
La vita di un parroco oggi è particolarmente affaticata e caricata di aspettative e di responsabilità difficili da gestire. Per una serie di ragioni storiche ma anche per alcune mancanze nella formazione teologica e ministeriale, finiscono per cadere su una persona sola incombenze di ogni tipo, alcune molto lontane dall’espressività ministeriale in senso stretto. La sete di spiritualità del clero più giovane, a volte sbilanciata sul versante emotivo, si spiega anche con la fatica di mantenere uno spazio di silenzio e di cura di sé e della propria fede. Allo stesso tempo, questo è un momento storico di crisi del cristianesimo, con le chiese che si svuotano, la Bibbia che va in dissolvenza, il mondo giovane che gravita altrove. La fatica si associa così alla malinconia della storia, e ciò può rivelarsi particolarmente drammatico sul piano delle biografie singolari ma anche su quello delle vite comunitarie.
Che fare, dunque?
Occorre partire dalla formazione in senso autenticamente sinodale, sviluppando tutti gli anticorpi possibili per eventuali clericalismi ingiusti, paternalismi dannosi ed eroismi narcisisti. È sempre l’alterità a custodire la nostra identità e la nostra differenza, e questo vale anche per chi fa il parroco. Un parroco non dovrebbe trovare una comunità che gli faccia da specchio, ma una comunità che sappia modulare nel senso della condivisione, della sinodalità e della corresponsabilità le sue parole, le sue prassi e i suoi sogni, ma anche le sue fatiche, le sue malinconie e le sue mancanze. Proprio oggi (ieri per chi legge, ndr), nel consiglio presbiterale della mia diocesi, ho sentito un prete affermare che lui non può immaginare il suo ministero senza pensarsi dentro un orizzonte di corresponsabilità missionaria e che per lui è prassi quotidiana la collaborazione con laiche e laici, anche riguardo aspetti celebrativi che per molte parrocchie risultano impraticabili.
Da dove viene questo guadagno simbolico e la forza di questo posizionamento pratico? Perché altri non sentono la stessa cosa, pur abitando lo stesso contesto? Come possiamo arrivare a questo frutto dello Spirito senza lacerazioni? Occorre agire a tanti livelli: educativi, formativi, canonici, teologici ed esperienziali. Per quello che vedo io, però, non funzionerà nulla se non smettiamo di trattare la questione delle donne come un tema tra gli altri, come un problema da risolvere, come un enigma da rimuovere. Questa Chiesa ha bisogno di donne e uomini insieme, attratti dalla stessa promessa evangelica di una fioritura della vita, disponibili alla cura di un mondo devastato, capaci di stare nella parzialità delle proprie differenze senza trasformarle né in privilegi né in difetti, solidali nella gestione dei conflitti e disposti a cercare insieme la pace.
Fa un decisivo passo in avanti la causa di beatificazione di Salvo D’Acquisto. E presto si potrebbe giungere alla dichiarazione, da parte del Papa, della venerabilità del brigadiere che offrì la sua vita in cambio di alcuni ostaggi dei nazisti nel 1943. A quel punto mancherebbe solo il miracolo. Lo scatto è avvenuto il 19 settembre scorso grazie «al felice esito del Congresso particolare sull’offerta della vita» in seno al Dicastero delle cause dei santi, come ha ricordato ieri il segretario del Dicastero stesso, l’arcivescovo Fabio Fabene, intervenendo al convegno “Non c’è amore più grande. Martirio e offerta della vita”, i cui partecipanti saranno ricevuti questa mattina in udienza da Francesco. La giornata conclusiva del simposio è stata dedicata proprio alla terza via della santità - cioè l’offerta della vita - introdotta come fattispecie a se stante e perciò distinta dalle altre due (martirio ed eroicità delle virtù) da un motu proprio del Papa, Maiorem hac dilectionemdell’11 luglio 2018. In pratica vi si stabilisce che è possibile proclamare la santità di coloro che siano morti per amore del prossimo, affrontando un pericolo che quasi certamente li avrebbe condotti alla fine della propria esistenza. Si pensi a un medico morto per curare i malati di una grave epidemia, avendo contratto egli stesso la malattia, o al caso di Gianna Beretta Molla, che non volle abortire al fine di curarsi da un tumore e che morì una settimana dopo aver partorito la sua terza figlia. Ora il sacrificio di Salvo D’Acquisto rientra in questa nuova fattispecie. Monsignor Fabene ne ha ricordato ieri le complesse tappe. «Dapprima l’inchiesta diocesana fu sulle virtù in grado eroico. Poi, arrivati gli atti processuali alla Congregazione delle cause dei santi, si è ritenuto di mutarne il lemma alla fattispecie del martirio. Ma il Congresso peculiare dei Consultori teologi il 30 novembre 2007 giudicò gli elementi probatori non sufficienti a dimostrare che si sia trattato di un vero e proprio martirio. Con Maiorem hac dilectionem anche la causa di Salvo D’Acquisto ha trovato una fattispecie più idonea e consona». Per cui ora essa sarà sottoposta alla sessione ordinaria dei cardinali e vescovi (probabilmente entro il prossimo febbraio) e poi sarà trasmessa al Papa per la dichiarazione di venerabilità.
Dall’emanazione del motu proprio a oggi sono state istruite 13 cause per l’offerta della vita. I dati sono stati forniti da Fabene, ieri. «Di esse, 4 provengono dagli Usa, 3 dall’Italia, 2 dall’Ecuador e 2 dalla Spagna, 1 dalla Polonia e 1 altra dal Brasile. Il numero complessivo è di 17 Servi di Dio: 1 cardinale, 10 sacerdoti (2 religiosi, 8 diocesani), 1 religiosa e 5 fedeli laici di diverse età. Sette cause provengono da un cambiamento di lemma, sei sono originali».
Le altre due cause “italiane” riguardano un altro carabiniere, Albino Bandinelli, e il cardinale Ludovico Altieri, vescovo di Albano. Il primo nell’estate del 1944, pur non facendo parte dei partigiani, si spacciò per uno di loro di fronte alla minaccia del comando fascista di fucilare gli ostaggi, nonché di incendiare Santo Stefano d’Aveto, in provincia di Genova. Perciò fu ucciso. Il porporato laziale invece morì nel 1867 di colera dopo aver soccorso, senza temere per la propria incolumità, i colpiti dall’epidemia. «I martiri non sono stati e non sono degli eroi insensibili alla paura, all’angoscia, al panico, al terrore, al dolore fisico e psichico - ha detto il cardinale Marcello Semeraro, tracciando le conclusione del convegno -. Così, ad esempio, si trovano descritti eroi mitologici come Achille, noto per la sua invulnerabilità tranne che nel tallone; Prometeo, che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini; Eracle, proverbiale per le sue straordinarie fatiche e la sua forza sovrumana. I martiri cristiani, invece, - ha aggiunto il prefetto delle Cause dei santi - non furono impassibili. Furono umani». La loro esperienza ci parla «di forza nella debolezze e di forza della debolezza», secondo l’espressione usata da Andrea Riccardi. E da questo dare la vita deve trarre forza anche la Chiesa, specie in un’epoca segnata da un’antropologia caratterizzata, come ha detto la filosofa Lodovica Maria Zanet (intervenuta insieme con il francescano Maurizio Faggioni), da individualismo, diritti senza doveri e prevalenza del virtuale sulla realtà. Per invertire la rotta.
Le sue omelie alla Messa festiva delle 21 – sempre affollata – celebrata nella chiesa milanese di San Francesco, tutt’uno con il convento dei Cappuccini di piazza Velasquez e allo storico Centro culturale Rosetum – sono per tanti come una borraccia di acqua fresca per la traversata di una settimana. Padre Roberto Pasolini da sabato 9 novembre è il nuovo Predicatore della Casa Pontificia, nominato dal Papa per succedere a padre Raniero Cantalamessa che lascia questo incarico – affidato dal 1743 a un frate minore cappuccino – dopo ben 44 anni, appena varcata la soglia dei 90.
Di anni, Pasolini, ne ha 53 – compiuti, il 5 novembre –, un legame vivo con i giovani che in gran numero ne frequentano liturgie, riflessioni e i cicli delle “Dieci parole”. Milanese, frate dal 2002 e sacerdote dal 2006, è docente di Esegesi biblica alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale. La sua frequentazione viva e intima della Parola, nutrita da una spiritualità intensa (ne ha scritto nel recente Iniziazione alla preghiera, edito da San Paolo), fluisce in una predicazione coinvolgente che rende Dio presente e vicino a ciascuno, un Padre che ama pazzamente ogni suo figlio, conducendolo al bene per strade sorprendenti, da scoprire con la fiducia che dentro c’è un progetto di pienezza, fuori da compromessi e rassegnazioni: scomodo, impegnativo, inimmaginabile. È lungo questo viaggio della vita che, insieme a padre Roberto, si incontra un Gesù che sembra di non aver davvero mai conosciuto – non così “vero” –, umanissimo e divino, una compagnia esigente e illuminante sul mistero della vita personale.
L’ascolto delle sue omelie è un’esperienza talmente incoraggiante, ma allo stesso tempo diretta e senza sconti, che la loro puntuale registrazione online (gli audio nel suo canale Youtube) raccoglie ogni settimana centinaia di ascolti. Non sorprende che Pasolini sia diventato uno dei più apprezzati (e impegnati) predicatori di esercizi spirituali, animatore di incontri con giovani (seguitissimo il suo ciclo delle Dieci parole), direttore spirituale di fidanzati, confessore, amico di tutti quelli che ne cercano la parola cordiale e accogliente. E anche autore spirituale: dopo la sua trilogia sul peccato e la grazia (“ Non siamo stati noi. Fuori dal senso di colpa”; “È stato Dio. Dentro una vita nuova”; “Saremo noi. Immersi nell’amore più grande”) ha impressionato Un giorno smetteremo di morire, narrazione di respiro autobiografico (illuminante l’intervista di Monica Mondo per Soul su Tv2000).
«I sentimenti che provo in questo momento sono ambivalenti – riflette Pasolini parlando con Avvenire –: da una parte provo una grandissima gioia e gratitudine per una chiamata grande, meravigliosa che ho ricevuto, dall’altra un senso di timore e inadeguatezza davanti a un compito che mi sembra enorme e di fronte al quale mi sento così piccolo. Provo ad aggrapparmi a ciò che in momenti come questo mi fa sempre camminare con speranza: se Dio ora mi chiede di compiere questo passo mi darà anche la forza di attraversarlo. Di certo raccogliere l’eredità di padre Raniero Cantalamessa, del quale sono sempre stato sin dal mio ingresso nell’ordine un profondo estimatore per le sue meditazioni e i suoi libri, trovando sempre in lui una grande ispirazione, mi dà la vertigine. Provo a credere che se ora è a me che viene chiesto di portare avanti questa tradizione, che ha un grande valore per la Chiesa e anche per il nostro ordine, vorrà dire che potrò farlo in un modo che corrisponde a me e in cui potrò manifestare semplicemente me stesso, senza sentirmi nella necessità di un confronto con chi mi ha preceduto. Avanzo con gioia e timore, e con grande fiducia che sarò comunque accompagnato da tutte le persone che mi hanno aiutato in questi anni a maturare la comprensione della Parola di Dio. E proverò a farla risuonare nel cuore della Chiesa, affidandomi al Signore».
Il passaggio di testimone dopo tanti anni pone sulle spalle di Pasolini – come lui stesso riconosce – un’eredità di grande spessore: umana, spirituale, teologica. Ed ecclesiale: «Sono al quarantaquattresimo anno di attività – disse nel luglio scorso padre Cantalamessa ad Avvenire per i suoi 90 anni –. Calcolando in media otto prediche l’anno, tra quelle di Avvento e quelle di Quaresima, risultano 352 prediche, corrispondenti a tantissime ore del tempo del Papa. Una bella responsabilità. Quando qualcuno mi chiede il perché di questo, rispondo – e non sto scherzando – che il motivo è che i Papi si sono probabilmente resi conto che quello è il posto dove il padre Cantalamessa può fare meno “danno” alla Chiesa...». Di sé dice che «ho continuato per tutta la vita a fare quello che facevo da bambino, quando portavo acqua ai mietitori nel campo dei nonni durante la Seconda guerra mondiale. È cambiata solo l’acqua che porto – la Parola di Dio –, e sono cambiati i mietitori, tra i quali tre pazientissimi Pontefici: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco». Un’immagine simbolica che torna in un suo libro-intervista, Il bambino che portava acqua (edito da Ancora). A quella fonte che zampilla ora si accosta padre Pasolini. Con l’identica umiltà, e lo stesso fuoco interiore.
Missionario in Giappone come Francesco Saverio, secondo basco dopo Ignazio di Loyola a guidare da preposito generale la Compagnia di Gesù negli anni turbolenti del post-Concilio (1965-1983). Ma soprattutto un uomo che spese la vita per gli altri. Soprattutto i poveri e in particolare i rifugiati.
È il ritratto che probabilmente emergerà oggi a Roma con la sessione di chiusura dell’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù, la fama di santità e dei segni del servo di Dio il gesuita Pedro Arrupe (1907-1991). L’evento si aprirà questa mattina (nel giorno, tra l’altro, in cui si ricorda la sua nascita a Bilbao avvenuta il 14 novembre del 1907) alle 12 nella Sala della Conciliazione, del Tribunale nel Palazzo Apostolico Lateranense (e potrà essere seguito live grazie al link tinyurl.com/28wwyw3s).
A presiedere la sessione sarà il prossimo cardinale e vicario del Papa per la diocesi di Roma Baldo Reina. Con il futuro porporato saranno presenti i membri del Tribunale diocesano che hanno condotto l’inchiesta: monsignor Giuseppe D’Alonzo, delegato episcopale; don Giorgio Ciucci, promotore di giustizia; Marcello Terramani, notaio attuario. Un appuntamento quello di oggi che permetterà di fare affiorare, dopo una lunga indagine durata più di 5 anni (la fase diocesana si è aperta il 5 febbraio del 2019) i singolari tratti di carità, santità, amore e obbedienza per la Sede Apostolica del servo di Dio.
Di questo è convinto il postulatore generale delle cause dei santi della Compagnia di Gesù il gesuita madrileno Pascual Cebollada. «Nel processo, il tribunale ecclesiastico della diocesi di Roma luogo in cui è morto il 5 febbraio del 1991 – spiega - ha ricevuto circa 70 testimonianze orali, e ci sono circa di 10mila pagine degli scritti inediti di Arrupe raccolti dalla Commissione storica durante questi più di cinque anni, includendo il tempo della pandemia». E annota il gesuita, classe 1960, che di formazione è un esperto di teologia spirituale: «Non era una novità, ma si conferma la grande coerenza di quest’uomo nel suo amore al Signore, alla Chiesa, alla Compagnia, con una dedizione totale a quello che considerava la volontà di Dio in ogni momento, come aveva promesso in un voto di perfezione privato fatto la veglia della sua ordinazione sacerdotale nel 1936».
Il religioso ignaziano si sofferma sull’atto solenne di oggi. «Simbolicamente – rivela – dopo giuramenti, discorsi e preghiere, si chiuderanno le scatole, i faldoni. Tutta la documentazione sigillata con la cera lacca sarà consegnata al Dicastero delle cause dei santi. La speranza è che in pochi anni, dopo la stesura della sua Positio, don Pedro, così veniva familiarmente e amorevolmente chiamato da alcuni gesuiti, possa essere dichiarato venerabile».
Una fama di santità di questo basco così singolare che continua a crescere. E testimoniata forse anche da come visse il crepuscolo della sua vita in preghiera e in silenzio. E sempre in comunione con il Successore di Pietro di allora: Giovanni Paolo II. Nell’estate del 1981 un infarto lo conduce alla paralisi e alla perdita della parola. Lasciato l’incarico di preposito generale, muore nel 1991 nell’infermeria della Curia generale dei gesuiti a Roma, vivendo questo lungo tempo di malattia pregando per la Compagnia e la Chiesa. «Sì, la nostra Postulazione Generale riceve frequentemente testimonianze scritte che vengono da luoghi e persone di estrazione culturale diverse. L’ultima, inoltrata alcuni giorni fa, di un luterano legato a Taizé che lo aveva conosciuto personalmente». E aggiunge un dettaglio: «Notizie di alcune possibili guarigioni miracolose sono pervenute alla nostra Postulazione, ma finora nessuna di esse è risultata valida per essere considerata un miracolo. Invece, grazie e favori, segni ottenuti per la sua intercessione continuano ad arrivare in modo costante e mostrano la devozione alla sua persona».
L’appuntamento di oggi consentirà di tornare con la mente al carismatico generalato di questo basco (che partecipò tra l’altro all’ultima sessione del Concilio Vaticano II nel 1965) e che da giovane gesuita si spese nell’agosto del 1945 per aiutare e venire incontro (grazie anche ai suoi studi universitari in medicina) agli sfollati e alle persone ferite di Hiroshima dopo il disastro nucleare della bomba. Padre Cebollada si sofferma su un altro aspetto: la venerazione interna alla sua Famiglia religiosa per l’illustre confratello. Molto simile a quella nutrita e coltivata negli anni da due futuri cardinali e gesuiti del rango di Carlo Maria Martini e Jorge Mario Bergoglio che lo conobbero da “vicino”. «Arrupe è stato il superiore generale di entrambi, e si conserva il loro rapporto scritto, non accessibile fuori di un processo di beatificazione (sono posteriori al 1958). Ma molto di questo rapporto speciale ed epistolare è noto. E papa Francesco ha sempre mostrato con le sue dichiarazioni ma anche i gesti come quello di recarsi alla sua tomba alla Chiesa del Gesù di Roma nel 2013 la sua sincera ammirazione per il servo di Dio». E annota ancora un particolare: «Oggi i nostri novizi continuano a leggere testi rilevanti e significativi scritti dal gesuita di Bilbao per la loro vocazione. Come è singolare che più di 150 istituzioni (universitarie e non solo) della Compagnia nel mondo portano il suo nome (tra queste il “campus Arrupe” di Madrid inaugurato nel settembre scorso). Tutto questo ci mostra l’attualità degli insegnamenti di Arrupe all’interno della Compagnia di Gesù di oggi». Un personaggio don Pedro che ha lasciato un’impronta indelebile sul suo Ordine: sotto la sua guida (18 anni di governo) la Compagnia reinterpreta la sua missione come servizio della fede e promozione della giustizia: durante il suo generalato nascerà, nel 1980, il Jesuit Refugee Service. «Egli è stato “un uomo per gli altri” – è la riflessione finale -. Ed è stato un uomo straordinario in tante cose. In un tempo di fede debole lui ci ha indicato sempre anche attraverso i suoi scritti e la sua testimonianza spesso silenziosa degli ultimi anni il primato di Dio. Proprio come voleva Ignazio credeva nei rapporti personali. E aveva fiducia negli altri. Di fronte alle ingiustizie del mondo, allo sfruttamento degli ultimi e alle crisi migratorie che ancora in questo 2024 stiamo vivendo ha avuto l’intuizione più di 40 anni fa di fondare il Jesuit Refugee Service. Tutto questo ci fa pensare a quanto sia ancora attuale e profetica, a 33 anni dalla sua morte, la sua eredità per noi gesuiti. E non solo».
Dal 15 al 17 novembre si terrà a Roma la Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, una delle tappe della “fase profetica”, ultimo tratto del Cammino sinodale nazionale. Nella Basilica di San Paolo fuori le Mura si ritroveranno oltre mille delegati e vescovi per confrontarsi sui Lineamenti, il testo che raccoglie i risultati raggiunti finora e propone alcune traiettorie pratiche. La Prima Assemblea sinodale è chiamata a lavorare sui Lineamenti per poi giungere allo Strumento di lavoro, in vista della Seconda Assemblea sinodale in programma, sempre a Roma, dal 31 marzo al 4 aprile 2025. La Prima Assemblea si aprirà venerdì 15 novembre con gli interventi del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, e di Erica Tossani, della presidenza del Comitato nazionale del Cammino sinodale. La relazione principale è affidata all’arcivescovo Erio Castellucci, presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale. Pierpaolo Triani, della presidenza del Comitato, presenterà le modalità di lavoro. La giornata di sabato 16 sarà dedicata al confronto nei tavoli sinodali. Alle 15 è prevista la Lectio sull’icona biblica a cura di don Dionisio Candido, responsabile dell’Apostolato Biblico della Cei, mentre alle 18.30 è in programma la celebrazione dei Vespri e la preghiera per le vittime di abusi. Domenica 17, dopo la presentazione dei lavori dei tavoli sinodali, Zuppi e Castellucci concluderanno l’incontro, affidando quanto emerso alle diocesi. Alle 12.30 la Messa.
Il Cammino sinodale della Chiesa italiana «in questi tre anni ha evidenziato diversi aspetti critici, ma ci coglierei l’aspetto positivo», che è quello «della partecipazione e del desiderio di essere ancora parte attiva». Ne è convinto Simone Morandini, teologo e vicepreside dell’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” in Venezia, tra gli esperti chiamati dalla Cei nel Comitato del Cammino sinodale, guardando all’appuntamento che dal 15 al 17 novembre vedrà la Chiesa italiana impegnata nella sua Prima Assemblea sinodale, incaricata di fare sintesi sul Cammino finora compiuto e a predisporre uno strumento di riflessione in vista dell’appuntamento conclusivo del 2025. Con Morandini affrontiamo il primo dei tre ambiti (Comunicazione e prassi pastorali) individuati nei Lineamenti in vista dell’Assemblea sinodale.
Insomma professore non è il caso di scoraggiarsi davanti agli aspetti critici emersi?
Ripeto. Il Cammino, sia nella sua fase narrativa sia in quella sapienziale, ha offerto una ricchezza di istanze, permettendo a tutti di avere uno sguardo complessivo. Ora da quelle osservazioni siamo chiamati a costruire percorsi significativi. E il fatto che siano emerse criticità è il miglior segnale che non stiamo facendo un Cammino “rituale”, ma c’è volontà nelle nostre comunità di mettersi ancora una volta in gioco, di essere protagonisti. E queste mi sembrano dinamiche positive. E poi nella fase sapienziale sono emerse molte buone pratiche che dovrebbero trovare voce nell’ormai imminente Prima Assemblea sinodale. Un bagaglio utilissimo per quelle scelte, anche audaci come è scritto nei Lineamenti, che siamo chiamati a fare come comunità cattolica in Italia.
Tra i punti critici evidenziati, vi è quello della sensazione che “il discorso cristiano” sembra diventato “insignificante nella vita delle persone”. Uno scenario preoccupante. Ma è anche un processo irreversibile?
Penso che questa sensazione sia condivisa da tutte le Chiese presenti in Italia, anche se a livelli differenti. Una insignificanza che ha, però, formulazioni differenti tra le realtà ecclesiali del Nord e quelle del Sud. Una sensazione accentuata in una dinamica legata alla secolarizzazione dell’intera società. Ma anche in questo caso siamo chiamati a guardare le opportunità e le sfide che si presentano, cercando di rispondere al quesito di come situarsi in questo cambiamento che sembra dimenticare o marginalizzare il cristianesimo. Dobbiamo trovare - ed essere - quei “germogli del Regno”, capaci di far nascere e germogliare nuove modalità di testimonianza dentro l’attuale società. Compito non facile, certo, visto che la società stessa vive profonde crisi, intese come interrogativi a cui rispondere. Rispetto al passato viviamo in una società multietnica, multiculturale e anche con un pluralismo religioso. Direi che l’invito fatto dal Concilio Vaticano II, di saper “leggere i segni dei tempi”, dopo oltre mezzo secolo rimane quanto mai attuale in una società ancora più complessa di quella in cui si viveva ai tempi del Vaticano II.
Nei Lineamenti elaborati per la Prima Assemblea sinodale si esprime il rischio di “una divaricazione tra la cultura e la profezia”. Può aiutarci a comprendere meglio il rischio?
Sono fondamentalmente due. Il primo è rappresentato da coloro che esprimono la propria testimonianza con forza e radicalità, legandola a riflessioni teologiche. Il secondo è rappresentato da coloro che elaborano ricerche teoriche, che poi hanno necessità di collegarsi con il vissuto. Entrambe mancano di una collaborazione tra loro. Devo dire che nel nostro contesto di Chiesa italiana storicamente c’è un legame piuttosto solido tra l’azione pastorale e la teologia. Ovviamente in questo contesto storico è un legame che va rafforzato.
Un esempio concreto?
Penso al ruolo delle donne nelle nostre comunità. Un tema molto dibattuto all’interno delle nostre realtà e che anche al recente Sinodo dei vescovi ha trovato attenzione. E il dibattito non si è esaurito lì, visto che è un tema affidato a una delle dieci Commissioni che proseguono il lavoro di riflessione del Sinodo stesso. Altri esempi sono il lavoro che stiamo facendo all’Istituto San Bernardino con la rete teologica del Mediterraneo e quello di una “teologia pubblica ecumenica”. L’obiettivo resta quello di collegare una riflessione teologica sul tema con gli interrogativi concreti che sorgono da questi temi.
Nell’ambito del linguaggio e della comunicazione si è riflettuto anche sulla liturgia. Sconsolante il quadro che emerge: la nostre liturgie appaiono poco significative, poco attrattive e persino poco comprensibili nei loro gesti. Ma cosa è mancato all’interno delle comunità perché non si arrivasse a questo scenario?
Anche in questo caso invito a non generalizzare. Certo il disagio nel vivere pienamente le nostre liturgie esiste ed è diffuso. Ma accanto a situazioni in cui si fatica a cogliere i valori e il significato delle nostre liturgie, ci sono anche molte esperienze positive, in cui si cura moltissimo la predicazione, legandola in modo significativo alle letture proclamate nella Messa. Esperienze in cui si valorizzano simboli e gesti compiuti durante la Messa, in modo tale che chi vi partecipa li comprenda pienamente e diventi un soggetto attivo della liturgia e non uno spettatore. Non bisogna dimenticare, ovviamente, che la liturgia ha una sua dimensione di inattualità, intesa come collocazione del Mistero che viene celebrato. Ma a preoccupare è quando insorge una “incomprensibilità” del rito. C’è una Tradizione - quella con la T maiuscola - da far vivere attraverso la liturgia, ma essa non produce nulla se non si è capaci di renderla accessibile e comprensibile a chi vi partecipa. Buone pratiche esistono e potrebbero essere piste da seguire.
Altro punto dolente è la scarsa presenza dei giovani nelle nostre comunità, anche se qualche segnale positivo durante il Cammino sinodale c’è stato con la loro partecipazione attiva. Cosa rende così difficile alle nostre comunità l’essere attrattive verso i giovani?
I giovani ci sono e se offri loro degli spazi significativi di partecipazione sono presenti. Si pensi al tema del volontariato, ma anche a significative esperienze di preghiera o di Scuola della Parola. Sono tante le esperienze giovanili in tal senso presenti lungo la Penisola. Ma questi ambiti non sempre appartengono al tessuto sociale delle nostre comunità. Ecco forse occorre valorizzare quelle buone pratiche che consentono alle giovani generazioni di esprimere e vivere la propria soggettività di fede.
Quanto sono importanti il linguaggio e la comunicazione nell’ambito del dialogo ecumenico?
È centrale. Sia per il dialogo ecumenico sia per quello interreligioso. È importante rendere comprensibili i nostri valori e concetti ad altri che vivono in altri contesti culturali e religiosi. Non si tratta di modificare quello che la Chiesa definisce “il deposito della fede”, ma di attivare forme di espressione capaci di far comprendere all’interlocutore i nostri principi con un linguaggio legato all’oggi. Insomma la sfida è “come dire Gesù Cristo oggi”, come testimoniarlo, come rendere ragione della nostra fede nella società di oggi.
Compito reso ancora più complesso da una società che relega l’aspetto religioso alla vita privata. Una posizione a volte poco compresa da chi professa altre religioni.
Una buona pista di lavoro ce l’ha indicata papa Francesco con l’enciclica Laudato si’, strumento prezioso per il dibattito sulla nostra casa comune, sui temi che riguardano l’intera famiglia umana. A partire dalla Tradizione possiamo offrire un nostro contributo all’intera famiglia umana. Le nostre Chiese e le altre fedi sono chiamate a questa sfida.
I Lineamenti evidenziano che si può essere “stranieri” anche dentro la comunità ecclesiale, messi ai margini “per il proprio orientamento sessuale o per situazioni affettive e familiari ferite”. Un’altra sfida per la Chiesa?
Non si può nascondere che dentro le nostre comunità c’è chi vive la sensazione di essere marginalizzato o di sentirsi trattato come un fattore di disturbo. La sfida per tutti noi è quella invece di valorizzare le differenze che esistono dentro la Chiesa. Spero che su questo tema il confronto prosegua.
Malgrado il proverbio “l’abito non fa il monaco”, quello che indossiamo un po’ ci definisce, nel senso che rivela, almeno in parte chi siamo. Vale anche per i sacerdoti e in generale per religiosi e religiose? È la domanda cui risponde il nuovo episodio di Taccuino celeste il podcast dedicato ai temi della fede, ad approfondire in cosa crede chi crede. Al centro della riflessione il comportamento dei presbiteri nella vita tutti i giorni. Cioè, al di fuori delle celebrazioni, un prete può vestirsi come preferisce? Esistono delle regole? Il podcast affronta il tema richiamando gli abiti che caratterizzano alcuni ordini religiosi e spiegando anche perché il Papa si vesta di bianco.
Come detto, Taccuino celeste è un podcast di argomento religioso. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di come si diventa santi, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Terremoto nella comunione anglicana. L'arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate d'Inghilterra, in carica dal 2013, ha annunciato le sue dimissioni dopo l'accusa emersa in un rapporto indipendente di aver coperto gli abusi sessuali e psicologici sistematici nei confronti di minorenni imputati a un potente avvocato, John Smyth, scomparso a 75 anni nel 2018.
«Dopo aver chiesto il cortese permesso a Sua Maestà il Re, ho deciso di dimettermi dall'incarico di Arcivescovo di Canterbury». Si legge nella dichiarazione con cui Welby ha annunciato le dimissioni, spiegando che «la Makin Review (la revisione indipendente guidata da Keith Makin sulla gestione del caso Smyth da parte della Comunità anglicana, ndr) ha svelato la cospirazione del silenzio a lungo mantenuta sugli abusi atroci di John Smyth: quando sono stato informato nel 2013 e mi è stato detto che la polizia era stata avvisata, ho creduto erroneamente che sarebbe seguita una risoluzione appropriata. È molto chiaro che devo assumermi la responsabilità personale e istituzionale del lungo e traumatico periodo compreso tra il 2013 e il 2024».
Welby non ha resistito alle ripetute pressioni e agli appelli per farsi da parte arrivati dal clero anglicano, inclusi alcuni vescovi, e da una petizione con oltre 14mila firme. Dal Rapporto Makin era emersa un'azione di insabbiamento condotta dai vertici religiosi rispetto alle molestie e violenze compiute da Smyth. Il legale in veste di predicatore laico aveva preso di mira almeno 130 tra bambini e ragazzi nel corso di campi estivi cristiani per giovani tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 nel Regno Unito e successivamente in Zimbabwe e Sudafrica, dove si era trasferito. Il dossier sugli abusi era finito sulla scrivania del leader anglicano, come da lui ammesso, sin dall’inizio del suo mandato nel 2013.
«È mio dovere onorare le mie responsabilità costituzionali ed ecclesiastiche – dichiara Welby - quindi le tempistiche esatte saranno decise una volta completata la revisione degli obblighi necessari, compresi quelli in Inghilterra e nella Comunione anglicana. Spero che questa decisione renda chiaro quanto la Chiesa d'Inghilterra comprenda seriamente la necessità di un cambiamento e il nostro profondo impegno nel creare una chiesa più sicura. Mentre lascio la carica, lo faccio con dolore per tutte le vittime e i sopravvissuti agli abusi. Gli ultimi giorni hanno rinnovato il mio profondo e sentito senso di vergogna per gli storici fallimenti nel proteggere la Chiesa d'Inghilterra». «Per quasi dodici anni – aggiunge Welby - ho lottato per introdurre miglioramenti. Spetta agli altri giudicare cosa è stato fatto. Nel frattempo, manterrò il mio impegno di incontrare le vittime». «Credo – conclude l’ormai ex Primate - che farsi da parte sia nel migliore interesse della Chiesa d'Inghilterra, che amo profondamente e che ho avuto l'onore di servire».
È così destinato ad aprirsi, in un momento di forte difficoltà per l'istituzione religiosa, il processo di successione per nominare il nuovo primate della chiesa d'Inghilterra e anche leader spirituale per 85 milioni di persone in tutto il mondo in quella che è conosciuta come Comunione anglicana.
Come spiegato dal settimanale cattolico Tablet ripreso dal Sir toccherà ora alla “Crown Appointments Commission”, una commissione formata da vescovi anglicani, scegliere il successore di Welby, selezionando due nomi da inviare al premier britannico Keir Starmer. Quest’ultimo ne sceglierà uno che verrà poi approvato da re Carlo III, che formalmente è il Capo della Chiesa d’Inghilterra. Secondo il Tablet a contare, per i candidati, saranno l’età, il sesso e la presa di posizione sul problema dell’ordinazione di donne e pastori omosessuali, due questioni che dividono profondamente la Comunione anglicana, con le gerarchie e le di solito più ferventi comunità del Global South - soprattutto africane - fermamente contrarie alla benedizioni delle unioni omosessuali, ormai ammesse in quelle del mondo occidentale. Nel 2023 dieci arcivescovi della Global South Fellowship of Anglican Churches hanno addirittura dichiarato che non avrebbero più riconosciuto l’arcivescovo di Canterbury come primus inter pares tra i vescovi della Comunione Anglicana. Tra i favoriti, secondo il settimanale cattolico, vi sono l’arcivescovo di York Stephen Cottrell che, a 67 anni, potrebbe essere troppo anziano e il vescovo di Chelmsford Guli Francis-Dehqani, donna e aperta verso la comunità Lgbt, che, per queste due ragioni, potrebbe non ottenere i voti necessari. Inoltre sarebbero in lizza anche il vescovo di Nottingham Paul Williams, quello di Chester Mark Tunner, quello di Norwich Graham Usher e quello di Leicester Martyn Snow. Chiunque sarà non avrà un compito facile.
C’è Adriano, uomo avanti d’età, che ha speso la vita nel lavoro e nella famiglia, ma ad un certo punto ha voltato l’angolo sbagliato che l’ha attratto in un vortice: il gioco d’azzardo e ora non riesce più ad arrivare a fine mese. C’è Amir, senegalese, venditore ambulante, che ha lasciato la sua terra per sentire il profumo della libertà e ogni giorno raccoglie il suo grande sacco per provare a vendere qualcosa e aiutare la famiglia in patria… Come Adriano e Amir sono in tanti a bussare ogni giorno al dormitorio "Don Tonino Bello" che, all’interno del centro storico di Salerno, accoglie ospiti in condizione cronica di disagio abitativo, accompagnandoli in un percorso di reinserimento sociale e lavorativo. Il dormitorio è stato realizzato grazie ai fondi dell’8xmille per rispondere ai bisogni delle fasce più deboli. «Alle porte della Caritas diocesana bussano "tutti", anziani, senza dimora, migranti, persone che vivono fragilità sociali e/o culturali. Coloro che la durezza della vita ha costretto ad un tempo, più o meno lungo, di precarietà - spiega Ilaria Amoroso, membro dell’èquipe Caritas della diocesi di Salerno Campagna Acerno, area estreme povertà -. Quello che sappiamo è che dietro ogni volto c’è una storia, c’è un tempo bello, c’è la speranza di rialzarsi e andare avanti. A noi il compito di essere sentinelle per intercettare il bisogno e, in collaborazione con i servizi sociali territoriali, individuare le strategie per restituire loro la dignità di figli di Dio».
È una struttura di "seconda accoglienza", capace di accogliere fino a 25 ospiti, aperta a tutti coloro che vivono un disagio abitativo ma non economico (persone a basso reddito: pensionati o lavoratori saltuari). L’accesso avviene previo colloquio con il Centro di ascolto diocesano, ed è richiesto il versamento di un contributo solidale, concordato in base alle capacità di ognuno, e che servirà a contribuire al mantenimento della struttura stessa: utenze, migliorie, riparazioni. Lo scopo del contributo è quello di rendere gli ospiti responsabili e rispettosi del luogo dove vivono e avviarli a un graduale reinserimento sociale.
«In pratica accogliamo chi - prosegue Ilaria - tra lavoro saltuario, lavoro precario, non riesce ad arrivare a fine mese. Qui trova un pit stop, che gli permetterà di raccogliere le forze per rialzarsi e ripartire nel viaggio della vita». Come sta tentando di fare Omar, tunisino, giunto in Italia alla ricerca del padre, partito qualche tempo prima e disperso nel Mediterraneo. Omar era minorenne quando è arrivato in Italia. In Tunisia ha lasciato madre, due fratelli, una sorella, gli amici ed è approdato a Lampedusa . In quanto minorenne è stato trasferito nel centro di Salerno: la notizia della morte del padre non è stata semplice da affrontare. Così, grazie agli educatori della comunità, ha iniziato un percorso psicologico e, contemporaneamente, il percorso della scuola di italiano. Ma il tempo è passato e Omar è diventato maggiorenne. A 18 anni non si può più stare in una comunità per minori, così ha bussato alla porta della Caritas ed è stato accolto. «Ha iniziato un percorso con "Mestieri Campania" e continua a studiare e formarsi - spiega Ilaria Amoroso -; speriamo di poter dare a questo ragazzo il sogno di diventare grande in un mondo che l’ha fatto crescere troppo in fretta».
Nel centro campano si punta dunque all’accoglienza, alla reciprocità, alla donazione di sé e chi varca la soglia del dormitorio si inserisce in un percorso di famiglia. Prima di cena ci si deve occupare della propria igiene personale; poi si condivide il pasto serale e si rassetta la cucina. Dopo c’è tempo per la tv, un libro, o per chiacchierare, fino alle 22 quando si va nelle proprie camere. Al mattino, la sveglia è alle 6.30 e dopo colazione, alle 8, si lascia la struttura. C’è chi va a lavoro, chi si appresta a cercarlo e chi si incammina presso il centro di accoglienza diurno per trascorrere la mattinata per poi recarsi a mensa per il pranzo. Nel pomeriggio, abitualmente, gli ospiti che non lavorano si ritrovano nel centro diurno San Francesco di Paola e, alle 19, tornano insieme al dormitorio.
Un’esperienza in sinergia con parrocchie, associazioni e movimenti del territorio. «Queste strutture sono motivo di esperienza pratica per i gruppi, dai più piccoli ai più grandi - spiega ancora la volontaria -. Esperienze di servizio che almeno una volta nella vita vanno proposte e fatte e si ritorna sempre perché come dice san Giacomo: "Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere e io ti mostrerò dalle mie opere la fede"».
Come si cerca di fare con Malik, giunto dall’Africa in nome della libertà, per la quale sono morti uomini e donne, e che cerca un riscatto qui in Italia. «Non abbiamo la soluzione e non abbiamo la bacchetta magica per riportare ciascuno indietro nel tempo e correggere o togliere i pesi della vita che hanno ridotto tanti a uno stato di bisogno. Nel nostro piccolo cerchiamo di restituire la dignità usurpata - conclude Ilaria -. Al "Don Tonino Bello", un vero porto franco, incrociamo sguardi e mani. Gli occhi sono la prima cosa che ci colpisce e sono quelli di coloro che bussano alle nostre porte. Le mani sono ciò che contraddistingue chi chiede, consumate dal duro lavoro per guadagnare e affrontare il lungo viaggio. Qui si può proprio dire "nella fatica riposo" perchè oltre a ricaricare il corpo stanco, c’è una tregua per il cuore che trova ascolto e pace».
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Sabato 16 novembre, alle ore 14.30, nella Basilica Antica del Santuario di Oropa, nel Biellese in Piemonte, si svolgerà il tradizionale rito di pulizia della Sacra Effigie. La statua della Madonna verrà portata all’esterno del sacello per consentire la pulizia che sarà effettuata con un panno di lino. La cerimonia è un gesto carico di affetto e di tradizione: una “carezza” alla Madonna. Durante il rito, si attesta che sui volti della Madonna e di Gesù non si posa mai la polvere. Questo fenomeno, a cui nessuno riesce a dare una spiegazione, viene constatato ogni anno e richiama nella Basilica Antica di Oropa sempre più fedeli. Tutti i pellegrini possono prendere parte alla cerimonia: al termine della pulizia, viene donato ai partecipanti un piccolo lino con cui possono accarezzare la Madonna prima che venga riposta nella teca.
Secondo la tradizione l’origine del Santuario è da collocarsi nel IV secolo, ad opera di Sant’ Eusebio, primo vescovo di Vercelli. I primi documenti scritti che parlano di Oropa, risalenti all’inizio del XIII secolo, riportano l’esistenza delle primitive Chiese di Santa Maria e di San Bartolomeo, di carattere eremitico, che costituivano un punto di riferimento fondamentale per i viatores (viaggiatori) che transitavano da est verso la Valle d’Aosta. Lo sviluppo del Santuario subì diverse trasformazioni nel tempo, fino a raggiungere le monumentali dimensioni odierne tramutandosi da luogo di passaggio a luogo di destinazione per i pellegrini animati da un forte spirito devozionale.
Il complesso è frutto dei disegni dei più grandi architetti sabaudi: Arduzzi, Gallo, Beltramo, Juvarra, Guarini, Galletti, Bonora hanno contribuito a progettare e a realizzare l’insieme degli edifici che si svilupparono tra la metà del XVII e del XVIII secolo. Dal primitivo sacello all’imponente Basilica Superiore, consacrata nel 1960, lo sviluppo edilizio ed architettonico è stato grandioso. Il primo piazzale, su cui si affacciano ristoranti, bar e diversi negozi, è seguito dal chiostro della Basilica Antica, raggiungibile attraverso la scalinata monumentale e la Porta Regia.
Cuore spirituale del Santuario, la Basilica Antica è stata realizzata nel Seicento, in seguito al voto fatto dalla Città di Biella in occasione dell’epidemia di peste del 1599. Nel 1620, con il completamento della Chiesa, si tenne la prima delle solenni incoronazioni che ogni cento anni hanno scandito la storia del Santuario. La facciata, progettata dall’architetto Francesco Conti, semplice nell’eleganza delle venature verdastre della pietra d’Oropa, è nobilitata dal portale, più scuro, che riporta in alto lo stemma sabaudo del duca Carlo Emanuele II, sorretto da due angeli in pietra. Sull’architrave del portale si trova scolpita l’iscrizione “O quam beatus, o Beata, quem viderint oculi tui”, che dai primi decenni del sec. XVII è il saluto augurale che il pellegrino, raggiunta la meta, riceve varcando la soglia della Basilica.
Gli appunti critici per la Chiesa dentro il quadro di una società che ancora guarda al cristianesimo come a un riferimento collettivo sono probabilmente già nell’agenda di tanti delegati alla prima assemblea sinodale delle Chiese in Italia, da venerdì a Roma. Di certo la ricerca del Censis sugli italiani, la fede e la Chiesa, anticipata domenica da “Avvenire” ( tinyurl.com/4brb42hu), sta dando da pensare a monsignor Antonello Mura, vescovo di Lanusei e Nuoro, presidente dei vescovi sardi, padre sinodale per due anni in Vaticano, membro di presidenza del Comitato del cammino sinodale italiano. «Il messaggio dell’indagine – riflette – è che la Chiesa non può che mettersi in ascolto, offrendo ai cristiani di oggi non solo una serie di proposte ma il coinvolgimento nella vita comunitaria. Per farli sentire a casa».
I dati offrono un quadro in chiaroscuro. Qual è la sua impressione?
Penso che senza il Sinodo la situazione sarebbe più problematica. Il cammino sinodale ha aiutato a cogliere una Chiesa che si mette in gioco, che cerca, che non si limita ad aspettare. Il fatto che molti si dicano ancora cattolici è una base per costruire, ma rischia di restare solo un’etichetta, un’atmosfera di sottofondo, se non si trasforma in pratica, esperienza, relazione.
Cosa l’ha colpita di più della ricerca?
L’annotazione che nella Chiesa i cristiani di valore, intraprendenti, non trovino posto. Con una battuta, me lo spiego col fatto che le persone intelligenti danno fastidio dappertutto... Anche nella vita delle comunità talvolta quelli che hanno idee, e le avanzano lealmente, non sono apprezzati da una maggioranza “piatta”. Questo mi fa pensare a quanto sia importante una cultura cristianamente ispirata: perché se i cristiani di valore si sentono esclusi rischiamo di diventare Chiesa “di rifugio”, cercata da chi ha qualche problema, più che di iniziativa e proposta, rischiando di non far emergere la capacità del Vangelo di trasformare la realtà, di lasciare un’impronta sulla vita personale e la società.
Cosa legge nel valore assegnato da una larga maggioranza di italiani alla vita spirituale?
Mi provoca molto e mi spinge a chiedermi se le nostre Chiese sono capaci di cogliere questa domanda di interiorità. Chi avverte questa esigenza finisce per cercare una risposta non nella comunità ma in sé stesso, in quella fede “fai da te” che il Censis cataloga come individualismo.
Il 71% degli italiani si dice cattolico, ma è un’identità che non passa attraverso la Chiesa, visto che solo il 15% frequenta. Cosa ne pensa?
Le critiche si concentrano sul fatto che la Chiesa sia “troppo antica” ma soprattutto non abbastanza chiara. L’assemblea sinodale italiana deve aiutare a capire quali sono i punti fermi della vita credente oggi in Italia, senza restare nell’indeterminatezza. Dobbiamo sentirci interrogati da questa insoddisfazione, più ancora del rilievo sul non essere abbastanza “attuali”, anche perché tra i credenti emerge una certa “nostalgia”.
Un altro aspetto interessante è la percezione sui sacerdoti, considerati in egual misura (il 40% del campione) da cercare o da evitare. Cosa vede in questa ambivalenza?
Per com’è la società oggi, che quattro italiani su dieci abbiano stima dei sacerdoti – un dato ben al di sopra di quello della frequenza – lo considero tutt’altro che negativo. I nostri sacerdoti continuano ad avere un ruolo importante nella società. D’altra parte però il 60% chiede alla Chiesa di cambiare... E allora mi chiedo: che risposte vogliamo dare a chi è diffidente per effetto degli abusi o del ruolo ancora inadeguato assegnato alle donne?
Cosa dicono i dati della ricerca all’assemblea sinodale italiana?
Anzitutto parlano di un cambiamento necessario e del recupero di presenze che possono avere valore nella Chiesa. A Roma saranno presenti persone entrate nel cammino sinodale sin dall’inizio, gente di spessore che ha accettato di farsi coinvolgere, dando prova di grande continuità nell’impegno, con un’esperienza di Chiesa allo stesso tempo vissuta e guidata. A me sembrano l’avanguardia di quel che si potrebbe mettere in movimento.
Quali sono le sue aspettative sull’assemblea di Roma?
Spero che si riesca a far percepire l’importanza dell’aspetto comunitario della fede, sottraendo i credenti all’idea che quel che fanno nella vita di fede valga solo per ciascuno individualmente, senza uno sguardo comunitario. Vanno fatti passi avanti nella partecipazione attiva dei cristiani alla vita ecclesiale, sul piano pubblico, concreto, e anche normativo. Senza temere il cambiamento. Perché cambiare è il modo della Chiesa di vivere e di essere nel tempo.
«Decodificare per l’uomo di oggi, con l’ausilio della tecnologia digitale, l’intreccio di storia, arte e spiritualità che fanno della Basilica un unicum al mondo». Questo lo scopo del progetto “La basilica di San Pietro: AI-Enhanced Experience/Esperienza abilitata dall’AI” realizzato da Microsoft e dalla Fabbrica di San Pietro in collaborazione con la Fondazione “Fratelli tutti” e della “Missione digitale della Basilica in uscita”, presentata nella Sala Stampa della Santa Sede dal cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica e presidente della Fabbrica. Con lui Brad Smith, vice chairman e presidente di Microsoft. D’altronde, spiega Gambetti la Chiesa da sempre cerca «di comunicare la propria fede nel divino attraverso i linguaggi del tempo e del contesto culturale di appartenenza». In nuovo progetto si basa su tecnologie all’avanguardia e sull’Intelligenza artificiale per consentire a pellegrini e visitatori di tutto il mondo di ammirare e interagire con la Basilica di San Pietro nei suoi punti inaccessibili. In quelli che l’occhio umano non riesce a vedere. Sarà possibile riscoprire la sua storia e il suo ruolo di cuore della cristianità, nonché quello di preziosissimo scrigno d’arte e cultura dell’intera umanità. Si tratta di una scelta innovativa voluta dal cardinale Gambetti che ha trovato la piena collaborazione di Microsoft allo scopo di aprire le porte della Basilica – proprio in occasione del prossimo Giubileo - al mondo, per donare a tutti la sua spiritualità, la sua cultura e la sua bellezza. Soprattutto a coloro i quali saranno impossibilitati a raggiungere Roma nell’Anno Santo. L’AI for Good Lab di Microsoft ha elaborato la vasta mole di dati della fotogrammetria del team francese di Iconem, raccolti anche con dei droni, perfezionando il “gemello digitale” della Basilica con una precisione millimetrica. Non solo. L’intelligenza artificiale ha aiutato a rilevare e mappare le vulnerabilità strutturali della Basilica, come crepe e tessere di mosaico mancanti, per orientare al meglio i futuri lavori di conservazione.
Durante il Giubileo poi due nuove mostre immersive presso la Basilica di San Pietro, Petros Eni e Petros Eni Octagon, offriranno a pellegrini e visitatori una combinazione unica di nozioni storiche ed esplorazioni digitali, mostrando aspetti chiave nell’evoluzione della Basilica nei secoli. Intanto un sito web interattivo consentirà a chiunque, nel mondo, un “accesso diretto” alla Basilica di San Pietro attraverso modelli 3D dettagliati e contenuti educational. «Siamo giunti a definire un piano coordinato di servizi e di attività di comunicazione per una “Basilica in uscita” - spiega il cardinale Gambetti - In questi anni, non senza fatica, abbiamo affrontato la splendida sfida del rapporto tra l’uomo e la tecnica con lo spirito di fraternità, che ha animato importanti collaborazioni improntate alla circolarità, di competenze, di punti di vista e di mezzi, con il comune obiettivo di favorire la crescita umana delle persone». Inoltre «sono state create piattaforme e app per offrire servizi ai pellegrini e ai visitatori al fine di favorirne l’esperienza in San Pietro; e sono stati resi maggiormente comprensibili – tramite i linguaggi multimediali, l’impiego dell’Intelligenza artificiale e la proposta di corsi di formazione – i significati custoditi dal complesso monumentale». «Con la Basilica nello spazio digitale, inizia un nuovo processo di comunicazione, con una nuova opera d’arte che prosegue sul cammino di coloro che hanno lavorato alla bellezza del messaggio che parte dal cuore della cristianità» spiega il direttore della comunicazione padre Enzo Fortunato, anticipando che il 25 novembre verrà presentato, assieme al cardinale Gambetti, e in accordo con gli organi competenti, il piano di comunicazione della Basilica. «Siamo stati animati da un desiderio che non è semplicemente estetico o legato a un’innovazione tecnologica – aggiunge infine il coordinatore del progetto Microsoft, padre Francesco Occhetta - Molte persone cercano uno spazio sacro in cui potersi ritrovare davanti a Dio e la ricostruzione digitale della Basilica potrà aiutare questo incontro in ogni angolo del mondo».
L’Italia resta un Paese assolutamente cattolico, gli insegnamenti di Gesù sono ancora un punto di riferimento fondamentale mentre c’è diffidenza nei confronti della Chiesa, ritenuta responsabile di emarginare i laici di valore. La fotografia che emerge dalla ricerca Censis “Italiani, fede e Chiesa” è quella di un Paese la cui cultura è fortemente intrisa di simboli religiosi ma che vive la fede in modo sempre più individualistico. «C’è diffidenza nei confronti dell’esperienza comunitaria – spiega Giulio De Rita, il ricercatore del Censis che ha seguito l’indagine – si registra una dimensione sempre più personalistica della fede, che riguarda soprattutto i cattolici non praticanti cui piace vivere la vita interiore, spirituale, da soli, al limite condividendola con la famiglia o gli amici più stretti».
Si diceva della sfiducia verso la Chiesa cattolica, soprattutto nella sua dimensione comunitaria.
È un sentimento abbastanza diffuso. La Chiesa viene vista come un po’ troppo clericale, quindi non in grado di valorizzare le risorse di valore che avrebbe al suo interno.
Si guarda con meno fiducia anche ai preti?
In declino è soprattutto la figura del sacerdote clericale, quello che non sa ascoltare i cambiamenti che avvengono fuori dalla Chiesa.
Possiamo dire che il sacerdote è in calo come figura di riferimento, ma forse meno di quanto ci si potesse aspettare?Diciamo che la vita ecclesiale vissuta nella dimensione della parrocchia, comunitaria non è più così attraente. Bisognerebbe “uscire”, come dice continuamente il Papa, non stare in sagrestia a coccolare le ultime pecorelle rimaste ma andare a cercare quelle che si sono smarrite. La cosa paradossale è che gli italiani ritengono la parrocchia un luogo accogliente, il sacerdote una persona con cui ti puoi confrontare, ma non li vedono amalgamati nella società. La Chiesa in uscita non è ancora cominciata.
Però non viene considerata un’istituzione superata.
La maggior parte degli italiani le riconosce una sua trascendenza e quindi la capacità di attraversare i secoli. Quando ero ragazzino c'era una un'ideologia contraria al cattolicesimo, adesso non c’è più.
Ma forse il venir meno del rifiuto a muso duro si è tradotto in indifferenza.
L’effetto è appunto il soggettivismo, l'individualismo, il pensare soltanto a sé stessi. Tempo fa abbiamo realizzato un’indagine proprio sull’indifferenza da cui è emerso come l’unico peccato ancora sentito dagli italiani sia quello di omissione, cioè l’aver trascurato i propri talenti. La Chiesa orizzontale, che chiede di essere buoni col prossimo, alla fine non risponde all'esigenza profonda dell'uomo moderno che si domanda: “ma io nella mia vita che cosa faccio? Devo far fruttare le mie potenzialità”. Non significa soltanto fare del bene ma anche realizzarsi come persone. Bisognerebbe puntare più sulla parabola dei talenti che su quella del buon samaritano.
Il cristianesimo è la fede in Gesù, che continua ad essere un riferimento fondamentale per la vita degli italiani.
Sì, poi bisognerebbe sapere cosa significa, perché Gesù illumina ciascuno in modo differente e quindi riesce un po’ difficile incasellarlo in categorie. Però certamente sulla carta è il punto di riferimento trascendente per la maggior parte degli italiani. E dove c'è qualcuno che crede in Gesù, lì è Chiesa, lì è l'istituzione che però non riesce ad abbracciare tutto quell’oltre 70% di persone che si definiscono cattoliche.
C'è un dato in questa ricerca che l’ha sorpresa?
Direi la pervasività del sentimento cattolico e poi la risposta alla domanda, che non era mai stata fatta, sulla vita dopo la morte.
Il 58% degli italiani crede che esista, percentuale che sale all’87,7% tra i praticanti. E il 61,7% ritiene che la vita dopo la morte sarà diversa tra chi ha vissuto bene e chi ha vissuto male.
Sì, però a proposito dell’ultimo dato questa consapevolezza non orienta realmente la vita. Non si crede più nel giudizio finale. Si potrebbe spiegare questo atteggiamento con il fatto che il cattolicesimo è la religione della misericordia, che Dio perdona tutto, basta anche pentirsi un attimo prima di morire. Io però penso che alla base ci sia qualcosa di più profondo: non si intende più il peccato come qualcosa che ha a che fare con Dio, da cui siamo liberati grazie al suo perdono. Così viviamo con i sensi di colpa, che nascono dall’essere stati imperfetti, dal non aver corrisposto a quella che volevamo fosse l’immagine di noi stessi. Si potrebbe dire: non credo nel giudizio perché credo nella misericordia di Dio. In realtà non si crede nel giudizio perché ci siamo impossessati del peccato e non ce ne liberiamo più.
Dentro il cassetto della scrivania nel suo studio di avvocato a Parigi, teneva la copia di una preghiera. «E ogni tanto la tiravo fuori per leggerla», racconta Jean-Paul Vesco. Era la “preghiera dell’abbandono” di Charles de Foucauld. «Padre mio, fa’ di me quello che vuoi. Qualsiasi cosa Tu faccia di me io ti ringrazio», scriveva il “piccolo fratello di tutti” che aveva lasciato la Francia per “vivere per Dio” nel deserto africano. Un po’ come Vesco. Francese che dagli uffici lungo la Senna si è ritrovato in Algeria. Prima da domenicano. Poi da vescovo. Adesso anche da cardinale. Uno dei ventuno nuovi cardinali che saranno creati da papa Francesco il 7 dicembre.
Sessantadue anni, originario di Lione, è arcivescovo di Algeri dalla fine del 2021 dopo aver guidato la diocesi di Orano, quella in cui era stato vescovo Pierre Claverie, domenicano come lui. Assassinato nel 1996. E beato dal 2018. «A lui devo la mia presenza in Algeria», dice Vesco. Porpora in un Paese dove l’islam è religione di Stato e dove la sfida è quella di «costruire la fraternità: cristiani e musulmani insieme», spiega ad “Avvenire”. Come richiama la basilica di Nostra Signora d’Africa che dalla cima del promontorio a nord di Algeri abbraccia il mar Mediterraneo e custodisce un’invocazione alla Madonna che è come un ponte oltre le differenze: “Nostra Signora d’Africa, prega per noi e per i musulmani”. «Ogni anno i visitatori sono 350mila e il 98% è musulmano. Consideriamola pure una chiesa dell’incontro. Condividendo lo spazio sacro, teniamo aperta la porta a quella parte del mistero che è vicinanza all’altro distante da noi e a un Dio che si mostra nel volto del prossimo, chiunque esso sia», racconta Vesco. Una berretta della “fratellanza universale”. E “aperturista” sotto molteplici punti di vista: compreso il diaconato femminile o i separati risposati. Ma anche a sorpresa. «Non me lo sarei mai immaginato. Alla gente della diocesi, che pensava me ne andassi dopo l’annuncio di papa Francesco all’Angelus, ho detto che il cardinalato non è un riconoscimento alla mia persona ma alla nostra Chiesa».
Ha dedicato la sua ultima Lettera pastorale alla fraternità. È la missione della Chiesa in Nord Africa?
«La fraternità è lo stile con cui qui testimoniamo il Vangelo. Non si tratta di ridurre tutto al dialogo. È necessario, invece, vivere insieme, lavorare insieme, sentirsi sorelle e fratelli che condividono la stessa terra. Ciò che ci unisce è infinitamente più importante di ciò che ci divide. Ovviamente non nascondiamo il nostro essere cristiani: siamo qui per questo. Ma serve un ribaltamento di prospettiva. Non dobbiamo affermare il nostro Dio, ma mostrare con la vita il Dio in cui crediamo».
I cattolici sono una piccola minoranza: 10mila su 43 milioni di abitanti. Come si vive in una nazione che è in tutto e per tutto islamica?
«Lo Stato pensa se stesso e si organizza con parametri musulmani. La nostra Chiesa è per lo più formata da stranieri, di almeno quaranta nazionalità. Per i cristiani non autoctoni la vita di fede non è problematica. La questione si fa ben più complessa per i nativi locali che sono un numero molto ridotto. Le conversioni sono difficili da accettare: sia a livello sociale, sia da parte dell’islam stesso. Così, ad esempio, sorgono problemi all’interno delle famiglie».
Lei ripete che la convivenza non è un’utopia. Quale lezione di pace dal Nord Africa?
«Non sono le differenze religiose che alimentano le tensioni. Anzi, possono favorire le soluzioni. Non siamo chiamati a convertirci a vicenda ma a creare insieme un clima di fiducia reciproca. È il grande messaggio che arriva dal Documento di Abu Dhabi che reputo uno dei più belli del pontificato e che sta orientando sia la mia vita personale sia il mio ministero episcopale. Quando nel 2019 papa Francesco e il grande iman di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, hanno firmato il testo l’uno accanto all’altro, non erano due leader religiosi rivali, ma uniti dallo stesso sguardo sulla realtà e dall’impegno a rendere migliore il mondo».
Perché la scelta di indossare l’abito domenicano dopo essere stato avvocato?
«Avevo 33 anni quando sono entrato nell’Ordine. E per sette ero stato un legale. Eppure posso dire di aver avvertito la vocazione fin da ragazzo, a cui però ho risposto tardivamente. Sono stato impegnato anche sul versante politico e sindacale. Ma a un tratto mi sono reso conto che mancava qualcosa. Due figure forti mi sono state di riferimento: Pierre Claverie e Charles de Foucauld».
Entrambi hanno declinato il Vangelo nel Maghreb. Partiamo da Pierre Claverie…
«È stato assassinato durante il mio primo anno di noviziato. Da subito ho percepito una singolare attrazione spirituale verso di lui. Poi, a distanza di alcuni anni, quando la Provincia domenicana ha voluto riaprire una nuova comunità in Algeria, ha inviato me e un confratello. E nel 2012 la Provvidenza ha voluto che diventassi vescovo di Orano, la diocesi di Claverie. Lui ripeteva: “Nessuno possiede la verità. Ognuno la ricerca e io ho bisogno della verità degli altri”. È la mia bussola nel rapporto con il mondo musulmano. E la mia fede si è rafforzata vivendo in un Paese islamico. Infatti la presenza di altre religioni ti allarga gli orizzonti perché ti rendi conto che Dio è ben più grande dei nostri incasellamenti. Inoltre è dall’assolutizzazione della propria visione di Dio che scaturiscono i fondamentalismi».
E Charles de Foucauld?
«Mi ha sempre attratto la sua radicalità unita alla povertà. Un folle di Dio. Quando, dopo il percorso di rinascita della presenza domenicana in Algeria, sono stato costretto a lasciare il Paese perché ero stato eletto provinciale di Francia, pensavo che non avrei più toccato con mano l’esperienza di Charles de Foucauld. Invece un giorno, a Parigi, sono entrato nella chiesa di Saint-Augustin dove lui si era convertito. E ho ritrovato la sua “preghiera dell’abbandono” che ho capito di stare vivendo dopo aver rinunciato all’Algeria. Finché non è arrivata la nomina di Benedetto XVI a vescovo di Orano».
E a Orano ha vissuto la beatificazione dei diciannove martiri d’Algeria. Sacerdoti, religiose e religiosi (fra cui i sette trappisti di Tibhirine e il vescovo Claverie) uccisi nel “decennio nero” del terrorismo islamico che dal 1991 al 2002 ha fatto 150mila vittime.
«Tibhirine è oggi un luogo che attrae migliaia di persone, compresi i musulmani. La beatificazione è stata un invito a “continuare a operare per il dialogo, la concordia e l’amicizia”, aveva scritto papa Francesco. Tutti i martiri avevano deciso di restare nonostante i pericoli negli anni tragici della crisi algerina durante i quali sono stati uccisi anche 119 imam. Desideravano stare accanto alla gente come segno di speranza. Perché la fede cristiana è un messaggio di speranza. La loro è una testimonianza di fedeltà al Vangelo che si è tradotta in vicinanza al popolo».
Come si vedono dall’Algeria i viaggi della speranza dei migranti che lasciano l’Africa?
«L’Algeria è terra di partenze e arrivi. Abbiamo giovani algerini che se ne vanno in Europa o Canada; e migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana che giungono qui. Il Paese reprime in maniera dura l’immigrazione. Eppure non si tratta di numeri: sono donne e uomini che rischiano la vita in cerca di un futuro. Sulle rotte migratorie, sia nel Mediterraneo, sia nei deserti, dove i morti si moltiplicano, sta naufragando la civiltà. E, come ripete il Papa, l’accoglienza è imperativo etico. Reputo drammatico che una persona debba lasciare la sua terra, spesso ricca di risorse come in Africa, per realizzare i suoi sogni».
C’è bisogno di denunciare azioni predatorie nel continente?
«Non ci può essere sviluppo senza giustizia. Quando non si tiene conto della giustizia, si avrà l’arricchimento di pochi a scapito di molti. Ed è quanto sta succedendo ancora oggi. I Paesi che per secoli hanno colonizzato l’Africa hanno una responsabilità enorme, ma vedo nazioni del continente che stanno cadendo nelle mani di altri conquistatori».
Lei è favorevole al diaconato femminile. Perché?
«Le donne sono l’anima della maggior parte di proposte ecclesiali. Però nella Chiesa si parla di donne solo in termini di complementarità rispetto agli uomini. Invece occorre pensare nell’ottica dell’alterità. Allora mi domando: perché privarci della loro sensibilità spirituale nel commento alla Parola di Dio, a cominciare dalle Messe domenicali? Trovo difficile vedere qualcosa che si frapponga a tale prospettiva che può comprendere anche un ministero ordinato. Se vogliamo essere Chiesa cattolica, cioè universale, le donne devono avere spazio. Papa Francesco sta scuotendo la comunità ecclesiale per superare il maschilismo. La Chiesa cammina. E alcune cose cambieranno».
La Speranza è il tema del progetto triennale “The Future of Hope: an interdisciplinary dialogue”, promosso dal Centro di Formazione Integrale dell’Università Europea di Roma, con il patrocinio della FUCE (Federazione Europea delle Università Cattoliche). L’obiettivo è quello di avviare un dialogo culturale e scientifico sulla Speranza nel mondo contemporaneo, attraverso indagini, confronti e scambi accademici internazionali. I professori dell’Università Europea di Roma che coordinano il progetto sono Renata Salvarani, Docente di Storia del Cristianesimo, e Guido Traversa, Docente di Filosofia.
Quest’anno il convegno sarà a Bruxelles dal 19 al 21 novembre. Si confronteranno più di quaranta professori e ricercatori con approcci diversi, portando i risultati delle loro ricerche. Innovazione sociale, storia, teologia, medicina, ICT pianificazione del territorio, intelligenza artificiale sono i focus del dibattito intorno al grande tema della Speranza (inteso anche come visione, propensione, orientamento) che viene inquadrato nelle sue implicazioni concrete, all’interno dei contesti sociali, tecnici ed economici.
I lavori della giornata di martedì 19 novembre si svolgeranno in collaborazione con COMECE, la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea. Nella mattinata si terrà una presentazione del progetto. Nel pomeriggio è prevista una serie di dialoghi tra parlamentari europei e dirigenti delle istituzioni UE con i professori e i ricercatori impegnati nei gruppi di lavoro. Gli incontri, che si svolgeranno in forma di tavola rotonda, saranno condotti dai policy advisor della COMECE, sulla base di dati e documentazione raccolti nelle precedenti ricerche.
Nelle giornate di mercoledì 20 e giovedì 21 novembre si terrà un Convegno Internazionale di taglio accademico sul tema della Speranza e sulle sue implicazioni concrete nella società contemporanea. L’incontro sarà aperto dall’intervento di Padre Pedro Barrajón, Rettore dell’Università Europea di Roma, e il coinvolgimento di atenei dei diversi Paesi, insieme con enti di ricerca come il CNR, confrontando scienze umane e applicazioni tecnologiche.
Come evidenziato dalla prof.ssa Renata Salvarani, coordinatrice scientifica dell’attività: “Guardare al futuro, pensarsi in relazione con ciò che verrà, delineare la società del domani è una sfida che chiama in causa le diverse aree scientifiche. La tre giorni include anche un Forum tra ricercatori, parlamentari europei e policy makers, che si tiene presso la sede della COMECE, la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea. I decisori politici sono destinatari e interlocutori primari del progetto: da un lato le Università mettono a loro disposizione i risultati delle ricerche in corso nei diversi campi e, dall’altro, ricevono input e richieste sulle questioni emergenti. Mantenere un dialogo istituzionale sul piano della conoscenza, condividere prospettive comuni di collaborazione è uno degli obiettivi dell’iniziativa”.
Ulteriori informazioni sul progetto triennale “The Future of Hope” in questo link:
https://www.uer.it/formazioneintegrale/eccellenza-umana/the-future-of-hope
L’Italia rimane fondamentalmente un Paese cattolico, che si riconosce nei valori della fede cristiana e che dedica del tempo alla preghiera, ma la pratica religiosa sta diventando sempre più individualista e fatica a trovare posto nell’esperienza offerta dalla comunità ecclesiale. È questo ritratto, offerto da una ricerca condotta dal Censis per conto della Conferenza episcopale italiana, a provocare la Chiesa italiana, alla vigilia della prima Assemblea sinodale, in programma il prossimo fine settimana. L’indagine è stata svolta nel periodo dal 27 settembre al 1° ottobre 2024, su un campione rappresentativo di mille adulti, ed è stata realizzata proprio nell’ambito del cammino avviato dalla Chiesa italiana tre anni fa. Ne emerge una sfida epocale, con i suoi chiari punti critici ma non priva di opportunità, che possono fare da traino per un rilancio della vita di fede.
Il dato fondamentale è che gli italiani che si definiscono cattolici sono il 71,1% della popolazione: il 15,3% si dice praticante, il 34,9% dichiara di partecipare solo occasionalmente alle attività della Chiesa e il 20,9% afferma di essere “cattolico non praticante”.
Di certo, in questo quadro, il dato più significativo, quello che indica la priorità da mettere in testa alla lista delle questioni da tenere presente in un dibattito sul futuro della Chiesa, è quello riguardante i giovani: nella fascia dai 18 ai 34 anni, infatti, scende al 58,3% la percentuale di coloro che si dichiarano cattolici secondo varie “gradazioni” (i praticanti sarebbero il 10,9%).
Ma cos’è che spinge il 55,8% degli italiani a una pratica saltuaria o assente, pur pensandosi cattolici? Il principale motivo pare essere una forma di “individualismo religioso”. Più di metà di coloro che di fatto rimangono distanti dalla pratica regolare (il 56,1%) dicono di farlo perché vivono “interiormente” la fede.
Questi numeri fanno il paio con quello di coloro che non si riconoscono nella Chiesa cattolica: 4 italiani su 10. Tra i praticanti, e quindi i più fedeli, poco meno del 15% dice di non ritrovarsi dentro la Chiesa così com’è oggi. Anche qui la ricerca indaga le ragioni e ne emerge che, tra coloro che non si sentono lontani da questa Chiesa, il 45,1% dice che è perché è troppo antica, il 27,8% perché non vede “una linea chiara” nella Chiesa stessa. Solo l’8,9% dice di non riconoscersi perché non ci sono donne in posizione di vertice (tra la popolazione femminile la percentuale sale al 12,4%). Il 43,6% degli italiani (il 46,5% delle donne) ritiene che la Chiesa cattolica italiana sia un’istituzione maschilista, percentuale che tra i cattolici praticanti scende al 23,9%.
«La zona grigia nella Chiesa di oggi, quindi – sostiene il presidente del Censis, Giuseppe De Rita –, è il risultato dell’individualismo imperante, certo, ma anche di una Chiesa che fatica ad indicare un “oltre”, la Chiesa ha sempre aiutato la società italiana ad andare oltre, deve ritrovare questa sua capacità, perché una Chiesa solo orizzontale non intercetta chi è ubriaco di individualismo, perché a costoro non basta sostituire l’Io con un “noi”, hanno bisogno di un oltre, hanno bisogno di andare oltre l’io; non è un caso - e dovrebbe preoccuparci come cattolici - che nel mondo stiano vincendo gli “oltranzismi”».
Le fila dei cattolici oggi si assottigliano, ma solo una minoranza crede nella filosofia del “pochi ma buoni”: il 13,9% dei praticanti pensa che vada bene così, mentre per il 60,8% la Chiesa dovrebbe adattarsi alle mutate condizioni del mondo contemporaneo. Il discredito nei confronti dell’esperienza ecclesiale viene anche da una questione dolorosa: gli abusi. Realtà che mina la credibilità della Chiesa per quasi 7 italiani su 10 (6 su 10 tra i praticanti).
Indagando le ragioni dell’abbandono della pratica all’interno della comunità ecclesiale, la ricerca del Censis rivela che al primo posto sembra esserci la tendenza, da parte della Chiesa, a emarginare i “fedeli di valore” o quelli più intraprendenti: lo pensa il 49,2% degli italiani (tra i praticanti la percentuale scende al 38,1%). Dietro, quindi, c’è il desiderio di una Chiesa più coraggiosa, capace di dare più spazio ai laici.
L’Italia nella sua identità culturale rimane cattolica: solo il 5,4% della popolazione dichiara di essere stato educato in un ambito “anti-cattolico”, mentre il 79,8% dice che la sua base culturale è di ispirazione cattolica. Infine, il 61,4% si dice d’accordo con l’affermazione che il cattolicesimo è parte integrante dell’identità nazionale (anche il 41,4% dei non credenti).
E anche i simboli religiosi continuano ad avere in qualche modo un posto: davanti al segno della croce, ad esempio, il 34,5% dice di rispettare questo gesto e per il 54,8% fa parte del sentire personale. Il 41% della popolazione, poi, si riconosce nella devozione alla Madonna, figura rispettata anche tra il 36,7% dei non credenti. Tra i credenti c’è una nota di nostalgia per i “bei riti di un tempo”: a rimpiangerli sono il 43,9% dei praticanti (solo tra il 27,8% della popolazione generale, però).
E i contenuti della fede? Per il 45,5% degli italiani le parole di Gesù sono tra gli insegnamenti spirituali migliori di cui disponiamo e per il 16,3% essi ispirano la vita. Guardando al rapporto con i preti, su 10 italiani, 4 li vedono come delle persone da cui andare a farsi consigliare, 2 non esprimono un’opinione e altri 4 rifiutano l’idea.
Per quanto riguarda l’idea di un partito dall’identità cristiana solo un italiano su dieci crede con decisione che esso potrebbe avere una certa forza nella società, il 37,4% pensa che non l’avrebbe, mentre gli altri hanno posizioni intermedie. Tra i praticanti il 23,2% appoggia l’idea di un partito con un peso nella società, il 19,4% dice con certezza che non avrebbe forza, i rimanenti pensano che ne potrebbe avere in parte, oppure non sanno dare una risposta.
Il 66% degli italiani dichiara di “pregare” o comunque di rivolgersi a Dio o ad un’altra entità superiore: lo fa anche il 65,6% dei non praticanti e addirittura l’11,5% dei non credenti. Si parla però di una preghiera legata non alla liturgia comunitaria, quanto piuttosto a situazioni esistenziali individuali: il 39,4% degli italiani prega quando vive un’emozione, il 33,5% quando ha paura e vuole chiedere aiuto. Anche tra i praticanti solo l’8,8% dichiara di pregare all’interno di un rito.
Per quanto riguarda la vita dopo la morte, il 58% degli abitanti della Penisola crede che esista (l’87,7% tra i praticanti). Tra coloro che ci credono il 61,7% ritiene che sarà diversa tra chi si è comportato male e chi invece si è comportato bene nella vita presente, pensa quindi che ci sarà un “giudizio” e questo orienta le scelte di vita per circa il 53,6%.
Sette italiani su 10 dicono che la vita spirituale resta un’esigenza importante, ma per il 52,7% si tratta di un’esperienza individuale. Ed ecco che si torna quindi alla questione iniziale, cuore anche del Cammino sinodale: come può la Chiesa oggi intercettare questi bisogni e queste esigenze dando risposte credibili ed efficaci, costruendo così comunità calde, partecipate e aperte al mondo? La sfida è impegnativa, ma la voglia di mettersi in gioco è dimostrata dalle energie spese in questi anni proprio nel cammino di confronto diffuso sul territorio e che arriverà nei prossimi giorni a una nuova importante tappa con la prima Assemblea sinodale alla presenza di mille delegati da tutte le diocesi d’Italia.
La maggior parte dei maestri dello spirito sostiene che la via più semplice per imparare a pregare è allenarsi nel ringraziamento. Dire grazie per il nuovo giorno che abbiamo la possibilità di vivere, per la natura, per una bella sorpresa. Ringraziare per le persone. Perché, anche se fatichiamo a riconoscerlo, il nostro giudizio sul mondo, se ci piaccia o no abitarlo, dipende dalla qualità delle relazioni che sappiamo costruire. Primo requisito della felicità è avere qualcuno con cui condividere successi e delusioni. Ogni nuova presenza che arriva nella nostra vita, allora, dovrebbe regalarci gioia, visto che, nell’ottica della fede, rappresenta una via preferenziale per incontrare Dio. Spesso, però non ce ne rendiamo conto. Anzi, ci comportiamo in modo diametralmente opposto facendo precedere la conoscenza da un pregiudizio negativo: «chissà perché quell’uomo si è avvicinato, chissà cosa vuole quella ragazza, io non le darò niente». In questa sua breve riflessione spirituale il gesuita e psicoterapeuta statunitense John Powell (1925-2009) ci ricorda che ogni persona è un dono di Dio e che lo siamo noi stessi. L’invito, quindi, è ad andare al di là dell’involucro, della prima impressione, per scoprire quanta ricchezza, originale e irripetibile c’è in ognuno. In particolare, il religioso racconta di avere ricevuto sul tema un articolo anonimo, di cui riassume il contenuto.
«Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti. Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente. Alcuni vengono strapazzati durante l'invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.
Ma il dono non è l'involucro ed è importante rendersene conto. È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall'involucro esteriore.
Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c'è bisogno dell’aiuto altrui. Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati. Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.
Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono. Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia. E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.
Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni. Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu. Siamo doni vicendevoli».
«Aprite le vostre case». Nicholle Salerno cita l’appello che sua madre le ha raccontato. Viene da Brindisi, ha 29 anni e dà voce all’Italia nel Consiglio dei giovani del Mediterraneo. «Era il 1991 quando le strade della mia città si erano riempite di albanesi, arrivati attraversando il mare. La Chiesa e le istituzioni avevano chiesto aiuto alla gente. E scuole, parrocchie ma anche famiglie avevano risposto con uno straordinario slancio di generosità che ha segnato profondamente la comunità, scegliendo di condividere i propri spazi con chi era appena sbarcato». Perché, aggiunge Nicholle, «l’accoglienza non può essere delegata: spetta a ciascuno di noi». Parole che ben sintetizzano il progetto giubilare presentato ieri a Palermo dal Consiglio dei giovani del Mediterraneo, il laboratorio di fraternità e azione ecclesiale e civica voluto dalla Cei dopo il “summit” dei vescovi e dei sindaci dell’area a Firenze nel 2022.
?“Prendersi cura: una famiglia per ogni comunità del Mediterraneo” è la sfida che i ragazzi lanciano alle Chiese di tutto il bacino in occasione dell’Anno Santo. «Attraverso le Conferenze episcopali e i Sinodi che i delegati del Consiglio rappresentano, i ragazzi vogliono essere protagonisti di un impegno nel nome dei più deboli», spiega Tina Hamalaya, originaria del Libano ma trasferitasi in Italia per lavorare con la Fondazione Giovanni Paolo II. Lei anima la segreteria della consulta internazionale permanente formata da quaranta giovani, tutti under 35, dei Paesi affacciati sul grande mare. Giovani di tre continenti, Europa, Africa e Asia, che decidono di «mettersi in cammino con quanti sono nel bisogno per curarne le ferite: siano essi migranti, rifugiati, richiedenti asilo ma anche senza fissa dimora, madri e padri in condizioni di disagio con i loro figli, donne vittime di tratta, giovani in difficoltà. In pratica, tutte quelle situazioni di fragilità che con numeri sempre più preoccupanti caratterizzano le nostre società», aggiunge Tina.
Una proposta concreta di “speranza”, come chiede il Giubileo alle porte, che ha per trampolino Brancaccio, il quartiere di Palermo che lega il suo nome al martirio di padre Pino Puglisi e che sta risorgendo sui passi del sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993. Un “maestro” dell’accoglienza degli ultimi che i ragazzi incontrano visitando il luogo del suo assassinio, entrando nella casa-museo ricavata nell’appartamento dove il prete viveva, toccando con mano le attività di promozione sociale realizzate dal Centro di accoglienza Padre Nostro che il parroco beato aveva fondato nella periferia del capoluogo. «Solo se si resta sul territorio e non si fugge davanti ai problemi, è possibile cambiare la realtà», afferma Maurizio Artale, presidente del Centro, rivolgendosi ai ragazzi.
È nei Magazzini Brancaccio, complesso confiscato alla mafia e ora collegato al liceo delle scienze umane “Dolci”, che i giovani del Mediterraneo si riuniscono nella loro seconda delle tre giornate siciliane all’insegna del motto “Non c’è pace senza accoglienza”. A promuovere l’appuntamento la rete Mare Nostrum a cui la Cei ha affidato il Consiglio; a costituirla quattro realtà di Firenze che tengono viva la profezia di riconciliazione fra i popoli di Giorgio La Pira: la Fondazione La Pira, l’Opera per la gioventù La Pira, il Centro internazionale studenti La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II. «Gesù non ha mai detto: “Scusate, non posso aiutarvi…”. - sottolinea Pilar Perez Brown, 26 anni, volto della Chiesa spagnola in seno all’organismo -. Spesso ci concentriamo su discorsi teorici, ma dobbiamo domandarci che cosa possiamo fare nel quotidiano». Ecco il percorso di ospitalità che unirà le sponde del Mediterraneo. «C’è chi pensa che incontrare l’altro o averlo in mezzo a noi significhi indebolire la nostra identità. Niente di più falso. Il Vangelo è fraternità. E il Giubileo invita a spalancare le braccia e i cuori», rimarca Pilar.
Testimonial del progetto è il vescovo latino Cesar Essayan, energico vicario apostolico di Beirut, che porta a Palermo l’orrore e le sofferenze di un popolo sotto le bombe di Israele. «Non bisogna essere ingenui: l’accoglienza può generare paure», afferma. Vale anche per il suo Libano dove, riferisce, gli sciiti di Hezbollah si mescolano agli altri sfollati. «Ma noi accogliamo tutti», chiarisce. Poi il monito: «Occorre liberare il Vangelo dalle ideologie di gruppi o partiti che l’hanno preso in ostaggio». Il presule sposa l’iniziativa del Consiglio. «Dai migranti e dai rifugiati si leva un grido: “Signore, dove sei? Perché ci hai abbandonato?”. Tocca a noi ascoltarlo e rispondere a questo appello mostrando Cristo che vive in noi. Non da soli, ma insieme». Un invito a creare ponti intorno al grande mare. E ai giovani Essayan dice: «Trascinate i vostri vescovi. La Chiesa ha urgenza del vostro coraggio».
Indirizzare e verificare le attività, la programmazione e la progettualità della Pul, dal punto di vista accademico, scientifico e didattico, nonché la sua gestione amministrativa, economica e finanziaria. Questo il compito del Consiglio superiore di coordinamento della Pontificia Università Lateranense (Pul), del quale il Papa ha nominato ieri i membri, fra i quali vi sono otto laici (di cui due donne). I nomi: l’arcivescovo Alfonso V. Amarante, rettore della Pontificia Università Lateranense; monsignor Riccardo Ferri, pro-rettore della Pul; Sabrina Di Maio, direttore gestionale Pul; Immacolata Incocciati, segretario generale Pul; monsignor Roberto Campisi, assessore per gli Affari Generali, Segreteria di Stato; Luis Herrera Tejedor, direttore della Direzione per le Risorse umane della Santa Sede, Segreteria per l’Economia; Paolo Nusiner, direttore generale dell’Università Cattolica, direttore per gli Affari Generali del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, presidente dell’Ospedale Isola Tiberina - Gemelli Isola; Stefano Fralleoni, dirigente dell’Area Servizi e del Controllo gestione dell’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica); Aldo Fumagalli, presidente di Beldofin srl e amministratore delegato di Albe Finanziaria; Giacomo Ghisani, direttore del Segretariato per le Partecipate, gli Affari Generali e Giuridici della diocesi di Cremona; Mimmo Muolo, vaticanista e vice caporedattore di Avvenire. La comunità studentesca della Lateranense ha raggiunto nel 2023-2024 le 1.137 unità. Gli studenti provengono da Europa (657), Africa (180), Asia (169) e Americhe (130). I laici sono 421, gli ecclesiastici 347, i religiosi 290 e i seminaristi 79. A commentare la nomina del Consiglio per Avvenire è il rettore, l'arcivescovo Alfonso Amarante.
Il rilancio dell’“università del Papa” passa anche dal contributo delle esperienze e delle professionalità dei laici. La Pontificia Università Lateranense (Pul) vuole fare di meglio e di più, e per questo, nel rinnovato Consiglio superiore di coordinamento della Pul, assieme al rettore, l’arcivescovo Alfonso Amarante, e ad altri due ecclesiastici, sono stati scelti otto laici, tra cui due donne (per le nomine papali si veda il box qui sotto). Per lavorare su tre fronti: elaborare un piano di sviluppo che tenga conto della missione dell’ateneo; individuare strategie di comunicazione per promuovere l’Università Lateranense; pianificare strategie per la raccolta di fondi.
Monsignor Amarante, che valore ha per la Pontificia Università Lateranense questo Consiglio superiore di coordinamento?
È previsto dagli statuti dell’Università, ma il Papa, quando ad agosto mi ha nominato rettore, ha chiesto che il Consiglio prendesse ancora di più in mano le sorti dell’Università, da un punto di vista “politico” e amministrativo. E la presenza dei laici in questo organismo è una ricchezza enorme: vengono del mondo accademico, gestionale, della comunicazione. Un grande supporto alla nostra missione.
Su quali direttrici si svolgerà il lavoro?
Quelle del Dna della Lateranense: insegnare materie teologico-canonistiche. Ma il Consiglio è chiamato a un piano di sviluppo sull’offerta delle materie non canoniche e non teologiche – già c’è Diritto civile, Scienza della pace, ora Ecologia e ambiente – e a diffondere nel mondo la conoscenza della Pul.
Il nuovo Consiglio dovrà anche consigliarla sulla componente gestionale. E il Papa ha chiesto di cercare risorse esterne.
È una sfida enorme. Il Papa e la Chiesa credono nella Pul, nell’istruzione in genere. E continuano a investire. Lo sforzo economico nella cultura non ha un rientro nell’immediato. Quando fu costruita la Cappella Sistina, il Papa di allora venne accusato di sperpero. Oggi è un patrimonio dell’umanità, che illustra la bellezza e comunica il messaggio salvifico. Ora ci viene chiesto di trovare partner per la nostra missione. I primi sono gli ex studenti dell’Università, ma a livello mondiale, oltre gli episcopati, ci sono tanti uomini e donne di buona volontà che condividono questa visione.
Il rinnovamento dell’università andrà anche nel senso del dialogo con la cultura laica?
Per il Santo Padre le università pontificie, in particolare la Lateranense, devono essere luogo di studio e di ricerca, ma anche di incontro culturale. Oggi lo strumento di dialogo per eccellenza è la cultura, in cui la Chiesa ha ancora da dire la sua. Fino al ’900 la cultura generalmente era fatta in ambito cattolico, con un linguaggio oggi non più adeguato. Il Papa parla di una teologia capace di avere carne e corpo, cioè di parlare lo stesso linguaggio del popolo di Dio, spesso distante dal nostro. La sfida è trovare i canali giusti per declinare il sapere teologico in sapere di vita. Se parlo di anima, immanenza, spirito, la maggior parte delle persone non capisce. Bisogna trovare nuove forme di comunicazione per far capire la bellezza della vita eterna, il senso salvifico della nostra fede. La teologia è guardata quasi con sospetto dal mondo laico, a volte nemmeno considerata come una vera scienza. Invece è una scienza del cuore, capace di dialogare con l’uomo di oggi, a partire dalle domande di senso.
Un primo segnale di rinnovamento è il monologo affidato a Giacomo Poretti - del trio Aldo Giovanni e Giacomo - all’inaugurazione dell’anno accademico, il 13 novembre?
Lo abbiamo scelto perché riesce con l’ironia a parlare a una platea molto più grande di quella che potremmo raggiungere. Parlerà dell’anima, indispensabile anche per costruire una nuova università. Un modo per fare da ponte nel dialogo culturale tra il mondo teologico, canonistico, giuridico, e il mondo laico.
Che valore hanno i corsi di Scienza della pace e di Ecologia e ambiente?
Questi due cicli nascono dalla Fratelli tutti e dalla Laudato si’. Per creare un corso di studi serve una proposta forte assieme a una progettazione con investimento sui docenti. Ci sono altri progetti, dovranno essere inerenti al magistero ma anche riconosciuti dallo Stato italiano, per offrire sbocchi lavorativi anche agli studenti laici.
Il corpo studentesco della Pul è multiculturale. Condiziona le scelte dell’ateneo?
Io parlerei di opportunità. Siamo una delle poche università pontificie con un corpo studentesco composto per il 40% da laici italiani, che studiano materie civilistiche. Il resto sono per lo più stranieri indirizzati alla vita religiosa. Il corpo docente si va internazionalizzando, siamo chiamati a trovare nuovi metodi comunicativi, sempre usando l’italiano: non avrebbe senso a Roma, dove si respira la cattolicità, studiare in inglese.
In definitiva, quali sono i tratti distintivi dell’Università del Papa?
Dal 1773, quando fu fondata, approfondisce il magistero petrino e lo sviluppa. E questo dobbiamo continuare a fare anche con i nuovi cicli di studio che offrono ai giovani laici una formazione culturale cristiana.
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Papa Francesco e Mar Awa III, catholicos patriarca della Chiesa assira dell'Oriente, hanno celebrato insieme in Vaticano il trentesimo anniversario della Dichiarazione cristologica comune tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira e il quarantesimo anniversario della prima visita a Roma di un patriarca assiro. La Dichiarazione cristologica comune, firmata l'11 novembre 1994 da san Giovanni Paolo II e dal catholicos patriarca Mar Dinkha IV, ha posto fine a 1500 anni di controversia cristologica risalente al Concilio di Efeso (431).
Mar Awa III era accompagnato dai membri della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira dell'Oriente, istituita dalla stessa Dichiarazione e che ha recentemente avviato una nuova fase di dialogo sulla liturgia nella vita della Chiesa. Nell’occasione il Papa ha annunciato l'inserimento nel Martirologio Romano di Sant'Isacco di Ninive, noto anche come Isacco il Siro, uno dei Padri più venerati della tradizione siro-orientale.
Come ricorda una nota della Santa Sede, Isacco di Ninive, monaco e vescovo nella seconda metà del VII secolo apparteneva alla tradizione pre-efesina, cioè alle Chiese di tradizione assiro-caldea. Nato nell'attuale Qatar, dove visse una prima esperienza monastica, fu ordinato vescovo della città di Ninive, nei pressi dell'attuale Mosul (Iraq), dal catholicos di Seleucia-Ctesifonte, Giorgio I. Dopo alcuni mesi di episcopato, chiese di ritornare alla vita monastica e si ritirò nel monastero di Rabban Shabur a Beth Huzaye (nell'attuale Iran sud-occidentale). Qui compose varie collezioni di discorsi a contenuto ascetico-spirituale che lo hanno reso celebre. Nonostante appartenesse a una Chiesa che non era più in comunione con nessun'altra, perché non aveva accettato il Concilio di Efeso del 431, gli scritti di Isacco furono tradotti in tutte le lingue parlate dai cristiani: greco, arabo, latino, georgiano, slavo, etiope, rumeno e altre. Isacco divenne così un'importante autorità spirituale, soprattutto nei circoli monastici di tutte le tradizioni, che lo venerarono rapidamente tra i loro santi e padri.
La santità supera le divisioni
L'inclusione di Isacco il Siro nel Martirologio romano dimostra che la santità non si è fermata con le separazioni ed esiste al di là dei confini confessionali. Come ha dichiarato il Concilio Vaticano II: «riconoscere le ricchezze di Cristo e le opere virtuose nella vita degli altri, i quali rendono testimonianza a Cristo talora sino all’effusione del sangue, è cosa giusta e salutare» (Unitatis Redintegratio 4). San Giovanni Paolo II, da parte sua, ha dichiarato che «la communio sanctorum parla con voce più alta dei fattori di divisione» (Tertio Millenio Adveniente 37) e che «in una visione teocentrica, noi cristiani abbiamo già un martirologio comune» (Ut Unum Sint 84).
Anche il recente Sinodo sulla sinodalità ha ricordato che «l’esempio dei santi e testimoni della fede di altre Chiese e Comunioni cristiane è un dono che possiamo ricevere, inserendo la loro memoria nel nostro calendario liturgico» (Documento finale 122). Si augura che l’inserimento nel Martirologio Romano di Isacco di Ninive, testimone del prezioso patrimonio spirituale cristiano del Medio Oriente, contribuirà alla riscoperta del suo insegnamento e all’unità di tutti i discepoli di Cristo.
Cos'è il Martirologio romano
Come noto il Martirologio romano è il libro liturgico alla base del calendario che ogni anno determina le feste religiose. Il primo fu approvato da papa Gregorio XIII nel 1586. Nato per conservare la memoria di coloro che persero la vita a causa della loro fede, i martiri appunto, inizialmente ogni Chiesa ne aveva uno. Nel XVI secolo si decise di unificare i vari martirologi in un solo elenco in cui potesseri trovare posto tutti i santi e i beati riconosciuti tali dalla Chiesa cattolica. La compilazione fu curata dal cardinale Cesare Baronio. Successivamente vi furono apportate modifiche e revisioni. L’ultima edizione del Martirologio romano risale al 2001, quella precedente era del 1956.
La misericordia di Dio
Si diceva della grande quantità di discorsi e riflessioni spirituali composti da Isacco di Ninive. Tra i cardini del suo insegnamento, la misericordia di Dio «Un cuore impietoso – scrive Isacco - non sarà mai puro. L’uomo misericordioso è medico della propria anima, e come in un vento impetuoso scaccia da dentro di sé la nebbia della tenebra. Questa è la buona ricompensa di Dio, secondo la parola dell’evangelo di vita: Beati i misericordiosi, perché su di loro sarà la misericordia. E questo, oltre che in futuro, accade in mistero anche quaggiù. Quale misericordia, infatti, è più grande di questa: che quando un uomo è mosso dalla misericordia verso un suo fratello e diventa compagno della sua sofferenza, nostro Signore preserva la sua anima dall’oscurità della tenebra, che è la geenna intelligibile, e lo avvicina alla luce della vita, perché se ne delizi? Bene ha detto il beato Evagrio: la via limpida viene dalla misericordia».
Il francescano cappuccino milanese, fra Roberto Pasolini, è stato nominato nuovo predicatore della Casa pontificia. Prenderà il posto del cardinale Raniero Cantalamessa, che ricopriva questo ruolo dal 1980, quando era stato scelto da Giovanni Paolo II per tenere le meditazioni nei venerdì di Avvento e Quaresima alla presenza del Papa e della Curia romana.
Pasolni attualmente è docente di esegesi biblica presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale a Milano, città dove è nato il 5 novembre 1971.
Ha emesso i voti perpetui nell’Ordine Francescano dei Frati Minori Cappuccini il 7 settembre 2002 ed è stato ordinato presbitero il 23 settembre 2006. Dopo aver conseguito il dottorato in Teologia biblica presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma, è stato docente di Lingue bibliche e di Sacra Scrittura presso lo Studio teologico Laurentianum interprovinciale dei frati minori cappuccini a Milano e a Venezia.
Oggi, oltre a insegnare esegesi biblica presso la Facoltà teologica, collabora con l’arcidiocesi ambrosiana nella formazione dei docenti di religione e con la Conferenza italiana dei superiori maggiori (Cism).
Autore di diversi articoli e libri di spiritualità biblica, si dedica alla predicazione di ritiri e di esercizi spirituali. È apprezzato in particolare anche tra i giovani, ai quali propone il percorso delle «Dieci parole», con incontri sempre molto frequentati nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, affidata alla cura dei cappuccini di piazza Velasquez a Milano.
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«Noi siamo sempre dalla parte dei più deboli». Il segretario generale della Cei, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, inaugura a Palermo l’evento “Non c’è pace senza accoglienza”. E quando dice “noi”, intende la Chiesa, compresa quella italiana, e il mondo cattolico. Il suo è un invito alla «solidarietà», una delle declinazioni della parola «accoglienza» che, aggiunge Baturi, richiede anche «cultura» e «amicizia» facendosi prossimi «alle sorelle e ai fratelli incontrati per strada». Poi il monito: «La fede non è esclusione, ma capacità di includere». L’arcivescovo originario di Catania dà il benvenuto - in videocollegamento - ai ragazzi giunti nel capoluogo siciliano dalle diverse sponde del grande mare che formano il Consiglio dei giovani del Mediterraneo. È il laboratorio di fraternità e di impegno ecclesiale e civico voluto dalla Cei dopo il “summit” dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo a Firenze nel 2022. A formarlo quaranta delegati, tutti under 35, delle Chiese legate al bacino che tornano a incontrarsi per lanciare il loro grido di apertura agli ultimi in vista del Giubileo. «La nostra esperienza di giovani di tre continenti diversi dimostra che la coesistenza è possibile, nonostante le differenze di contesti da cui proveniamo: differenze economiche, sociali, politiche», racconta Gabriel Cassar Tabone, originario di Malta, in rappresentanza dei tredici ragazzi presenti a Palermo.
Un appello che arriva mentre nella Penisola la questione migranti divide. «Oggi la parola d’ordine è “respingimenti”. Ne sono un segno i campi che l’Italia ha realizzato in Albania e che sono come prigioni», spiega l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes. È lui che conclude la prima delle tre giornate di lavori, ospitata dalla Facoltà Teologica di Sicilia. E che denuncia un «Mediterraneo che sanguina». Per «i morti: 50mila in fondo al mare in trent’anni»; per «i respingimenti in Tunisia e Libia che riportano le persone nei campi o nei deserti»; per «le guerre o le dittature con sofferenze, torture e morti». Eppure, aggiunge l’arcivescovo, «attorno a noi sentiamo ripetere: “bombardiamo”, “ignoriamo”, “chiudiamoci”, “non riconosciamo”. Invece un solo vocabolo dovremmo pronunciare: “vergogniamoci”». Perego ribadisce che le «navi delle Ong non possono essere ostacolate: salvano la gente». E chiama in causa anche l’Europa: per il nuovo «patto sull’immigrazione che porterà un’ulteriore limitazione dei diritti dei richiedenti asilo e rifugiati» e per il «trattamento differenziato» fra gli ucraini in fuga dalle truppe russe e «gli altri richiedenti che scappano da crisi e guerre nel mondo, non meno cruente e drammatiche». Poi, guardando al Consiglio, dice che «sono questi ragazzi a chiedere di costruire una cultura dell’incontro, come indica papa Francesco». Da qui la necessità di «lavorare di più anche nelle parrocchie italiane dove, secondo un’indagine Cei, la metà dei fedeli assidui è contraria all’accoglienza», rivela Perego. «E perché allungare i tempi per ottenere la cittadinanza italiana? Dovremmo essere felici di avere nuovi cittadini. Ed è la solidarietà che porta alla pace, quindi anche alla sicurezza delle nostre città».
A Palermo i giovani del Mediterraneo si ritrovano sui passi di due “testimoni”. Il primo è don Pino Puglisi, il prete assassinato da Cosa Nostra nel 1993, che «aveva spalancato le porte della parrocchia a bambini e anziani, a poveri ed ex detenuti e che in nome dell’accoglienza è stato ucciso per mano mafiosa», afferma Maurizio Artale, presidente del Centro d’accoglienza Padre Nostro che il sacerdote beato aveva fondato nel suo quartiere: Brancaccio. E l’altro è Giorgio La Pira, nativo della Sicilia e profeta della riconciliazione fra i popoli, che vedeva «nell’accoglienza una delle sfide più alte per il Mediterraneo», sottolinea Patrizia Giunti, presidente della Fondazione La Pira che, con l’Opera per la gioventù La Pira, il Centro internazionale studenti La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II, forma a Firenze la rete Mare Nostrum cui la Cei ha affidato il Consiglio dei giovani.
«Lo straniero e il povero non ci fanno paura», ripete don Mauro Frasi, parroco di Santa Maria al Giglio a Montevarchi, nella diocesi di Fiesole, che racconta della sua «canonica senza chiavi», con le porte aperte, diventata «casa di tutti», a cominciare dai dimenticati. «Cari giovani, aiutateci ad avere coraggio e a superare le resistenze ecclesiali e politiche», dice don Frasi al Consiglio del Mediterraneo. «L’accoglienza dovrebbe essere il cuore di ogni comunità parrocchiale», sostiene don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro a Pistoia, località finita più volte nel mirino per i migranti. Quindi la provocazione: «I migranti sono una risorsa per il nostro Paese. Dovremmo dire loro: “Benvenuti, venite...”». La Chiesa è in prima linea. «Nei decenni la Caritas Italiana ha contribuito a far crescere un sistema governativo di accoglienza», chiarisce Manuela De Marco.
Parla di «dovere dell’accoglienza» l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che sprona a ritenere l’«ospitalità un criterio di azione, a maggior ragione se ci si dice cristiani». Infatti, prosegue, non si tratta «di nascondere i migranti ma di integrarli». Perché, «là dove c’è povertà, trova terreno fertile la criminalità». E il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, presidente dell’episcopato siciliano, sollecita «un’accoglienza fatta bene, con ordine e intelligenza. Del resto è facile che chi non crede nell’accoglienza possa usare taluni episodi negativi per esigere di alzare muri».
«Perché non vai in palestra e ti dedichi un po’ a te stesso?» Flavia e Simone Violante ogni tanto lo chiedono a papà Pasquale, le cui giornate sono scandite da attività significative e appassionanti. Pasquale è uno dei quasi 5.000 diaconi permanenti italiani, che coadiuvano i pastori nelle parrocchie e nelle diocesi. «Il diacono permanente è un ministro ordinato che condivide la vocazione alla guida della comunità cristiana. Il diaconato non è – come alcuni pensano – solo un grado di passaggio al presbiterato, è una vocazione specifica all’interno del ministero dell’Ordine, ed esercita una leadership che può orientarsi in modalità e ambiti diversi da quello del parroco, ma in piena sinergia e corresponsabilità con i preti impegnati nella loro missione nelle comunità cristiane», spiega padre Luca Garbinetto, teologo pastoralista, membro della Pia Società San Gaetano di Vicenza.
La congregazione religiosa il 22 gennaio 1969 ha offerto alla Chiesa i primi sette diaconi permanenti. Sono passati cinquantacinque anni, e sul diaconato si continua a riflettere. Per fare il punto su questa presenza nella vita della Chiesa, la Conferenza episcopale triveneta ha recentemente promosso un’indagine sociologica, che ha interessato oltre il 60% dei 388 diaconi permanenti (età media intorno ai 66 anni) del Nordest. Ne sono emerse la buona qualità delle relazioni familiari (oltre l’80% dei diaconi permanenti sono coniugati) e la capacità dei diaconi di vivere il luogo di lavoro come luogo di evangelizzazione. Esercitano il loro ministero specialmente nella liturgia, nell’annuncio della Parola e della carità; la maggior parte (oltre i due terzi) opera nel contesto delle parrocchie e/o delle unità e collaborazioni pastorali. «L’indagine evidenzia anche che ci sono a volte ancora difficoltà nel riconoscere lo specifico del diacono, da parte sia della gente che dei pastori – riprende padre Garbinetto –. Ma ci sono anche bellissime esperienze con diaconi che operano in vari settori – dalla sanità alle carceri – coordinando anche il lavoro dei preti. Persiste poi una certa confusione tra diaconato permanente e diaconato transeunte, quello cioè che precede il sacerdozio. Io penso che quest’ultimo andrebbe radicalmente ripensato. E andrebbe trovata una risposta sul senso della specificità del ministero diaconale, che è sacramentale, e non è secondario a quello sacerdotale. Per questo, da anni stiamo insistendo con la Conferenza episcopale italiana affinché costituisca una commissione specifica». La Pia Società San Gaetano gli scorsi 18 e 19 ottobre ha promosso il convegno “Diaconi e preti insieme, per una leadership sinodale”, alla cui organizzazione ha partecipato anche Pasquale Violante, cinquantasette anni, insegnante di Fisica, e con un diploma di Magistero in Scienze Religiose. Vive a Scafati, in provincia di Salerno, diocesi di Nola, dove si divide fra il lavoro e, appunto, gli impegni da diacono, molti dei quali condivisi con la moglie. «Il ruolo della moglie accanto al diacono sposato è cruciale – ripende padre Garbinetto –. Non si tratta solo di avere il suo consenso all’ordinazione, ma dev’essere coinvolta nel discernimento vocazionale, e nella formazione iniziale e permanente».
«Quest’anno per me è stato ricco di doni – racconta Pasquale –. Ho festeggiato dieci anni da diacono e venticinque di matrimonio con Carla, di cui amo sia la straordinarietà che le debolezze. Ho sempre sentito dentro di me una spinta a seguire il Signore più da vicino, ma non conoscevo il diaconato. È stato il libro “I diaconi” di Enzo Petrolino, presidente della Comunità del diaconato in Italia, a illuminarmi. Mi sono detto: “forse il Signore mi chiama a questo”. Ed eccomi qui. Da allora sono passati vent’anni, dieci di formazione e dieci da ordinato. Ricordo ancora l’emozione di quel giorno, prostrato a terra in segno di totale abbandono alla volontà di Dio. Ma non mi sento certo arrivato. Mi sento in cammino. So di aver fatto delle cose belle, ma sento di dover ancora crescere per poter offrire al meglio il mio contributo al Regno di Dio e alle persone che mi fa incontrare ogni giorno. Ho voluto diventare diacono – testimonia Pasquale – per lo stesso motivo per il quale ho voluto sposare Carla: il profondo desiderio di sentirmi amato e di dare amore. Sì, perché al centro di ogni azione umana c’è sempre il desiderio. Sono diventato uno sposo mosso dal profondo desiderio di sentirmi amato da Carla e di donarle amore. Sono diventato un diacono mosso dal profondo desiderio di sentirmi amato dal Signore e di amarlo».
L’emozione nella voce del maestro Nicola Piovani, il sorriso del cardinale Pietro Parolin e il piccolo sussulto del pubblico alla prima nota sprigionata dal pianoforte. Al compositore, premio Oscar per la colonna sonora del film “La vita è bella” di Roberto Benigni, è andato il Premio Internazionale Achille Silvestrini per il dialogo e la pace. Un’iniziativa nata un anno fa per ricordare la figura del cardinale romagnolo scomparso nel 2019 e il suo impegno in campo diplomatico.
Il musicista romano è stato premiato ieri, 8 novembre, nel teatro di Villa Nazareth, a Roma, il collegio universitario di merito per studenti bisognosi del quale Silvestrini è stato presidente. La cerimonia è stata organizzata dall’Associazione culturale Premio
Internazionale Achille Silvestrini, a cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inviato una medaglia. «Il maestro Piovani - ha detto il cardinale Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, nonché attuale presidente di Villa Nazareth - con la sua arte, con i concerti anche nei luoghi di conflitto, con sue le parole e la musica, ha testimoniato non solo la necessità, ma anche la possibilità di costruire la pace con l’ascolto e il dialogo».
Parolin ha poi citato il “Canto del legno”, composizione scritta dall’artista per ricordare il naufragio di migranti a Cutro, in Calabria, nel febbraio 2023. Per registrare la musica fu realizzato un violino proprio con il legno dei barconi, grazie al laboratorio di liuteria del
carcere milanese di Opera. «Segni che - ha aggiunto il porporato - hanno avuto un grande impatto sulla pubblica opinione, anche su coloro che sono meno sensibili all’inclusione». A consegnare il riconoscimento a Piovani (una somma in denaro e una ceramica artistica di Faenza di Goffredo Gaeta, sulla quale è riprodotto uno scritto del 1988 di Silvestrini), il cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo emerito di Ancona – Osimo e già segretario personale di Silvestrini. «In questo momento storico così drammaticamente segnato da conflitti, la lezione del cardinale resta un invito alla speranza e alla fiducia», ha sottolineato il porporato, a cui ha fatto eco anche monsignor Claudio Celli, vicepresidente di Villa Nazareth. «Nel suo nome e nella sua memoria, agli uomini costruttori di dialogo e di pace e a Nicola Piovani va il nostro grazie dal profondo del cuore», ha aggiunto Menichelli.
Carlo Felice Casula, responsabile culturale dell’associazione, ha letto invece la motivazione del premio: “Il riconoscimento vuole onorare non solo un talento straordinario, ma un artista che ha fatto dell'impegno civile la sua strada maestra. Unendo musica e parole, Nicola Piovani canta e testimonia i valori fondativi dell'ascolto, del dialogo, della solidarietà e della pace. Un'elegia della speranza contro il silenzio dell'indifferenza, la violenza delle disuguaglianze, i tuoni di guerra, che invita a ritrovare quel senso forte della vita capace di rendere il mondo un luogo più accogliente, illuminato dalla luce dell'umana fraternità”.
Visibilmente commosso, Nicola Piovani ha deliziato la platea al pianoforte con le note del film “La notte di San Lorenzo”. «Il dialogo e la pace sono cose serie, mentre la musica non ha contenuti, è asemantica, ma per i musicisti c’è la possibilità di affiancarsi al bene o al male – ha detto -. Sogno una realtà dove i droni lancino viveri e giocattoli, anziché bombe».
La 64ª Assemblea Generale della Conferenza Italiana Superiori Maggiori (CISM) ha visto la presenza di 80 Provinciali, di differenti Istituti religiosi, ritrovarsi, dal 4 all’8 di novembre ad Assisi.
"La ragione di questo convenire è dettata dalla volontà di camminare insieme - scrivono i religiosi in un comunicato finale -, a partire dalle differenze carismatiche di ogni Istituto di vita consacrata e da ogni Società di vita apostolica. Questo percorso di comunione, fraternità, discernimento e collaborazione è la forma attraverso la quale vogliamo essere nella Chiesa e nella società segni di futuro, imparando a leggere i segni dei tempi, imparando ad abitare dentro questi segni, perché noi siamo stati presi dal popolo e siamo stati inviati al popolo, senza privilegi, senza sconti, senza comodità".
"Il percorso di riflessione, alla scuola del cammino sinodale e giubilare della Chiesa - prosegue il testo -, l’abbiamo avviato l’anno scorso e prevede tre fasi: vedere, interpretare, scegliere. Abbiamo scelto Assisi, ha ricordato il Presidente della Cism, padre Luigi Gaetani, perché, in questo luogo di santità e di bellezza, san Francesco ha creduto che si vede veramente solo spogliandosi, perché fino a quando si è rivestiti di tanto superfluo, di idee dominanti e potere clericale, la notte abita i cuori e la vita, facendo fatica a vedere quali strade lo Spirito apre all’umanità e alla vita religiosa in questo cambio d’epoca (Assemblea 2023); il poverello di Assisi ha saputo anche interpretare, discernere i segni dei tempi, calandosi nel baratro del suo tempo, così colmo di rivalità, di guerre, di relazioni bruciate dall’odio, sapendo leggere segni di speranza nella concretezza di una carne mangiata dal dolore, nella carne di un lebbroso che non rappresentava un motivo per scartare qualcuno ma per riavvicinare la reliquia di tanta umanità messa al margine (Assemblea 2024); l’immagine di Francesco ci ricorda anche che la vita ci pone dinanzi a scelte necessarie o difficili, come quella che Lui fece ritirandosi alla Verna, credendo fortemente che solo l’amore salva, che l’amore trasfigura le cose, le persone, i sentimenti, le relazioni fino a configurarci pienamente a Cristo, fino ad edificare la civiltà dell’amore, come ricordava S. Paolo VI (Assemblea 2025)".
L’avvio dei lavori è stato segnato dalla relazione del presidente, padre Gaetani, che ha sottolineato come l’interpretazione dei segni dei tempi è l’arte che ha reso possibile ai Fondatori di dare concretezza storica ai carismi, di porre in essere segni di speranza e di futuro, coniugando sogni, visioni e mistica. La vita consacrata rimane il luogo teologico ed esistenziale dove si dà forma alla speranza attraverso una forma di vita trasfigurata dall’amore, attraverso una molteplicità di opere che sono la grammatica della tenerezza, dello sguardo colmo di compassione, che danno diritto di cittadinanza a tanta umanità che rischierebbe di restare sospesa sul baratro del nulla. Arrampicati sulla croce del mondo, attraverso il cuore e gli occhi del Figlio di Dio, i religiosi intravedono e amano, con inventiva e amore, quello che Dio non ha mai cessato di cercare e amare: l’uomo. Attraverso le crepe del cuore e della vita dell’uomo e della società, i religiosi cercano di intravedere segni di futuro, ha ricordato don Giacomo Perego, alla scuola del profeta Elia, imparando a credere che la storia la fa Dio, alla scuola di Gesù, apprendendo l’arte dell’essere dono per gli altri, pane della vita dentro le paure e le solitudini di tanta umanità, alla scuola dell’apostolo Paolo che ha saputo attraversare la notte di Damasco, quella di Antiochia fino a ritenere che la missione non è mai indolore, rispetto alla comunità, agli amici, alle consuetudini.
Suor Simona Brambilla ha letto i segni di futuro, nel rapporto tra vita religiosa e cammino sinodale, a partire dal cuore, attorno al fuoco e riparando le reti rotte della vita, delle relazioni. Ci siamo chiesti quali reti rotte è chiamata a riparare la vita religiosa, attraverso quell’arte che riannoda fili interrotti e che ricuce squarci.
L’Assemblea ha vissuto due momenti di confronto ecclesiale con il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, e con Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario della Cei. Sono stati due incontri istituzionali, mettendo a tema il rapporto sinodale e missionario dei religiosi nella vita della Chiesa italiana e le strategie di governo delle Diocesi e delle Province religiose dinanzi a questo cambiamento che, senza dubbio, comporterà un modo diverso di vivere e riorganizzarsi in relazione al popolo di Dio e al territorio.
Sono stati due incontri improntati alla stima e al dialogo, nel tentativo di superare la visione dell’uso della vita consacrata, valorizzando il riferimento a Cristo, alla vita della Chiesa come comunione e non in funzione delle opere, alla capacità di attrazione perché comunione di cose diverse, all’essere soggetti che operano un discernimento comunitario, promuovendo la partecipazione ecclesiale, la corresponsabilità dei carismi e della missione, fino alla fraternità sacerdotale e alla valorizzazione dei beni per la missione della Chiesa.
Con il padre Luigi Sabbarese si sono affrontate le strategie di governo degli Istituti religiosi e la riorganizzazione delle Province in Italia. Questa riflessione ha avuto respiro pastorale, missionario e non solo giuridico, perché ogni riforma è per la Chiesa e si fa dentro un orizzonte di partecipazione ecclesiale, tenendo conto del popolo di Dio e del territorio, come ha ricordato il Papa, sapendo prestare attenzione a non avviare processi che fanno perdere i contatti con la nostra gente e con le radici culturali, territoriali dove le nostre comunità sono piantate e dove i nostri religiosi e sacerdoti sono segni di speranza.
"La parte conclusiva dell’Assemblea - afferma il comunicato finale - ha voluto leggere i segni di speranza e di futuro anche rispetto all’impegno nel sostenere la missione della Scuola cattolica, della Formazione e della valorizzazione del Patrimonio. In particolare, l’Assemblea ha voluto rimarcare che i beni degli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica hanno un valore sociale e che, pur essendo frutto dei sacrifici dei religiosi e della generosità dei benefattori, restano a disposizione delle persone, dei giovani e degli anziani, dei poveri e delle famiglie, dei giovani universitari che rischiano di non trovare alloggi, che vedono difficile affrontare un percorso di formazione con risorse limitate. L’Assemblea dei religiosi in Italia si impegna a promuovere e valorizzare il suo patrimonio attraverso la creazione di un “osservatorio tecnico”, per il bene di tanta parte della nostra gente, soprattutto dei poveri, continuando l’opera di servizio e di gratuità nel Paese, in collaborazione con la Chiesa italiana.
L’Assemblea ha anche affrontato, tramite padre Amedeo Cencini, il dramma e lo scandalo della violenza sui minori e le persone vulnerabili, ricordando che le vittime sono al centro della nostra attenzione, che gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica vogliono riconoscere le ferite inferte da parte di alcuni di noi e porre in essere tutti gli strumenti necessari per garantire un impegno di vigilanza e accoglienza delle denunce, rinnovando l’impegno a non accettare politiche o attitudini di saturazione, rimozione, normalizzazione o di resistenza.
La speranza non delude (Rm 5,5). Il presidente della Cism ha rimarcato che i carismi muoiono per mancanza di sguardo sul mondo, sull’umanità, per inversione di prospettiva o per la mollezza di accettare di vivere a quote normali. Il futuro della vita religiosa è tutta in uno sguardo, sta nel grido di tanta gente e nella prontezza di afferrare con mani umane, con cuore innamorato chi rischia di cadere nel vuoto. La vita religiosa non può guardare il mondo e girarsi dall’altra parte.
È una piccola campana nel chiostro che ogni domenica annuncia la Messa a Tibhirine. A distanza di quasi tre decenni dall’assassinio dei sette trappisti nel 1996 rivendicato dal Gruppo islamico armato, il monastero nel cuore dell’Algeria islamica continua a essere una “lezione” di incontro e dialogo. Tenuta viva dai religiosi di Chemin-Neuf. E capace di attrarre ogni anno migliaia di visitatori, per il 90% algerini di fede musulmana. «Sono toccati dal sacrificio dei monaci e dalla pace del luogo – raccontano i consacrati della comunità francese a vocazione ecumenica che dal 2016 ha “ereditato” il monastero –. Vogliono conoscere meglio questo episodio che fa parte della storia nazionale». Se Tibhirine è «un luogo della riconciliazione», come lo chiama Chemin-Neuf, vive al tempo stesso le tensioni religiose che si toccano con mano in tutto il Paese. I monaci vengono scortati quando escono e il complesso è presidiato dalle forze dell’ordine. Di fatto è lo specchio di una nazione dove il rapporto con il mondo cristiano è ambivalente e contraddittorio.
A Orano il centro diocesano “Pierre Claverie” accoglie ogni settimana decine di bambini musulmani per attività extrascolastiche. «Le famiglie si fidano di noi – dicono gli animatori –. I cristiani di Francia accetterebbero di affidare i propri figli a una struttura collegata alla moschea?». Eppure, stando al rapporto 2024 sull’“Indice globale di persecuzione dei cristiani”, l’Algeria è, insieme con il Laos, il Paese in cui le azioni anticristiane sono cresciute di più in un anno. Il dossier parla della «fine di un sogno» nella nazione che costituiva «un’eccezione nel Maghreb con le sue grandi chiese cristiane». E l’ultimo report di “Aiuto alla Chiesa che soffre” denuncia: «Il rafforzamento autoritario del regime che detiene il potere politico ha dato luogo a un’intensificazione delle ostilità contro le minoranze religiose». A finire nel mirino sono soprattutto le comunità cristiane riformate che vengono accusate dalle autorità di proselitismo ed evangelizzazione in una terra dove l’islam è religione di Stato, in base alla Costituzione, e il proselitismo è reato. Infatti, secondo la famigerata Ordinanza del 2006 sulle religioni non islamiche, chiunque «seduca con l’intento di convertire un musulmano» rischia tra i tre e i cinque anni di carcere.
Secondo i dati ufficiali, quasi tutti i cristiani sono stranieri e provengono per lo più dall’Africa subsahariana. Si stima siano 129mila su 43 milioni di abitanti e vivano in gran parte nella regione di Cabilia, nel nord dell’Algeria. È quella in cui è più diffusa la comunità evangelica che conta 100mila credenti e che preoccupa lo Stato per le conversioni che ha favorito. Su 46 chiese, solo quattro restano aperte. Le altre sono state chiuse per disposizione governativa dal 2017 a oggi. Aumentano anche gli interventi repressivi della magistratura: il presidente dell’Église Protestante d’Algérie, Salaheddin Chalah, è stato condannato a 18 mesi di reclusione per «culto non autorizzato»; e a Orano il giudice ha confermato la condanna a cinque anni di prigione per Hamid Soudad, cristiano che ha ripubblicato una vignetta di Maometto su Facebook. Sotto scacco i musulmani convertiti che «subiscono pressioni sociali e vengono penalizzati nelle eredità», sottolinea “Aiuto alla Chiesa che soffre” che ricorda la chiusura definitiva di Caritas Algeria «il 1° ottobre 2022 a seguito di una richiesta delle autorità pubbliche». Complicato persino ottenere i visti d’ingresso per i ministri di culto cristiani che arrivano dall’estero.
Nel documento finale del Sinodo sulla sinodalità appena concluso, il paragrafo approvato con più voti contrari è stato quello sulla presenza femminile nella Chiesa. «Non ci sono ragioni che impediscano loro di assumere ruoli guida» recita il testo, aggiungendo che anche «la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperto». Ma chi sono i diaconi? E le donne un giorno potranno esserlo? Ne parliamo con la teologa Cristina Simonelli.
Conduce Riccardo Maccioni
«Signore fa’ di me uno strumento della tua pace». È il noto incipit della “Preghiera semplice” attribuita a san Francesco d’Assisi. E quale “strumento” migliore per costruire la pace dell’Istituto musicale “Magnificat” di Gerusalemme? «Per restare in tema possiamo dire che non è una “stonatura” questo accostamento perché la musica ha un suo linguaggio e una sua etica, i musicisti non dovrebbero avere bandiere e confini, questo è quello che cerchiamo di insegnare ai nostri allievi, nell’incontro tra culture, religioni e provenienze diverse che sono il volto del Magnificat». A parlare è fra Alberto Joan Pari, minore francescano e direttore da oltre otto anni di questa scuola di musica che vede insieme docenti e studenti delle tre grandi religioni monoteiste.
Tra meno di due mesi l’Istituto “Magnificat” avvierà i festeggiamenti per i suoi trent’anni di vita all’insegna dell’armonia e non solo musicale. La sua fondazione risale infatti al 1995. Un’opera profetica sognata da padre Armando Pierucci, un minore francescano oggi considerato tra i più grandi compositori viventi di musica sacra. Nato a Maiolati Spontini (Ancona) nel 1935, oggi risiede a Pesaro dove ha vissuto per quasi vent’anni fino al 1988. In quegli anni fu anche docente di organo al conservatorio Rossini, dove si specializzò in Direzione di coro e composizione organista.
«Fu il custode di Terra Santa dell’epoca a dirmi che avevano bisogno di un organista per la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme», racconta padre Pierucci. Gli inizi non furono affatto semplici. «In sette anni non ero riuscito a persuadere neppure un ragazzo. Tutti dicevano che a Gerusalemme con la musica non si poteva vivere e così, appena li formavo, se ne andavano». Al colmo della disperazione fu sul punto di mollare. «Ma prima volli chiedere un segno al Signore e quindi mi recai in pellegrinaggio a piedi ad Ain Karem, alla chiesa della Visitazione, dove la madre di Gesù aveva proclamato il canto del Magnificat». Fu la svolta. Di lì a poco padre Armando riuscì a chiedere al Capitolo della Custodia di Terra Santa la creazione di una scuola di musica per dare continuità al suo lavoro. «Con mio grande stupore venne approvata all’unanimità – ricorda – e la chiamai Magnificat». Inizialmente la scuola era collocata nella vecchia macelleria risanata del convento. Poco alla volta si iscrissero ragazzi e ragazze cristiani, musulmani ed ebrei. I frati accettavano tutti e la scuola arrivò a contare circa duecento tra studenti e insegnanti. Quindi l’attuale Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Pierbattista Pizzaballa, decise di sostenere l’istituto che nel frattempo stava ottenendo riconoscimenti in tutto il mondo. «Il cardinale ci conosce bene – dice fra Alberto –, sente spesso parlare di noi e ci incontra nei vari eventi dove è invitato e dove noi suoniamo, soprattutto nella Città Vecchia dove siamo come una piccola grande famiglia». Fondamentale fu poi la decisione del conservatorio “Pedrollo” di Vicenza che riconobbe il Magnificat come sua sede distaccata. In seguito il Ministero dell’Istruzione italiano consentì di rilasciare diplomi universitari validi in tutta Europa.
«Dopo il 7 ottobre 2023 abbiamo avuto un piccolo terremoto interno – racconta fra Pari –. Alcune famiglie non hanno più potuto sostenere le tasse scolastiche e hanno preferito ritirarsi. Il delicato equilibrio costruito in quasi trent’anni è stato minacciato in un attimo, ma siamo riusciti a mantenere la politica fuori dalla scuola: un piccolo miracolo». Così a giugno sono tornate a iscriversi intere famiglie e oggi si contano 220 studenti e 31 insegnanti. L’orchestra degli studenti avanzati è il fiore all’occhiello della scuola e spesso si esibisce in varie occasioni. Il coro degli adolescenti sta rinascendo dopo una pausa generazionale e da un anno è stato anche avviato un progetto per il coro dei più piccoli in collaborazione con l’associazione “Andrea Bocelli”.
«Per il trentennale – continua fra Alberto – abbiamo già realizzato un logo e abbiamo in programma un grande concerto in primavera e un altro al conservatorio di Vicenza dove coinvolgeremo tutti gli studenti che hanno concluso la laurea di primo e di secondo livello: sono tre cantanti, tre pianisti, un organista, un chitarrista e una fagottista». Anche in padre Pierucci il desiderio di festeggiare è grande. Ma la gioia si trasforma in preghiera non appena la mente vola alla sua martoriata Terra Santa. Così gli occhiali si appannano: «laggiù la gente è buona – testimonia – e chiede solo di vivere in pace».
In quel tempo, Gesù, seduto di fronte al tesoro [nel tempio], osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Nella storia della Chiesa i rapporti tra vescovi e ordini religiosi sono stati non di rado piuttosto dialettici e a volte anche turbolenti. Ma non sono mancati, e non mancano, momenti di grande sintonia e di evangelica collaborazione. Un esempio in questo senso può essere la giornata di ieri ad Assisi dove è in corso la 64ª Assemblea nazionale del Confederazione dei superiori maggiori d’Italia (Cism), che riunisce i provinciali delle congregazioni religiose presenti sul territorio del nostro Paese, sul tema “Sogni di futuro”. Ospiti sono stati il cardinale di Bologna Matteo Zuppi e l’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi, rispettivamente presidente e segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Il primo ha parlato del ruolo dei religiosi nella vita della Chiesa nella Penisola. Il secondo ha affrontato il tema delle “Strategie di governo delle diocesi e delle provincie religiose tra territorialità e popolo di Dio”. Entrambi gli interventi sono stati moderati, o meglio, vivacizzati, dal dehoniano padre Lorenzo Prezzi, giornalista e direttore dell’apprezzato blog “SettimanaNews”. All’incontro con Baturi ha preso la parola anche padre Luigi Sabbarese, scalabriniano, dell’Area giuridica del Cism.
Il cardinale Zuppi ha dedicato l’intera mattinata all’incontro. In un clima di grande cordialità. Il benvenuto è stato offerto da padre Luigi Gaetani, carmelitano scalzo, presidente della Cism. «Non chiediamo nulla, – sono state le sue parole – ma solo di camminare insieme per il bene del popolo di Dio». Quindi il botta e risposta con Prezzi. Diversi i temi trattati. A cominciare dall’uso dei beni. Con l’invito del presidente della Cei a discuterne «insieme» e a verificare quando sia «il caso di dare il testimone a qualcun altro» – sempre «con qualche verifica vera, seria, robusta» – magari affidando le opere ai laici. Un invito che è storicamente nelle corde del mondo religioso, basti pensare ai terz’ordini nati nel corso dei secoli. «Non facciamo – ha osservato il cardinale – come i nobili che, dilapidato il patrimonio, vanno ad abitare nell’abitazione del custode e trasformano la propria casa in un B&B». Zuppi ha poi invitato i religiosi a rifiutarsi di fare i «tappabuchi», affidandosi alla forza del proprio carisma. Invito accolto con gratitudine da padre Gaetani. Di qui l’esortazione a evitare di «diventare mediocri» e «il piccolo cabotaggio», a «pensare invece in grande» come fecero i fondatori a «reinvestire bene quello che abbiamo con fantasia e libertà evangelica». I religiosi insomma non devono limitarsi a lavorare nelle parrocchie ma devono immergersi, seguendo il proprio carisma, nella pastorale nei luoghi di misericordia come i santuari, nelle case di carità, nei luoghi di sofferenza come le Rsa e gli hospice. A creare delle piccole «Taizé» dove «i giovani possono imparare a pregare». In questo però, ha sottolineato il presidente della Cei, «la vera sfida è la comunione che dà valore a tutto». Padre Prezzi ha poi introdotto il tema degli abusi. Per Zuppi la questione rimane una «priorità» che va affrontata «con rigore e con tanta umanità, con le vittime in primo luogo» avendo però «la consapevolezza che non siamo una Chiesa di abusatori». Non è mancato lo spazio per alcune domande dei partecipanti all’Assemblea. Sulla polarizzazione esasperata che si manifesta a volte nella vita ecclesiale: per il cardinale di Bologna bisogna «difendere la comunione sempre», affrontando i singoli casi «con fermezza e pazienza». Sui rapporti, a volte difficili, tra i religiosi e il vescovo della diocesi in cui operano: «Il vescovo è un padre, aiutatelo ad esserlo, con grande libertà». Sulla questione dei migranti, «una grande sfida da affrontare con realismo e tanta umanità», con la necessità di «una politica seria di accoglienza e integrazione», e tenendo fermo il fatto che «i migranti in mare vanno soccorsi». Il Papa, ricorda Zuppi, «non dice tutti dentro, ma tutti salvi».
Nel pomeriggio è stata la volta dell’arcivescovo Baturi che senza entrare negli aspetti più tecnico-giuridici ha sottolineato il valore della vita religiosa che, ha ribadito, non deve essere relegata a fare da «tappabuchi» nell’attività pastorale delle diocesi. Lo ha fatto citando i Lineamenti della prima Assemblea sinodale delle Chiese che sono in Italia che si terrà la prossima settimana, laddove si riconosce che «per allontanare il rischio di guardare alla vita consacrata come ad una sorta di erogatore di servizi» diventa «importante valorizzare la sua partecipazione al discernimento dei carismi diffusi in tutto il popolo di Dio e alla cura del dialogo tra i diversi ministeri». Il presule, facendo riferimento anche alla vita della sua diocesi, ha in particolare osservato come i consacrati possano essere di aiuto al clero diocesano «per capire cosa sia la vita in comune». «Penso che l’esperienza religiosa – ha detto – guardata nella sua ricchezza, e non funzionalizzata alle nostre esigenze, possa aiutarci», perché, e qui il segretario generale della Cei ha fatto eco a quanto osservato in mattinata dal cardinale presidente Zuppi, «il tema di fondo è la comunione, che diventa fraternità e condivisione di beni, di risorse, di competenze in un’unica missione, e questo non lo si fa con un regolamento».
Piccoli segnali di un cammino ecumenico sui francobolli che le Poste del Regno Unito hanno deciso di dedicare alle festività natalizie di quest'anno. Un appuntamento annuale per i collezionisti filatelici britannici e non solo.
Negli scorsi anni sono stati utilizzati diversi soggetti per rappresentare il Natale. Nel 2018, ad esempio, i francobolli natalizi britannici mostravano diverse cassette postali per raccogliere le lettere da inviare a Babbo Natale.
Decisamente di carattere più religiose le emissioni degli anni successivi: nel 2018 sono stati utilizzati dei disegni della Natività, mentre nel 2020 furono scelte alcune Natività realizzate su vetrate a mosaico per la serie filatelica natalizia. Di analogo segno le emissioni del 2021 e del 2022 anche se in entrambi i casi si trattava di disegni ispirati al racconto della Natività. Lo scorso anno le poste britanniche hanno scelto come soggetti dei dipinti.
Quest'anno sui francobolli natalizi fanno il loro esordio le facciate di alcune Cattedrali, tra cui anche quella cattolica di Westminster. È una prima volta assoluta, come sottolinea il cardinale Vincent Nichols primate della Chiesa cattolica di Inghilterra e Galles.
«Siamo così orgogliosi perché il fatto che la Cattedrale di Westminster compaia, per la prima volta, sui francobolli natalizi britannici vuol dire che l’immagine verrà vista da moltissime persone che capiranno che una chiesa è un posto dove Dio abita e dove il sentimento della sua presenza è intenso e garantisce conforto e consolazione» dice il porporato in un video pubblicato sul sito della stessa Cattedrale cattolica.
I francobolli sono stati realizzati dall'artista britannica Judy Joel, che oltre alla Cattedrale di Westminster, che a Londra si trova a breve distanza dalla sede del Parlamento britannico, ha proposto altri quattro francobolli ritraenti altrettante Cattedrali ma della Comunione Anglicana.
Si tratta della Cattedrale di Edimburgo, principale luogo di culto della Chiesa di Scozia; la Cattedrale di Liverpool, sede dell'omonima diocesi anglicana e considerata la più grande chiesa del Paese; la Cattedrale anglicana di Armagh nell'Irlanda del Nord; e la Cattedrale di Bangor, che è la principale chiesa della diocesi anglicana nel Galles.
Si conclude domani il 70esimo Capitolo Generale dell'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, tenutosi a Czestochowa, in Polonia. Questo evento per questi religiosi meglio conosciuti come i Fatebenefratelli ha rappresentato un momento cruciale per la riflessione, il rinnovamento e la pianificazione del futuro. Il Capitolo ha visto la partecipazione di 67 fratelli e 19 collaboratori laici, riuniti per definire le principali linee guida e raccomandazioni che guideranno la vita e le attività dell'Ordine nei prossimi sei anni. Durante il Capitolo, è stato eletto come nuovo superiore generale il fratello Pascal Ahodegnon, originario del Benin, con una lunga carriera di servizio e leadership. Entrato nell'Ordine nel 1994, ha emesso i voti definitivi nel 2003 e si è laureato in Medicina e Chirurgia a Milano. Ha ricoperto il ruolo di Consigliere Generale dal 2012, con un focus particolare sulla regione dell'Africa. Il religioso succede allo spagnolo fra' Jesús Etayo che per 12 anni ha guidato questo istituto religioso.
Si tratta di un ordine mendicante sorto in Spagna grazie a san Giovanni di Dio (1495-1550), laico spagnolo e il nome deriva dal fatto che il fondatore con i suoi primi compagni, invitava i benefattori a collaborare economicamente alle opere di carità dell'ordine dicendo «Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio». I Fatebenefratelli nascono nella prima metà del XVI secolo e tra gli obiettivi di questo istituto vi è ln particolare a cura dei malati, dei poveri e delle prostitute.
Fra Pascal è nato il 10 aprile 1971 a Savé, in Benin. È entrato nell'Ordine nel 1994, ha emesso i voti temporanei il 15 agosto 1997 e ha emesso i voti definitivi il 25 maggio 2003. Si è laureato in medicina e chirurgia a Milano, Italia. È stato eletto consigliere generale nel 2012 e rieletto nel 2019, in particolare responsabile della regione Africa. Al Capitolo generale, iniziato il 15 ottobre, partecipano sessantasette Fratelli e diciannove collaboratori che si sono uniti per le prime due settimane. Questo incontro è stato l'occasione per definire i principali orientamenti e raccomandazioni per la vita dell'Ordine ospedaliero nei prossimi sei anni.
L'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio comprende 161 comunità e 410 strutture sanitarie, sociali e medico-sociali in 54 Paesi, al servizio dei malati e dei bisognosi. È composto da 965 religiosi e 65mila collaboratori, che costituiscono la Famiglia ospedaliera di San Giovanni di Dio.
Nell'ultima settimana del Capitolo, l nuovo superiore generale formerà il suo Consiglio (composto da sei frati lo spagnolo Joaquim Erra i Mas, l'austriaco Saji Mullankuzhy, il senegalese Etienne Sene, David Lynch, superiore della Provincia del Nord America e il coreano John Jung) prima dell'adozione finale degli orientamenti e delle raccomandazioni che daranno forma al futuro dell'Ordine. Quest'anno la Polonia è il sesto Paese ad ospitare un Capitolo generale dell'Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, dopo Italia, Colombia, Spagna, Messico e Portogallo.
Oltre a san Giovanni di Dio, gli altri ospedalieri elevati all'onore dell'altare sono stati i santi Riccardo Pampuri, Benedetto Menni e Giovanni Grande e i beati Eustachio Kugler, José Olallo Valdés e settantuno martiri della guerra civile spagnola (Braulio María Corres Díaz de Cerio, Federico Rubio Álvarez e 69 compagni). L’Ordine conta oggi circa 396 strutture distribuite in 51 Paesi del mondo. Queste includono ospedali, centri di riabilitazione, case di riposo e altri servizi sociali e sanitari destinati a persone vulnerabili.
Dal 15 al 17 novembre 2024, la Chiesa italiana si prepara a un evento unico: la prima Assemblea sinodale a Roma. Ma perché questo appuntamento è così importante? E come potrebbe riguardare i giovani? Il percorso sinodale (ovvero, etimologicamente, di “cammino comune”) rappresenta un’occasione speciale per capire come la Chiesa sta cambiando e come potrà cambiare, mettendosi in ascolto delle voci di tutti, inclusi i giovani, per costruire una comunità cristiana che risponda sempre meglio alle domande e alle attese delle donne e degli uomini di oggi.
Cos’è l’Assemblea Sinodale?
L'Assemblea Sinodale è un incontro nazionale organizzato dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) per riflettere insieme sulle esperienze di fede e sulle sfide che viviamo nel nostro tempo. Il Sinodo, un percorso che papa Francesco considera fondamentale per la Chiesa del futuro, è partito nel 2021 e si sviluppa in tre fasi: la prima fase ha riguardato l’ascolto (narrativa), la seconda la riflessione (sapienziale), e ora, nella terza fase, si vuole passare all’azione concreta (profetica).
Quali sono i temi principali?
Il documento di preparazione, chiamato “Lineamenti”, invita la Chiesa a interrogarsi su come rendere il Vangelo significativo per la nostra epoca, su come ascoltare veramente le persone e su come rispondere ai bisogni di una società in rapido cambiamento. Ecco alcuni dei temi su cui si concentreranno i circa mille delegati che parteciperanno all’Assemblea:
Missione – Come la Chiesa può essere più aperta e vicina alle persone? Oggi, purtroppo, tante persone si allontanano dalla fede e la Chiesa italiana vuole cercare nuovi modi per essere presente nella vita quotidiana, accogliere e costruire relazioni vere.
Partecipazione e corresponsabilità – La Chiesa vuole una maggiore partecipazione di tutti, inclusi i giovani e le donne, nei processi decisionali e nelle attività. Il documento invita a ripensare ruoli e responsabilità, per superare la divisione tra chi guida e chi partecipa e promuovere una leadership più inclusiva.
Formazione – Molti desiderano una Chiesa che sia autentica e non solo formale. Per questo si insiste su una formazione che porti tutti, clero, religiosi e fedeli, a un annuncio del Vangelo che sia profondo e non solo superficiale.
Strutture – Non si tratta solo di fare in modo che l’amministrazione dei beni sia più efficiente, ma di rendere le strutture della Chiesa più semplici e accessibili. Spesso, la burocrazia o l’organizzazione rallentano l’entusiasmo e l’iniziativa; ecco perché l’auspicio è che il cammino sinodali contribuisca a una Chiesa più leggera e meno concentrata sui formalismi.
Perché i giovani sono importanti in questo percorso?
Papa Francesco è chiaro: una Chiesa senza giovani è come un albero senza radici. I giovani portano freschezza e creatività, e le nuove generazioni possono dare alla Chiesa una spinta verso il cambiamento e la coerenza. La loro età li spinge a cercare un senso profondo nelle relazioni e nella vita quotidiana e sono più disposti a impegnarsi per ciò in cui credono davvero. Ecco la Chiesa italiana si è impegnata in un Cammino sinodale che sappia ascoltare le opinioni e le intuizioni dei giovani.
Il ruolo delle donne e di tutti i laici
Un tema chiave è anche il ruolo delle donne. Sebbene le donne siano spesso impegnate nella Chiesa, il confronto fin qui ha evidenziato come manchino per loro ruoli di responsabilità, e il Sinodo vuole cambiare questa realtà, valorizzando le capacità femminili come parte essenziale della vita comunitaria.
Come partecipare al cambiamento?
Cosa possono fare quindi i giovani per partecipare al cambiamento? Come sempre il primo passo è la consapevolezza: sono tanti i canali attraverso i quali la Chiesa italiana sta cercando di comunicare il processo in atto (tra questi anche Avvenire e tutti i media cattolici). Inoltre, questo è il tempo per far sentire la propria voce, anche di critica, come ha chiesto lo stesso papa Francesco dell’esortazione Christus vivit.
Sono tanti, poi, i giovani che parteciperanno all’Assemblea portando il loro punto di vista su tutti i temi di cui si discuterà. Anche attraverso la loro presenza la Chiesa sta lanciando un forte appello alle nuove generazioni perché si facciano sentire, per proporre idee e per confrontarsi su questioni che li toccano da vicino. L’obiettivo finale del Cammino sinodale è quello di dare forma a una Chiesa che cammina davvero accanto a tutti. La sfida è enorme, il risultato non è affatto scontato, ma l’occasione è preziosa e si inserisce in un tempo in cui gli strumenti della comunicazione digitale permettono una partecipazione larghissima.
Guardando al futuro
Anche se questa Assemblea Sinodale non vuole dare risposte preconfezionate, l’evento può rappresentare un passo importante per la costruzione di una Chiesa capace di offrire risposte autentiche alle domande di tutti, in particolare dei giovani. Ciò che lega lo stile che la Chiesa italiana vuole dare a questa fase di cambiamento e il modo di vivere delle nuove generazioni è di certo il senso di “rischio”, come auspicato da papa Francesco, il quale ha più volte ricordato che la Chiesa del futuro è una Chiesa che si mette in gioco per la giustizia e la pace e che sa stare in mezzo alle persone, accompagnandole nella loro quotidianità.
Si aggiunge un altro neologismo al vocabolario personale di papa Francesco. «Coca-colizzazione». Il Pontefice l’ha utilizzato ieri nella visita alla Pontificia Università Gregoriana, invitando appunto a non “coca-colizzare” il sapere. «In un’università - ha detto - la visione e la consapevolezza del fine impediscono la coca-colizzazione della ricerca e dell’insegnamento che porterebbe alla coca-colizzazione spirituale. Sono tanti, purtroppo, i discepoli della coca-cola spirituale».
Profondità di sguardo, dunque. Non solo bollicine. Francesco ha unito questa sua riflessione a tante altre notazioni, durante il discorso tenuto nel quadriportico della sede dell’ateneo che deve i suoi natali a sant’Ignazio di Loyola e ancora oggi è affidata alla Compagnia di Gesù. Ad esempio, l’invito «meno cattedre, più tavoli senza gerarchie» o l’esortazione ad adoperare parole, sguardi e pensieri «disarmati» o la sottolineatura della necessità di una dottrina viva e non «prigioniera dentro a un museo», come pure di un insegnamento che sia «atto di misericordia» e mai qualcosa fatto «dall’alto in basso». Non sono mancati infine la messa in guardia dai rischi dell’intelligenza artificiale e l’auspicio di una «teologia della speranza», mentre «il mondo è in fiamme» e «la follia della guerra copre dell’ombra di morte ogni speranza».
Papa Bergoglio è stato salutato al suo arrivo di un lungo applauso e dai saluti del preposito generale della Compagnia di Gesù (oltre che vice gran cancelliere della Gregoriana), padre Arturo Sosa, e del rettore, padre Mark Lewis. Il primo ha fatto notare come «la ricerca scientifica porti alla comprensione più profonda della creazione e contribuisce ad aprire nuovi cammini alla fede che si impegna nella trasformazione della società umana per renderla più giusta, più solidale, e più rispettosa della creazione». Il rettore ha aggiunto che compito della Gregoriana, «università di tanti Papi», rimane sempre quello di «fornire una solida formazione intellettuale ai futuri ministri della Chiesa», con particolare attenzione a dignità umana, «dimensione sociale della fede», cura della casa comune, dialogo ecumenico e relazioni con le altre religioni.
Papa Francesco ha voluto innanzitutto invitare a tenere lo sguardo puntato sull’orizzonte. «Quando si cammina preoccupati solo di non inciampare si finisce per andare a sbattere. Ma vi siete posti la domanda su dove state andando e perché fate le cose che state realizzando? È necessario sapere dove si sta andando, non perdendo di vista l’orizzonte che unisce la strada di ciascuno sul fine attuale e ultimo».
Quindi ha messo l’accento sulla parola cura. «Questo è un luogo - ha ricordato il Pontefice - in cui la missione si dovrebbe esprimere attraverso l’azione formativa, ma mettendoci il cuore. Formare è soprattutto cura delle persone e quindi discreta, preziosa, e delicata azione di carità. Altrimenti l’azione formativa si trasforma in arido intellettualismo o perverso narcisismo, una vera e propria concupiscenza spirituale dove gli altri esistono solo come spettatori plaudenti, scatole da riempire con l’ego di chi insegna». A tal proposito ha raccontato anche l’aneddoto di quel professore che era talmente pieno di sé che alla fine gli studenti gli fecero trovare l’aula vuota e un cartello con su scritto: «Aula occupata dall’Ego smisurato. Nessun posto libero».
In sostanza nell’insegnamento bisogna metterci il cuore. E andare verso l’altro. Per questo il Papa ha anche richiamato la questione dell’IA. «State considerando l’impatto dell’Intelligenza Artificiale sull’insegnamento, sulla ricerca? Nessun algoritmo potrà sostituire la poesia, l’ironia, e l’amore; e gli studenti hanno bisogno di scoprire la forza della fantasia, del veder germinare l’ispirazione, di prendere contatto con le proprie emozioni, e di sapere esprimere i propri sentimenti».
Infine l’invito a «deporre le armi, mettere l’altro sullo stesso piano, per guardarlo negli occhi, disarmarsi, disarmare i pensieri, disarmare le parole, disarmare gli sguardi e poi essere alla stessa altezza per guardarsi negli occhi. Non c’è un dialogo dall’alto in basso. Solo così l’insegnamento diventa un atto di misericordia». E l’esortazione ad andare incontro agli ultimi, generando «sapienze che non possono nascere da idee astratte concepite solo a tavolino ma che guardino e sentano i travagli della storia concreta e il grido dei poveri».
Nell’Università Gregoriana, che attualmente ha 2.952 studenti - uomini e donne, religiosi e laici - di 121 Paesi, hanno studiato nel corso dei secoli 27 santi, 57 beati e 16 papi. Sono ex studenti dell’ateneo dei gesuiti anche il 36% del collegio cardinalizio e il 24% dei vescovi cattolici nel mondo.
Quanti siano i santi e le sante non lo sappiamo, perché solo Dio conosce in profondità la vita di tutte le persone. Però per molti uomini e donne che hanno testimoniato in maniera straordinaria le virtù cristiane, la Chiesa cattolica è sicura: sono al cospetto del Padre buono. Ma cosa bisogna fare per arrivarci? È la domanda al centro del nuovo episodio di Taccuino celeste, il podcast dedicato ai temi della fede, ad approfondire in cosa crede chi crede.. Tra gli argomenti trattati in questo numero anche la differenza tra santi, beati, venerabili, e le tappe seguite dalla Chiesa per stabiilire che una persona è santa. Si parla inoltri di miracoli e di Disma, il buon ladrone crocifisso accanto a Cristo cui Gesù promette di portarlo con sé in Paradiso.
Come detto Taccuino celeste è un podcast che riflette e si interroga sui temi della fede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di Halloween e del suo presunto dualismo con la solennità di Ognissanti, dell’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto, del segno della croce, di come “portare Dio in vacanza”, delle falsità che circondano la figura di Maria Maddalena, dell’esistenza del Purgatorio, di scomuniche ed eresie, di come dovrebbero essere le omelie.
Taccuino celeste è un appuntamento settimanale che però può essere ascoltato tutti i giorni, sempre gratuitamente (anche le vecchie uscite), sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
I tanti pellegrini che arrivano fra le Dolomiti, a Canale d’Agordo, visitano la casa natale del beato papa Luciani come fosse una reliquia. E si fermano a pregare per la sua canonizzazione. Domenica scorsa si è celebrata la “festa del colmo”, perché si sono conclusi i lavori di restauro. La lapide marmorea all’ingresso dell’edificio spiega tutto. «Questa casa natale del beato Giovanni Paolo I – proprietà della famiglia Luciani e acquistata nel 2019 dal cardinale Beniamino Stella postulatore della Causa di canonizzazione – fu donata alla diocesi di Vittorio Veneto durante l’episcopato di monsignor Corrado Pizziolo. Restaurata con i contributi della Cei, del patriarcato di Venezia e di alcuni generosi benefattori fu inaugurata il 23 aprile 2022. Conclusi i lavori definitivi viene consegnata alla memoria dei visitatori oggi, 3 novembre 2024». E poco sotto un’invocazione: «Dal cielo ci guidi il suo preclaro esempio di umiltà e ci protegga la sua intercessione di mite e sollecito pastore».
È stato il vescovo Pizziolo a procedere alla benedizione, a ringraziare i benefattori, a guidare la preghiera per la canonizzazione del beato pontefice che è stato vescovo di Vittorio Veneto negli anni Sessanta del secolo scorso. Tra i presenti il cardinale Beniamino Stella, il vescovo di Belluno-Feltre Renato Marangoni, il vescovo emerito di Belluno-Feltre Giuseppe Andrich, ed anche alcuni parenti di Luciani, oltre a numerosi rappresentanti della comunità di Canale e della diocesi vittoriese.
Il vescovo Pizziolo ha pubblicamente ricordato l’impegno economico che ha toccato i cinquecentomila euro, di cui metà coperti dalla generosità del cardinale Stella, il 30% da benefattori vittoriesi, il resto dal patriarcato di Venezia e dalla Cei. «Quando il nuovo papa Giovanni Paolo I, il 3 settembre 1978, aveva accolto i vittoriesi all’udienza privata aveva esclamato: “Il primo amore non si scorda mai!”. E fu in effetti il primo amore quello che unì il nuovo pastore vittoriese alla sua gente, nella sua prima esperienza da vescovo. È bello quindi – così in un messaggio del sindaco di Canale Massimo Murer – che sia stata proprio la diocesi del suo “primo amore” a essersi presa cura del luogo in cui il beato Giovanni Paolo I era nato il 17 ottobre 1912».
Dopo la benedizione e lo scoprimento della lapide, la festa è continuata nella chiesa parrocchiale con il concerto della Piccola Orchestra Veneta, con la lettura di alcuni discorsi di Luciani. Particolarmente intensa l’omelia che, pochi giorni dopo l’ordinazione episcopale, Luciani aveva pronunciato in quella stessa chiesa, domenica 4 gennaio 1959: «Io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale dell’illustre diocesi di Vittorio Veneto».
Il cardinale Stella, che ha avuto Luciani come vescovo di Vittorio Veneto, è molto devoto di questo “Pastore”. «Abbiamo appena celebrato il Sinodo a Roma, abbiamo parlato del lavoro di collaborazione e del vivere insieme e credo che Luciani sia stato un precursore di questo aiutarsi e collaborare insieme. Vicinanza e prossimità erano le caratteristiche di questo vescovo. Noi guardiamo a lui cercando anche di seguire le orme perché ce n’è bisogno e gli chiediamo di darci pastori numerosi. Oggi vediamo i sacerdoti che lavorano, che corrono, con il fiato lungo e direi che dia, dal cielo, questa ispirazione ai giovani di abbracciare questo impegno di vita che è così importante per la guida del popolo di Dio».
"Sono entrato come parroco alla Madonna del Prato a luglio 2016. Un mese dopo c’è stato il terremoto e la chiesa è stata chiusa". L’incipit non è confortante eppure è proprio da queste premesse, consegnateci da don Fabrizio Cellucci, che comincia la storia della rinascita di un prezioso edificio artistico e sacro, oggi tornato a risplendere grazie ai fondi 8xmille.
Siamo a Gubbio, la città di pietra, il cui dedalo di strade spande a destra e a manca esempi di arte medioevale. Prima di avventurarcisi varcando le porte dell’antico borgo, però, sulla soglia a metà tra la città e la campagna, sorge la chiesa della Madonna del Prato, la cui sobria facciata di pietra locale palombina nasconde al visitatore una ricca decorazione interna e una cupola affrescata: una goccia di Barocco resa unica tanto per lo stile delle decorazioni, inconsuete in questa zona, quanto per la notorietà degli artisti che vi lavorarono, tra cui spicca la firma di Francesco Castelli detto il Borromini.
"La Madonna del Prato - ci guida Elisa Polidori, direttrice dell’ufficio Beni culturali della diocesi di Gubbio e del Museo diocesano - è una chiesa con una sola navata e due cappelline laterali; è stata eretta nel 1662 per volere del vescovo Alessandro Sperelli, sul terreno di proprietà delle Monache di Santo Spirito, in sostituzione di una chiesa precedente che si trovava in quell’esatta porzione di terreno". Per edificarla vennero chiamate maestranze di peso e si convinse del progetto persino un architetto del calibro del Borromini. "Della sua bellezza - spiega Polidori - colpisce soprattutto la cupola, che è un tripudio di vortici e virtuosismi realizzati dalle mani di Francesco Allegrini e del francese Louis Dorigny e che attraggono lo sguardo del visitatore verso il cielo".
Purtroppo la chiesa ha subito vari danni strutturali durante i terremoti del 1984, del 1997 e del 2016 che hanno interessato l’Umbria. "In particolare - ammette Polidori - il sisma del 2016 ha dato il colpo di grazia alla Madonna del Prato. Le pitture murarie, gli stucchi aggettanti e le sculture in gesso, che sono parti fondamentali per leggere un’architettura barocca, hanno subito lesioni e movimentazioni gravi. Non si prefigurava un restauro facile".
"Appena sono arrivato - continua la storia il parroco della Madonna del Prato, don Cellucci - ho pensato di avviare le operazioni di controllo sismico della struttura; avevamo appena cominciato e c’è stato il terremoto: con le scosse tutte le criticità sono venute a galla e abbiamo dovuto chiudere la chiesa per un lungo periodo". Le celebrazioni della comunità - un gruppo di circa 1.200 persone - si sono spostate in un vicino prefabbricato che era stato edificato fin dal 1984 e che, a intermittenza, ha supplito alle esigenze di culto e alle attività ecclesiali durante i periodi di inagibilità della parrocchiale. "I fedeli erano così abituati a questa situazione che, quando a luglio 2018, abbiamo annunciato il restauro della chiesa, quasi tutti erano disincantati: non lo credevano possibile. In effetti era un sogno e stavamo sognando davvero in grande". Il progetto - che prevedeva il rifacimento impianti di riscaldamento e di illuminazione, la rimessa in sesto dell’architettura dal punto di vista strutturale, il restauro e il consolidamento di 330 metri quadri di intonaci, stucchi e affreschi - si preannunciava titanico ma è riuscito grazie a una sinergia tra parrocchia e diocesi e soprattutto ai contributi 8xmille alla Chiesa cattolica. Per merito delle firme dei contribuenti che hanno espresso questa scelta in dichiarazione, infatti, ben 533mila euro hanno potuto essere destinati alla riqualificazione della Madonna del Prato. A questi soldi si sono aggiunti circa 250mila euro provenienti dai fondi per il terremoto messi a disposizione dalla Regione Umbria.
I lavori sono cominciati a ritmo serrato e dopo quattro anni, comprensivi di progettazione ed effettivo cantiere cui hanno partecipato numerose e qualificate maestranze, il 20 dicembre 2020 la nuova Chiesa della Madonna di Prato di Gubbio è stata inaugurata. Dal vecchio prefabbricato oggi tutte le celebrazioni e le attività parrocchiali sono tornate nella loro sede originaria e ogni anno gravitano intorno alla chiesa 12mila persone, tra cui figurano scolaresche e numerosi turisti per i quali sono a disposizione anche visite guidate. Per chi arriva alla Madonna del Prato in autonomia invece è stata messa a punto una guida interattiva scaricabile con un QR Code realizzato grazie al progetto di promozione culturale presentato dall’associazione locale Ars Sacra e anch’esso finanziato con fondi 8xmille.
"Il progetto di miglioramento della Madonna del Prato è stato condotto anche con l’obiettivo di ridurre le emissioni inquinanti e l’impatto ambientale - aggiunge don Cellucci -. L’impianto elettrico è stato predisposto con lampade led a basso consumo, il vecchio riscaldamento ad aria sostituito con pannelli radianti a pavimento e, non potendo installare il fotovoltaico sul tetto di un bene di valore storico-artistico, come parrocchia abbiamo optato per un contratto per la fornitura elettrica proveniente esclusivamente da fonti rinnovabili". Nell’ambito del restauro c’è stato spazio anche per un piccolo adeguamento liturgico con la progettazione di un nuovo altare e ambone. "Il recupero della Madonna del Prato ha un valore simbolico per la città di Gubbio perché questa chiesa è davvero un unicum per il territorio" commenta Polidori. Ma è anche un cambiamento radicale che interessa la comunità di fede che qui si riunisce. "Prima dei restauri - rivela il parroco - celebrando alla Madonna del Prato si provava affetto, ma anche precarietà. Oggi il restauro e l’adeguamento degli impianti rendono la chiesa un luogo sicuro che favorisce l’accoglienza e l’ascolto e finalmente permette di leggere e apprezzare i simboli e le decorazioni di cui questa chiesa è rivestita".
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«Dio cammina con il suo popolo... verso casa»: il tema del messaggio di papa Francesco per la 110ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato diventa invito della Chiesa marchigiana a un pellegrinaggio significativo, il 10 novembre prossimo, alla Santa Casa di Loreto.
La proposta è della Conferenza episcopale marchigiana e dalla Commissione regionale Migrantes che invitano i fedeli a darsi appuntamento con i migranti che si trovano nei vari centri della regione, in piazza della Basilica a Loreto, per un momento di preghiera e di festa.
«Quando il 21 settembre 1950 - racconta l’arcivescovo e delegato pontificio di Loreto, Fabio Dal Cin - la statua della Madonna di Loreto, benedetta in Vaticano da Pio XII, giunse in Belgio tra i migrati italiani, venne accolta dai nostri connazionali come la “Patrona degli emigrati”» Nel 2020 papa Francesco ha inserito nelle litanie Lauretane l’invocazione di Maria “Conforto dei migranti”.
«Dove c’è la Madre - aggiunge Dal Cin - ci si sente a casa, capiti e compresi nelle più profonde aspirazioni. Nel pellegrinaggio i migranti presenti sul nostro territorio giungeranno alla Santa Casa di Maria portando nel cuore i loro desideri di dignità, di pane e di pace, e nella Casa di Maria dove Dio è venuto a chiedere ospitalità agli uomini, ravviveranno la loro speranza e fiducia nel Signore, riconoscendo il suo volto anche nei gesti di bontà che hanno ricevuto e continuano a ricevere nel loro pellegrinaggio migratorio».
La proposta è stata accolta con molto favore dai tanti gruppi di migranti, appartenenti a decine di etnie diverse e si prevede una vasta partecipazione. L’appuntamento, per tutti, il 10 novembre, è alle 10.45 in piazza della Basilica, con l’invito a raggiungere a piedi il centro mariano, percorrendo a piedi anche solo l’ultimo tratto di accesso alla città.
Alle 11 è prevista la visita alla Santa Casa, con la presentazione dei gruppi etnici e l’animazione con canti proposti dalle varie comunità.
Alle 11.30 la celebrazione eucaristica, presieduta da Dal Cin. Al termine i partecipanti di sposteranno nella vicina Casa del Pellegrino, dove la festa proseguirà con preghiere, canti, musica. Tutti i partecipanti sono invitati a condividere le specialità gastronomiche delle terre d’origine e anche a arricchire la presenza con le bandiere e i costumi della propria gente.
Secondo il dato più recente, relativo a inizio anno, i residenti stranieri in regione sono 134.000, con un’incidenza del 9% sul totale della popolazione regionale; quasi un terzo si è stabilito in provincia di Ancona, che registra la densità maggiore. L’incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti offre tuttavia un dato diverso: il valore più elevato si riscontra infatti nella provincia di Fermo, con quasi 11 stranieri ogni 100 residenti; la provincia di Ascoli Piceno presenta l’incidenza più bassa con 7 stranieri ogni 100 residenti. C’è, complessivamente, una leggera prevalenza femminile (51,8%), mentre i paesi maggiormente rappresentati sono la Romania (17,4%), l’Albania (10,5%) e il Marocco (7%). Per la maggioranza gli immigrati nelle Marche sono cristiani (il dato più recente si attesta sul 48%) mentre quelli di fede islamica sono il 36%. Un 6,2% degli stranieri è induista e buddista, mentre il 5,8% si dichiara ateo/agnostico.
?«Ringraziamo la Rai per il suo prezioso servizio. Quanto è importante presentare il mondo, la vita vera, non banalizzarla, farla conoscere, aiutare a capire e sconfiggere l’ignoranza con una conoscenza vera, profonda dell’umano e dell’umanità, del creato e delle creature e quindi, sempre, anche del creatore. Farlo richiede e esprime professionalità, creatività, rigore, servizio per fare conoscere e capire».
Lo ha detto domenica mattina nella sua omelia il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, in occasione della Messa per i 70 anni della televisione, i 100 anni della radio e i 70 della trasmissione della Messa celebrata nella Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma.
Evento ricordato anche dall’arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, Giuseppe Baturi durante la trasmissione «A Sua immagine» su RaiUno condotto da Lorena Bianchetti.
«L’ethos nazionale non sarebbe lo stesso, il nostro Paese non sarebbe lo stesso e noi tutti non saremmo gli stessi, senza questi 70 anni di televisione», ha proseguito Zuppi nella sua omelia: «Un’intera generazione non sarebbe uscita dall’analfabetismo senza la televisione e l’Italia sarebbe stata meno unita senza questo immaginario comune che crea anche quel tanto che ci unisce. Guai a dividerlo o indebolirlo, a fare qualcosa di parte quello che è di tutti».
Il cardinale ha poi ricordato che «i tempi sono cambiati, l’intelligenza artificiale apre frontiere straordinarie, alcune inquietanti perché spesso non ha ‘fasce protette’ con i tanti rischi per un immaginario che condiziona e può diventare oppressione e distorsione ma la tecnologia che progredisce continuamente chiede proprio quel "di più" di valore che il servizio pubblico ha come impegno primario, proprio perché pubblico, per tutti, libero da motivi commerciali e interessi di mercato, per aiutare il senso del bene comune, per riannodare il gusto per i legami e per il dialogo in un tempo luccicante di like e di comunanze superficiali e di pollici abbassati, di linguaggi aggressivi, di amici senza amicizia e di nemici che si condannano senza conoscerli».
E poi l'augurio finale: «Siate davvero amici della vita con sapienza e tanta umanità vera e non finta - ha detto Zuppi -, per regalare prossimità e vicinanza, unione e appartenenza, specialmente a chi vive situazioni di isolamento o di vera e propria solitudine».
Un «cantico d’amore» controcorrente. Per testimoniare e lodare la «bellezza originale» di una Chiesa «sempre santa e sempre peccatrice». Che «mentre offre il suo servizio è guardata con sospetto». E mentre, con «amore tenace», «continua a curarsi dei più fragili e poveri», è «circondata dall’indifferenza, dall’ottusità, dalla stupidità dei ricchi e dei potenti». Nella festa di san Carlo Borromeo, compatrono della diocesi di Milano, l’arcivescovo Mario Delpini dà voce al suo predecessore e intona un «cantico d’amore» per la Chiesa ambrosiana e per la Chiesa universale, e per lo «spettacolo» di un’unità che non è mai omologazione ma armonia di differenze, come il Sinodo dei vescovi appena concluso (e che aveva Delpini fra i partecipanti) ha dimostrato.
È nell’omelia della Messa presieduta lunedì 4 novembre alle 17,30 in Duomo che Delpini ha provato a «esprimere i sentimenti» di san Carlo «verso la Chiesa». In molti modi egli intonò quel «cantico d’amore»: «con le sue prediche, anche quelle noiose, con i suoi provvedimenti, quelli lungimiranti e quelli del puntiglio, con le sue lacrime e la sua dedizione tenace, infaticabile fino all’esaurimento». Ebbene: qual è il «principio generatore» di «un’opera così straordinaria come quella dell’applicazione del Concilio di Trento alla riforma della Chiesa?». Non «il volontarismo» ma «l’amore appassionato per Gesù e la condivisione del desiderio di Gesù di rendere bella, santa, immacolata la sua Chiesa». Ed è per lei, «la Sposa dell’Agnello», ed è «perché sia santa e immacolata» che Gesù, «lo Sposo, dà la vita», scandisce Delpini – che prima della Messa si è raccolto in preghiera nello Scurolo di San Carlo, la cappella sotterranea nella quale è custodito il corpo del compatrono.
Ecco: «io canto della bellezza originale dello spettacolo della Chiesa universale», di questa moltitudine di uomini e donne di «ogni lingua, popolo, nazione – com’è stato con l’Assemblea sinodale appena conclusa – convocati e contenti di edificare il corpo di Cristo – ha esclamato Delpini –. Canto la fierezza e lo stupore perché in nessun luogo della terra, in nessuna istituzione degli uomini si dà questo convergere in comunione, per un servizio volonteroso e paziente». E poi: «canto della bellezza della comunione», «radunata dallo Spirito» e «frantumata dai puntigli e dai risentimenti, dalle incomprensioni e dalle ferite antiche», e «canto della moltitudine immensa delle persone che edificano la comunità, dei preti dedicati, dei santi della porta accanto, di quelli “che ci sono sempre” e sono anche capaci di lasciare il posto perché altri si facciano avanti mentre questi santi senza pretese continuano ad amare, servire, pregare».
E poi: «continuo a cantare di questa folla di uomini e donne – scandisce il presule – che prova simpatia per l’umanità ed è ricambiata dall’antipatia e dal disprezzo. Continuo a cantare di quella pazienza e mitezza della comunità che continua ad amare e servire tutti, anche coloro che si sentono in diritto di criticare e pretendere. Continuo a cantare di quella misericordia che prova compassione dell’umanità ferita e avverte di essere compatita e disprezzata». Ancora: «canto la bellezza di quest’opera prodigiosa della riforma della Chiesa» e «di questa stupefacente disponibilità a riconoscere i suoi peccati e a cercare in ogni tempo percorsi di rinnovamento, dentro un’umanità che più che convertirsi trova giustificazione ai suoi delitti... Canto dell’umiltà della Chiesa peccatrice. Canto del suo cammino verso la Gerusalemme del cielo».
«Non correte il terribile rischio che, per essere del tutto cristiani, diventate disumani». Il paradosso colpisce come uno schiaffo e costringe a rileggere due o tre volte: ma come, essere super cristiani ci può rendere disumani? Sono seicento le citazioni di questa potenza raccolte nel volume “Don Oreste Benzi. Aforismi, aneddoti e provocazioni” (Editore Sempre) da Elisabetta Casadei, teologa e postulatrice della causa di beatificazione del sacerdote di Rimini morto proprio il 2 novembre, nel 2007. Un libro snello, di quelli da comodino o da portare in borsa, con le seicento frasi che “si mangiano come le ciliegie”, in ordine o aprendo le pagine a caso, come gli antichi facevano con le “sortes” per lasciarsi guidare. «E’ un volumetto per camminare con un amico affidabile», dichiara l’autrice in prefazione, anzi, per trovare nei momenti difficili « un post dal Cielo» firmato da don Oreste e «con il solito post scriptum con cui terminava gli incontri: Dai! Ci stai?».
Si parla di amore e dolore, carriera e fallimento, politica e battaglie sociali, santità e incoerenza, giovani e solitudine, errore e redenzione (un ricco indice analitico aiuta e trovare gli aforismi dedicati ai vari temi), e il risultato è – per dirla con l’autrice – «uno scrigno di perle e di sberle», frasi affascinanti o scomode, colpi d’ala per gioire o ceffoni per darsi una mossa. Il tutto nello stile del prete romagnolo (fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII), ovvero senza mai puntare il dito, anzi, ricordando che «l’uomo non è il suo errore» (uno dei suoi più celebri aforismi), che «nessuna donna nasce prostituta, c’è sempre qualcuno che ce la fa diventare», e ancora che «dove c’è una persona arrabbiata o violenta, c’è sempre un cuore ferito. Sempre!».
Dunque l’antidoto che disarma rabbia e violenza è trattarle con amore, affermazione, questa, per nulla sdolcinata, basata sull’esperienza di un prete che in 42 nazioni ha creato 6.000 strutture di accoglienza per gli ultimi tra gli ultimi e gli scarti degli scartati. «Ho la convinzione profonda che nella misura in cui l’altro si sente amato smette di essere aggressivo», scrive infatti. Più che chi ha sbagliato, teme i giudici inflessibili (in fondo i “super cristiani” dell’inizio), cui non le manda a dire: «Quando vi sentite sicuri e distinguete molto bene fra i buoni e i cattivi, cominciate ad avere paura di voi stessi, perché forse non c’è un posto dove mettervi». Nelle sue centinaia di case famiglia ha accolto tutti senza distinzione, purché avessero bisogno, drogati e carcerati, malati e anziani soli, senzatetto e viados, vittime e sfruttatori: «Una volta ho chiesto a dei carcerati “che differenza c’è tra Padre Pio e voi?”. Nessuno sapeva rispondere. La dignità ci viene dal fatto che siamo figli di Dio! Padre Pio è vissuto da figlio di Dio ma la sua dignità non gli viene dalla sua santità. Avete sbagliato, ma c’è dentro di voi la grandezza di essere figli di Dio. Ecco perché siamo contro la pena di morte, l’ergastolo, la vendetta».
La sua logica è schiacciante, dietro l’aspetto bonario ci sono il cervello e la profonda cultura del teologo che però sa sporcarsi le mani, come scrive a proposito del rapporto imprescindibile tra la formazione e la vita concreta: «La formazione è quando ci sei dentro fino al collo. Esistono scuole di teologia molto valide, ma bisognerebbe fare sei mesi di studio e sei di condivisione», dichiara senza con franchezza. D’altra parte la “condivisione diretta” è il concetto base su cui si fonda l’agire quotidiano della sua Comunità sparsa nel mondo: «Dare da mangiare agli affamati, come dice il Vangelo, anzi, imboccarli, è l’atto più bello. Ma come fai a imboccarli? O vai tu a mangiare alla mensa (dei poveri) o li fai venire a casa tua. Vestire l’ignuno vuol dire che sei tu che devi vestirlo, non gli devi semplicemente mandare un container di pantaloni». Di nuovo logica stringente. E pure profetica, scritta anni prima che un neo eletto papa Francesco ci provocasse chiedendoci se, quando diamo l’elemosina, tocchiamo la mano del mendicante o stiamo attenti a far cadere la moneta senza contatti: «Stringi la mano al povero almeno una volta alla settimana», è il precetto di don Oreste.
Prete di tutti («Là dove è l’uomo, lì deve esserci il prete. Non può chiudersi nelle sacrestie, deve essere segno che orienta un cammino»), va sui marciapiedi notturni, nelle carceri, nelle discoteche, sulle panchine delle stazioni, dove la speranza è la prima a morire. Per questo lo criticano e lo fraintendono, ma lui ricorda che «La morale cristiana non è un insieme di regole ma una relazione d’amore» e che «Mi si rimprovera che vado nei locali dove sono esaltati certi comportamenti aberranti, ma non facciamo gli ipocriti, è il luogo che rende perverso l’uomo o è l’uomo che rende perverso il luogo? È a loro che il Signore mi manda. Spero che prima di morire il Signore mi faccia la grazia di andare in tutte le discoteche». Conosce bene la solitudine di tanti giovani privi di una guida: «Quanti ce ne sono di orfani con i genitori vivi!», e ancora «I figli non ascoltati diventeranno certamente disadattati e non sapranno più con chi parlare», così li va a cercare, se serve anche nei loro inferni, dove non servono prediche ma esserci, anche in silenzio: «I giovani, prima che stare a sentire, guardano cosa tu vivi». Esattamente come chi soffre e muore senza la fede: «Come si fa a parlare del dolore a chi non crede? Non si parla. Si vive a fianco».
Di fronte al dramma dell’aborto, poi, mette a nudo l’ipocrisia di una «società degenere, che finge di preoccuparsi dei malati e dei disabili, ma fa di tutto per ucciderli prima che nascano». Un misfatto ancora più atroce alla luce di un altro aforisma fulminante: «L’uomo è una parola irripetibile di Dio», ha una sola occasione.
La vera cura – l’amore – guarisce anche le persone così disabili da non saper fare nulla, i figli prediletti nelle sue case famiglia. Così spiega ciò che a tanti appare un mistero: «Noi accogliamo coloro che non abbiamo generato fisicamente non per curarli e istruirli, ma perché Dio li ama e ce li dona. Andiamo anche in capo al mondo per curarli e istruirli, ma li teniamo con noi anche se sono irrecuperabili». Don Benzi non si accontenta della carità, vuole la giustizia, la rivoluzione. Chiede che si aiutino le persone crocifisse ma intanto si distruggano le croci e chi le costruisce: «Non dobbiamo parlare di affamati ma di chi affama, non di oppressi ma di chi opprime. La devozione senza la rivoluzione non serve a niente». Su questa linea, allora, chi sono i barboni? «La gente risponde “i senza casa”. No: i barboni sono quelli che stasera non vogliamo nella nostra casa a dormire»... Come scrive ironicamente l’autrice, “Don Oreste non è proprio quel genere di preti che vorresti come santo della porta accanto, poiché ogni giorno (e anche di notte!) potrebbe succedere di tutto. Del tipo presentarsi all’uscio, come nulla fosse, con in braccio due bambini (di cui uno naturalmente disabile) e fissarti con quegli occhioni candidi, sotto il colbacco nero; o baby prostitute accompagnate dalla polizia in piena notte; o zingari accampati sul pianerottolo, solo per citare i casi più probabili...”.
Per dirla con don Oreste, «con i santi è una grande fatica stare, si sta meglio con i peccatori!», ma lui si metteva tra questi ultimi.
Anche se non esiste tribunale che abbia il potere di infliggerla, una delle peggiori pene cui una persona può essere condannata, è l’indifferenza. Capita quando ci si sente dimenticati, messi da parte, invisibili. Una triste consapevolezza che pur in modi differenti colpisce a tutti i livelli e che diventa particolarmente grave quando si accompagna a una condizione di sofferenza e povertà. Non a caso il Papa mette in guardia dalla globalizzazione dell’indifferenza, l’atteggiamento per cui in nome del profitto ci si dimentica degli altri. Il cristiano però dev’essere diverso, sente il bisogno, sulla scia del Vangelo, di farsi piccolo tra i piccoli, privilegiando proprio i dimenticati, gli esclusi. E quest’impegno di servizio va vissuto il più possibile nella gioia e nell’ascolto dei bisogni degli altri. Vuol dire essere gentili, rispettosi, attenti con chiunque incrociamo sulla nostra strada: «la vostra affabilità – dice san Paolo ai Filippesi – sia nota a tutti». Uno stile, una risposta alla chiamata di Dio che san Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), apostolo della carità, ha vissuto ogni giorno della sua esistenza, e che testimonia in questa preghiera (conosciuta non a caso come "preghiera dei Vincenziani"), quasi un manifesto del suo amore a Dio e all’umanità.
«Signore, fammi buon amico di tutti,
fa' che la mia persona ispiri fiducia
a chi soffre e si lamenta.
A chi cerca luce lontano da te,
a chi vorrebbe cominciare e non sa come,
a chi vorrebbe confidarsi e non se ne sente capace.
Signore aiutami,
perché non passi accanto a nessuno
con il volto indifferente, con il cuore chiuso,
con il passo affrettato.
Signore, aiutami ad accorgermi subito
di quelli che mi stanno accanto,
di quelli che sono preoccupati e disorientati,
di quelli che soffrono senza mostrarlo,
di quelli che si sentono isolati senza volerlo.
Signore, dammi una sensibilità
che sappia andare incontro ai cuori.
Signore, liberami dall'egoismo,
perché ti possa servire,
perché ti possa amare,
perché ti possa ascoltare,
in ogni fratello che mi fai incontrare».
Quale immagine di Chiesa emerge dal Sinodo, concluso da papa Francesco lo scorso 27 ottobre? Per rispondere a questa domanda ricorro alle tre espressioni collegate al tema Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione. La comunione è stata anzitutto quella sperimentata durante l’assemblea fra vescovi, presbiteri, consacrati e laici, uomini e donne provenienti da ogni parte del mondo, che si sono ritrovati a vivere uno scambio ricchissimo di riflessioni e di esperienze alla luce dell’unica fede e dello stesso amore a Cristo e alla Chiesa. Vari aspetti della comunione sono stati richiamati nel Documento finale: la sua origine dalla Trinità, il suo attuarsi in Cristo mediante lo Spirito Santo, la sua sorgente nell’Eucaristia, la sua espressione a vari livelli, fra i fedeli, le Chiese e i pastori, il ruolo del Successore di Pietro al servizio di questa multiforme comunione, quale «perpetuo e visibile principio e fondamento» dell’unità della Chiesa (cf. n. 16. 18 e 31). Anche il valore ecumenico di questa comunione è stato richiamato (cf. n. 40 e 137), col riferimento specifico ai recenti dialoghi intessuti con le altre Chiese e comunità ecclesiali sulla sinodalità e il suo rapporto al primato del Vescovo di Roma.
La comunione non si realizza, però, senza un’attiva partecipazione di tutti i membri del popolo di Dio, ciascuno secondo i carismi ricevuti e il ministero che gli è stato affidato: uniti nell’amore che viene dall’alto, i battezzati formano un popolo in cammino, dove a ognuno è chiesto di mettere al servizio di tutti quanto gli è stato dato. La Chiesa - afferma il Documento - «riceve da Cristo il dono e la responsabilità di essere il lievito efficace dei legami, delle relazioni e della fraternità della famiglia umana, testimoniando nel mondo il senso e la meta del suo cammino. Assume oggi questa responsabilità in un tempo dominato dalla crisi della partecipazione - cioè del sentirsi parte e attori di un destino comune - e da una concezione individualista della felicità e della salvezza» (n. 20). Di fronte a questo scenario, il Sinodo rilancia il valore della partecipazione di tutti, fondata sulla diversità dei doni e dei servizi: «È emersa l’aspirazione ad ampliare le possibilità di partecipazione e di esercizio della corresponsabilità differenziata di tutti i battezzati, uomini e donne” (n. 35). In questa luce una particolare attenzione è data ai vari organismi di partecipazione nella Chiesa locale, come a livello universale (nn. 87-94). Sulla partecipazione più ampia delle donne ai processi decisionali nella Chiesa, oggetto di una larga attesa, il Documento non va al di là di un auspicio, segnalando un bisogno di approfondimento (cf. n. 60). Il richiamo ad una maggiore corresponsabilità riguarda, comunque, tutti i battezzati (cf. n. 77).
È, infine, il tema della missione a permeare l’intero Documento: «La sinodalità non è fine a sé stessa, ma mira alla missione che Cristo ha affidato alla Chiesa nello Spirito... Sinodalità e missione sono intimamente congiunte» (n. 32). Certo, la missione non può attuarsi in una forma univoca, ma va adattata alle attese e alle sfide con cui viene a incontrarsi: «La chiamata al rinnovamento delle relazioni nel Signore Gesù risuona nella pluralità dei contesti in cui i Suoi discepoli vivono e realizzano la missione della Chiesa. Ciascuno di questi contesti ha peculiari ricchezze di cui è indispensabile tenere conto, legate al pluralismo delle culture” (n. 53). In particolare, «l’ascolto di chi patisce esclusione ed emarginazione rafforza la consapevolezza della Chiesa che fa parte della sua missione farsi carico del peso di queste relazioni ferite perché il Signore, il Vivente, le risani» (n. 56). Tutto questo esige una speciale attenzione al discernimento da operare: «Prevedendo l’apporto di tutte le persone coinvolte, il discernimento ecclesiale è allo stesso tempo condizione ed espressione privilegiata della sinodalità, in cui si vivono insieme comunione, missione e partecipazione. Il discernimento è tanto più ricco, quanto più tutti sono ascoltati» (n. 82). Molteplici i campi di impegno che vengono richiamati: dalla difesa della vita e dei diritti della persona al servizio del giusto ordinamento della società, dalla dignità del lavoro all’azione in favore di un’economia equa e solidale, dall’ecologia integrale alla missione evangelizzatrice, che la Chiesa è chiamata a vivere e incarnare nella storia (cf. n. 151).
Infine, nell’omelia della Messa conclusiva del Sinodo papa Francesco - che ha dichiarato di non voler scrivere un’esortazione post-sinodale, ma di accettare questo documento come il frutto del Sinodo da offrire a tutta la Chiesa - lancia un appello a continuare sul cammino della sinodalità, senza stanchezze e senza paura. La Chiesa che ha detto di sognare non è «una Chiesa seduta, ma una Chiesa in piedi. Non una Chiesa muta, ma una Chiesa che raccoglie il grido dell’umanità. Non una Chiesa cieca, ma una Chiesa illuminata da Cristo che porta la luce del Vangelo agli altri. Non una Chiesa statica, ma una Chiesa missionaria, che cammina con il Signore lungo le strade del mondo» (domenica 27 ottobre 2024). Nella visione del Papa, insomma, il Sinodo non termina qui, ma deve andare avanti come stile di vita e processo necessario, a cui nessuno ha il diritto di sottrarsi: e l’esperienza di sinodalità vissuta dai circa quattrocento partecipanti intorno a Lui diventa un modello da realizzare nei più diversi contesti, con l’apporto di tutti, nessuno escluso.
Arcivescovo di Chieti-Vasto padre sinodale eletto dalla Conferenza episcopale italiana
Dialoghi aperti e senza schemi precostituiti, domande che vanno al cuore dell’esistenza, racconti che testimoniano cosa tiene in piedi la vita quando la vita traballa. I giovani chiedono, otto preti rispondono. Evitando di ricorrere a dotte citazioni o di riproporre teorie, ma mettendosi in gioco personalmente. Il format è insolito, l’hanno chiamato “Con tutto il nostro umano”, si rivolge a un pubblico di giovani chiedendo loro di non essere semplici spettatori ma di interagire con i sacerdoti chiamati a portare la loro testimonianza. E a raccontare come fanno i conti con le domande sulla vita che in un tempo di crisi come quello che attraversiamo sono diventate ancora più brucianti e che li sfidano ad andare alla radice della loro vocazione. Accade a Milano, mettendo a confronto ogni volta due preti che affrontano un tema con due prospettive differenti. Si comincia il 4 novembre con “Bibbia vs social, la Parola e il like”, con Franco Manzi, biblista noto per i suoi studi su San Paolo, e Alberto Ravagnani, scrittore e molto popolare sui social. Seguiranno “Cappuccino vs Domenicano: l’affetto e la ragione” con Roberto Pasolini, cappuccino biblista noto per le sue predicazioni, e Marco Rainini, domenicano e storico della Chiesa (16 dicembre); “Tradizione vs Cambiamento: i primi secoli e l’era post-cristiana” con Carlo De Marchi, educatore dell’Opus Dei appassionato di letteratura, e Pierluigi Banna, docente di patrologia e cresciuto nel movimento di Cl (7 aprile 2025); “Beccaria vs Liturgia: il peccato e il perdono” con Claudio Burgio, cappellano al carcere minorile Beccaria di Milano, e Norberto Valli, liturgista esperto di rito ambrosiano (19 maggio). Sede degli incontri, promossi dall’associazione Kayros, sarà il Centro Culturale di Milano.
«Per molti giovani i preti sono marziani, gente che vive su un altro pianeta, io ne ho conosciuti due che hanno lasciato un segno importante nella mia vita, mi interessa dialogare su cosa è stato decisivo per la vocazione e cosa c’entra la fede con la vita - racconta Stefano, uno dei giovani che promuove l’iniziativa -. Abbiamo pensato a una formula interattiva e coinvolgente: realizziamo alcuni video che presentano impressioni raccolte tra i coetanei, offriamo un QRcode per inviare domande durante gli incontri, che potranno essere seguiti in live su un canale Instagram (contuttoilnostroumano) e nel quale presentiamo gli otto preti e raccogliamo testimonianze tra la gente». Anche Lidia è tra i promotori: «Mi interessa capire come si sono accorti che Dio li chiamava, penso che Dio chiama tutti ma ciascuno per nome, ognuno viene raggiunto con una modalità particolare. Anche la preparazione degli incontri si sta rivelando per noi un’esperienza affascinante: siamo giovani con storie e sensibilità diverse ma accomunati da domande sull’esistenza che chiedono risposte verificabili nella pratica quotidiana, non considerazioni accademiche, riflessioni spirituali o formule astratte che non servono per vivere».
I sacerdoti racconteranno come vivono la gioia e la fatica del loro impegno, l’esperienza del fallimento, la paura di non farcela, l’incomprensione delle scelte da parte dei superiori. Un dialogo con uomini che si mettono in gioco con tutto il loro umano e raccontano come si incontra Dio attraverso le più diverse circostanze, per scoprire ciò per cui siamo fatti: “What I was made for”, come recita il titolo della celebre canzone di Billie Eilish scelto per accompagnare il lancio dell’iniziativa.
Aprile 2021. “Non so se hai saputo di Nadia. È stata aggredita l’altra notte in casa in Perù, ma non si sa da chi. Ha una frattura al cranio e oggi la operano a Lima. Purtroppo non ci sono altre notizie. (…). Nadia non ce l’ha fatta. Preghiamo che salga veloce vicino al cuore di Dio”. Ottobre 2024. “Sammy Basso è morto. È stato chiesto al Vescovo di presiedere il suo funerale”. Messaggi che cambiano la vita per sempre, oltre che la giornata. Nadia De Munari, cresciuta nella periferia di Schio, è stata missionaria in Perù dell’Operazione Mato Grosso per 20 anni. Quando nessuno voleva aprire la comunità a Nuevo Chimbote disse a padre Ugo De Censi: “Se vuoi, vado io”. Queste sue parole piene di coraggio e libertà sono rimaste quasi come un testamento. Sammy Basso, scienziato e ricercatore vicentino affetto da progeria. Per tutti noi che l’abbiamo conosciuto era semplicemente Sammy, uno dei nostri ragazzi che ha fatto della sua croce, un punto di forza per raccontare al mondo che chi ha disabilità, malattie o semplicemente è diverso dallo schema che abbiamo, può essere una risorsa. Sammy è vita, ancora oggi, quasi un mese dopo l’ultimo “scherzo” che ci ha fatto, perché Sammy era “nostro”, ma ora è realmente di tutti. Era la coscienza. Niente di meno, ma del resto non poteva che essere quello il suo ruolo. Gli si voleva bene e basta, come alle persone migliori, alle quali basta un secondo per affascinare profondamente chiunque.
Nadia e Sammy. Cinque lettere più cinque. Una storia più un’altra. Bellissime. La storia di Nadia è stata purtroppo il mio primo comunicato stampa, perché “tu la conoscevi, sei cresciuta nella stessa parrocchia e conosci l’Operazione Mato Grosso”. Sammy, purtroppo, il mio primo vero funerale mediatico con il ruolo di ufficio stampa della diocesi. Lucidamente, per grazia, non per merito, in entrambi i casi mi sono trovata in una situazione di continuo discernimento. Con un’impressione, fisica, molto forte: stare su una soglia. Da una parte il diritto di cronaca, dall’altra il bisogno di tutelare famiglie con un enorme dolore. L’urgenza di comunicare nel modo migliore possibile vite che meritavano di essere restituite nella loro bellezza e insieme la fatica di trovare la misura per rispettare il lutto. La soglia è sempre uno spartiacque. Segna un prima ed un dopo, è tra una possibilità ed un’altra. È una scelta precisa, ma anche uno stile di vita, la possibilità di esserci, di essere pronti, vigilanti, attenti. Ma può anche diventare una specie di bolla nella quale si resta, inermi o pavidi, mentre la vita continua.
Ma un giornalista non può rimanere solo a guardare perché qualcosa deve “produrre”. Che sia cronaca, analisi, riflessione, un pezzo deve saltar fuori. E il lutto, soprattutto quello di un figlio, è uno spazio particolare. Per chi fa il nostro lavoro è un banco di prova nel quale ripensare – insieme ai colleghi - le notizie e i dettagli da raccontare, ma qual è il limite, la vera soglia entro cui rimanere per essere fedeli alla professione senza scadere nel voyerismo? Cosa significa darsi un limite oppure varcare una soglia senza essere invadenti? Abbiamo a che fare con le persone, non solo con numeri, ma come mettere in circolo la nostra umanità e custodire l’umanità di chi incontriamo? Non pare essere solo una questione etica, tantomeno solo di fede cristiana, quanto piuttosto la ricerca dell’umano che, forse, abbiamo perduto, e il desiderio di affrontare situazioni complesse con un approccio diverso. Quasi facendo un passo indietro, che non è di rinuncia, ma di delicatezza.
Stare sulla soglia e attendere il momento opportuno può significare arrivare secondi. Ma secondi nel lancio di una notizia, vuol dire arrivare primi nella relazione e nella vita. È attendere i tempi dell’altro. Mi tornano in mente le donne ai piedi della croce. Stare e condividere, com-patire e raccogliere con tutta la delicatezza e la discrezione del caso, ciò che viene condiviso. Ogni volta è stato come toccare la luce di una vita bellissima, che lascia un’eredità importante a chi resta. Non solo a chi ha conosciuto direttamente quella vita, ma anche a chi la conoscerà dopo. Arrivare dopo o con più calma, permette forse di poter davvero vedere una luminosità che la fretta nasconde perché va cercata, contemplata e amata. E per amare e servire l’Amore serve il tempo giusto.
Giornalista e responsabile dell'ufficio stampa della diocesi di Vicenza?
Wambrechies, comune francese di 9mila abitanti nella regione dell'Alta Francia, tra Lille e Roubaix. Uno sconosciuto entra nella bella chiesa parrocchiale dedicata a san Vaast, vescovo del V secolo, si dirige verso la statua di sant’Antonio di Padova, nella navata di sinistra, e dietro ad essa appoggia, ben nascosti alla vista, due lingotti d’oro del valore complessivo di oltre 150mila euro. Poi esce e telefona al parroco, Dominique Lemahieu, dicendogli che dietro l’effigie del santo taumaturgo troverà dell’oro. Il sacerdote pensa a uno scherzo, poi va a verificare e si rende conto che la faccenda è seria. Nel biglietto, anonimo, legge che i lingotti sono da consegnare al Comune, da usare per il completamento dei lavori di restauro della chiesa.
L’episodio più che singolare è avvenuto lo scorso luglio, ma è stato divulgato solo a fine settembre quando il consiglio comunale di Wambrechies ha votato la delibera per accettare la misteriosa donazione. In Francia nel 1905 con la legge di separazione fra Chiesa e Stato le chiese esistenti divennero proprietà dei comuni – a eccezione delle cattedrali che divennero proprietà dello Stato – ai quali da allora tocca farsi carico degli oneri di proprietà, tra cui i lavori di restauro. Per la chiesa neogotica di Wambrechies sono già stati eseguiti interventi sulle navate laterali e sul coro – anche per sanificarla da un fungo infestante – ma manca la navata centrale e soprattutto fino a un paio di mesi mancavano i soldi. Il vuoto da colmare era stimato tra i 120mile e i130mila euro, quindi i lingotti “piovuti dal Cielo” lasceranno in cassa anche un surplus di almeno 20mila euro.
Quello di Wambrieches non è l’unico soccorso inatteso e anonimo avvenuto recentemente. Sempre a settembre Sylvain Lelièvre, attuale sindaco di Saint-Hilaire-La-Croix, picolo comune di poco più di 300 abitanti nel dipartimento del Puy-de-Dôme, a una quarantina di chilometri da Clermont-Ferrand, è stato convocato da un notaio del posto. Il quale gli ha comunicato che il suo predecessore, Jean-Claude Habrial, sindaco molto amato, eletto per la prima volta nel 1995, morto la scorsa estate, aveva deciso di lasciare tutti i suoi averi al Comune, tra cui alcuni appartemeti e un terreno edificabile, per un valore stimato tra i 600mila e gli 800mila euro. Habrial non era sposato e non aveva figli. E nel lascito ha messo una clausola: i suoi beni dovranno servire a completare il restauro della piccola chiesa di Saint-Hilaire-La-Croix, intitolata a Santa Maddalena, un piccolo gioiello dell'arte romanica costruita nel XII secolo che Habrial sognava di riportare al suo antico splendore. Fino all’ultimo aveva organizzato visite guidate per sensibilizzare gli abitanti e non solo a quel patrimonio di arte e fede. «Jean-Claude era così, pensava sempre agli altri e al suo paese. Era attaccato alle sue radici e alla sua chiesa. Non lo dimenticheremo presto!» ha commentato l’accaduto un’anziana di Saint-Hilaire-La-Croix.
Dalla Francia alla Spagna. Nella diocesi andalusa di Almería, agli inizi di settembre, il vescovo Antonio Gómez Cantero ha informato tutti i fedeli che la vendita dello storico edificio del Seminario era stata bloccata. La decisione di dismettere il palazzo aveva incontrato l’opposizione quasi unanime del consiglio presbiterale – sia perché avrebbe compromesso l’esistenza stessa di un seminario per la Chiesa di Almería, il motivo principale, sia per il timore di una svendita dell’immobile – ma era stata ritenuta necessaria da Gómez Cantero per far fronte alle difficoltà economiche della diocesi, ossia un debito complessivo superiore ai 20 milioni di euro. Un uomo d’affari esterno alla comunità ecclesiale di Almería, che ha voluto tenere celata al pubblico la sua identità, è però venuto incontro alla diocesi offrendole una cifra non quantificata ma molto sostanziosa, tale da permetterle - grazie anche ad altre circostanze favorevoli - di ritirare il Seminario dal mercato.
Il mese di novembre è tradizionalmente legato alla commemorazione dei defunti. Anche chi non è solito frequentarli durante il resto dell'anno, va al cimitero, prega con più intensità per i cari già passati all'altra vita, programma Messe in loro suffragio. Succede soprattutto il 2 novembre, non a caso nella dicitura popolare il "giorno dei morti": In realtà la Chiesa ricorda in ogni Eucaristia chi ci ha già preceduti nell'incontro con il Signore ma in questo periodo la loro memoria è più forte e sentita.
Sembra un paradosso ma non lo è per niente. Si prega per i morti per celebrare la vita, perché li si crede vivi nel Signore, per accompagnarli nel cammino di avvicinamento a Lui. Con la preghiera, infatti si aiutano le anime alle prese con un itinerario di purificazione. Parliamo del Purgatorio che il Catechismo della Chiesa cattolica definisce «lo stato di quanti muoiono nell'amicizia di Dio, ma, benché sicuri della loro salvezza eterna, hanno ancora bisogno di purificazione, per entrare nella beatitudine celeste». E aggiunge: «ln virtù della comunione dei santi, i fedeli ancora pellegrini sulla terra possono aiutare le anime del purgatorio offrendo per loro preghiere di suffragio, in particolare il Sacrificio eucaristico, ma anche elemosine, indulgenze e opere di penitenza». Tuttavia, al di là di queste motivazioni teologiche alla base della commemorazione dei defunti ci sono anche ragioni spirituali al limite dello psicologico. Pregare per i morti vuol dire infatti credere che esiste una vita oltre a questa, che incontreremo il Signore, che esiste un legame diretto tra la terra e il cielo. Ma è anche un modo per sentire più vicine le persone che abbiamo amato, per ringraziarle di esserci state, per imparare dal ricordo della loro esistenza, quello che il Signore vuole insegnarci.
La Chiesa cattolica chiede esplicitamente di commemorare i defunti. L'ultima opera di misericordia spirituale invita infatti a "pregare per i vivi e per i morti" collegandosi direttamente a quella corporale di "seppellire i morti". «La Chiesa - disse papa Francesco durante l'udienza generale del 30 novembre 2016 - prega per i defunti in modo particolare durante la Santa Messa. Dice il sacerdote: “Ricordati, Signore, dei tuoi fedeli, che ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace. Dona loro, Signore, e a tutti quelli che riposano in Cristo, la beatitudine, la luce e la pace" (Canone romano). Un ricordo semplice, efficace, carico di significato, perché affida i nostri cari alla misericordia di Dio. Preghiamo con speranza cristiana che siano con Lui in paradiso, nell'attesa di ritrovarci insieme in quel mistero di amore che non comprendiamo, ma che sappiamo essere vero perché è una promessa che Gesù ha fatto. Tutti risusciteremo e tutti rimarremo per sempre con Gesù, con Lui».
Da sempre, pur con modi e sfumature diverse, tutti i popoli ricordano e pregano per i defunti. Nella Chiesa la loro commemorazione è presente sin dal IX secolo ma già circa duecento anni prima nei monasteri un giorno all'anno era specificamente dedicato a questa celebrazione. Quanto alla scelta del 2 novembre, la storia ci riporta all'anno 928. Fu allora che l'abate benedettino Odilone invitò tutti i monaci dell'Ordine cluniacense a optare per quella data. Alla base il racconto che gli fece un confratello tornato dalla Terra Santa. A Odilone, da sempre molto attento alle anime del Purgatorio cui dedicava preghiere e sacrifici, il monaco raccontò che, a seguito di un naufragio sulle coste siciliane vi incontrò un eremita, che gli disse sentire spesso le voci sofferenti delle anime del Purgatorio e insieme le grida dei demoni che gridavano proprio contro di lui, l'abate Odilone. La tradizione delle commemorazione dei defunti venne poi ufficialmente fatta propria dall'intera Chiesa di Roma nel 1311.
Sono tanti naturalmente i religiosi e i mistici che hanno guardato ai defunti. Il servita padre David Maria Turoldo, in una sua preghiera-poesia chiede il dono di comprendere meglio, attraverso di loro, il mistero della vita.
«Non ti chiediamo, Signore
di risuscitare i nostri morti,
ti chiediamo di capire la loro morte
e di credere che tu sei il Risorto:
questo ci basti per sapere
che, pure se morti, viviamo
e che non soggiaceremo
alla morte per sempre. Amen».
Pensa con fiducia alla vita che ci attende invece il poeta bengalese Rabindranath Tagore:
«Un giorno dopo l'altro,
o Signore della mia vita,
starò davanti a te a faccia a faccia.
A mani giunte,
o signore di tutti i mondi,
starò davanti a te a faccia a faccia.
Sotto il grande cielo
in solitudine e silenzio,
con cuore umile
starò davanti a te a faccia a faccia.
In questo tuo mondo operoso,
nel tumulto del lavoro e della lotta,
tra la folla che s’affretta,
starò davanti a te a faccia a faccia.
E quando il mio lavoro in questo mondo
sarà compiuto, o Re dei re,
solo e senza parole,
starò davanti a te a faccia a faccia».
Dal canto suo sant’Ambrogio mette al centro della sua invocazione il legame che unisce i vivi e i morti:
«Signore Dio,
non possiamo sperare per gli altri
più di quanto si desidera per se stessi.
Per questo io ti supplico: non separarmi
dopo la morte
da coloro che ho così teneramente amato sulla terra.
Fà o Signore, ti supplico
che là dove sono io gli altri si trovino con me,
affinché lassù possa rallegrarmi della loro presenza,
dato che ne fui così presto privato sulla terra.
Ti imploro Dio sovrano,
affrettati ad accogliere
questi figli diletti nel seno della vita.
Al posto della loro vita terrena così breve,
concedi loro di possedere la felicità eterna».
La preghiera più famosa resta però L'eterno riposo, che recita: «L'eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen». Il testo ha origine da un passaggio tratto dal IV libro di Esdra, apocrifo dell'Antico Testamento. Venne poi ripreso dai padri della Chiesa entrando nel VI secolo nel Graduale, Libro liturgico del Rito romano.
«Pensavo di andare veloce, il Vento mi ha condotto lentamente a stare seduto ad ascoltare i punti interrogativi che passeggiano in questa parte di vita». Tra i punti interrogativi di don Francesco Fiorillo, custode e responsabile della Fraternità Monastero San Magno di Fondi (Latina), c’è da tempo il dolore dei genitori che hanno perso un figlio. Ferite a cui questo sacerdote, “nuotatore controcorrente” come lui stesso si definisce, ha prestato attenzione ancora prima di entrare in seminario, quando aveva 18 anni, di fronte allo strazio dei genitori di un amico fulminato da una overdose di ecstasy. Da allora il pensiero di quella sofferenza che sconvolge e annienta l’ha sempre accompagnato e l’ha portato successivamente, quando è nato quel “porto di terra” che è la Fraternità di Fondi, a dare vita a un gruppo di genitori “orfani di figlio”. L’ha voluto chiamare Nain, la località poco lontano da Nazareth «dove la disperazione, il senso di abbandono, la ribellione verso Dio e l’umanità, vengono toccati e trasformati». Ma è davvero possibile accompagnare e dare sollievo al dolore di una mamma, di un papà che si sono visti portare via il figlio per una malattia, per un incidente stradale, per un suicidio (seconda causa di morte tra i ragazzi al di sotto dei 30 anni), per una overdose, oppure per una di quelle congiure di crudeltà che chiamiamo bullismo?
Papa Francesco, indicando come intenzione di preghiera per il mese di novembre il dolore dei genitori, ricorda che si tratta di un dolore «particolarmente intenso» e al di fuori di ogni logica umana, perché «vivere più a lungo del proprio figlio non è naturale». Siamo così impreparati a sopravvivere alla morte di un figlio che nemmeno il nostro dizionario ha una parola adatta per descrivere questa condizione di vita. «Pensateci: quando un coniuge perde l’altro, è un vedovo o una vedova. Un figlio che perde un genitore è un orfano o un’orfana. Esiste una parola per dirlo. Ma per un genitore che perde un figlio – osserva ancora il Papa nel videomessaggio – una parola non c’è. È un dolore così grande che non esiste nemmeno una parola». Bisogna inventarla, come don Fiorillo è stato costretto a inventare parole di senso di fronte alle domande impossibili dei genitori annichiliti dal dolore. Non perché quelle risposte abbiano un senso solido e definitivo – come si fa a dire che la morte di un figlio è “sensata” – ma perché, spiega, quelle domande vanno comunque fatte e, riflettendo insieme, «si spalancano nuovi orizzonti verso l’infinito, si rende più digeribile il futuro».
Vediamo allora alcune delle domande messe in fila dal custode della Fraternità di Fondi e ordinate in un libro, Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre (Paoline, pagine 197, euro 16) che in una giornata come quella di oggi dedicata alla memoria dei nostri defunti, potrebbe diventare un viatico confortante per tante mamme e tanti papà. «Come posso vivere il dolore?», si chiedono i genitori del gruppo Nain. E don Francesco risponde che il dolore è come una ferita che non va coperta da un cerotto. Per rimarginarsi deve prendere aria. Ma il dolore non fa crescere? «Non l’ho mai creduto», risponde il sacerdote, «è l’amore che fa crescere, quello che riusciamo a versare nello squarcio del dolore». Ecco perché di fronte al dolore, anche a quello più atroce e assoluto, non bisogna scappare, bisogna stare, «accettare il silenzio della vita davanti alla prova», che poi per il credente significa «accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze».
Ma ci sono altri atteggiamenti da imparare se si vuole convivere con il dolore senza che quell’artiglio implacabile afferri il nostro cuore e lo renda giorno dopo giorno indifferente alla vita, all’amore, al mondo. Può succedere, ma bisogna evitarlo. Sbagliato allora «lamentarsi e piangersi addosso», oppure «dare la colpa a qualcuno» per quello che è successo. E, ancora, nascondere il proprio stato d’animo, mascherare le ferite. Tutto sbagliato, anche nella sofferenza più lancinante che potrebbe indurre a scappare, a nascondersi, a evitare parole e contatti, dobbiamo parlare e condividere. «Penso a quanto ci faccia bene – riflette ancora don Fiorillo – lasciarci toccare dagli altri”»
Ma la domanda più atroce, quella che investe tutta la vita e che la può stravolgere, è per il credente sempre la stessa: «Dove eri, Dio? Tu che sei l’amore, come puoi far morire mia figlia? Se è vero che ci sei, perché hai permesso che accadesse?». Questioni da lasciare senza fiato, da ascoltare in silenzio, evitando di ripetere frasi che don Francesco definisce «bestemmie». Del tipo: «Dio strappa i fiori più belli per piantarli nel suo giardino, i vostri figli non vi appartengono, sono di Dio». Sbagliato. Sono parole che non confortano nessuno. Che dire allora, che fare? «Lasciare che le domande e l’incredulità e anche la rabbia verso Dio fluiscano, come un fiume, senza trattenerle». Perché Dio sente il dolore dei genitori diventati “orfani” di un figlio, di una figlia, «ha una immensa sensibilità, così grande da stare in silenzio per amore, anche quando noi vorremmo risposte».
La seconda parte del testo, quella dove strazio e conforto si mescolano e si confondano, ospita dodici testimonianze di genitori che raccontano il figlio che non c’è più. Sono mamme e papà che partecipano al gruppo di Nain e che in qualche modo, hanno saputo affrontare il dolore e hanno cercato ragioni, parole, contatti per non soccombere. Ma leggere quei ricordi vuol dire, soprattutto per un genitore, condividere e piangere con loro. Ma scoprire anche, inaspettatamente, che la speranza può rinascere insieme alla consapevolezza, come scrive Teresa, una mamma, «che vita e morte sono tutt’uno, che l’amore non conosce barriere ed è più forte della morte».
Pensava di arrivarci «da morto», frate Arturo Busetti, al cimitero. Che fosse quello di casa a Bergamo, «che è silenzioso e più raccolto», o il Monumentale di Milano, affollato questo primo di novembre come Gardaland, con le scolaresche in coda per la foto ricordo sui gradini davanti al Famedio e i vasi di fiori colorati sistemati ovunque per accogliere l’arcivescovo Mario Delpini alla tradizionale Messa di Ognissanti. «E invece – scherza il religioso, dei frati minori – sono vivo e vegeto, il cimitero è diventata la mia casa». La “chiamata” è arrivata un giorno del 2019, in un convento di Cermenate, vicino Cantù, «dove ero arrivato dopo tanti giri: non sono mai stato fermo, io, prima gli Spedali Civili di Brescia, poi Como, poi Monza». Infine Milano, appunto, col ruolo di cappellano del grande cimitero dove sono sepolti i cittadini illustri del passato lontanissimo e vicino e dove la chiesa è un gioiellino incastonato esattamente sotto la tomba di Alessandro Manzoni.
Un’emozione, celebrare Messa tutti i giorni qui? «Non lo so, a dire il vero non ci penso tanto. È più un’emozione vedere le panche stracolme e dover spesso lasciare aperte le porte di domenica, quando la chiesa si riempie di giovani famiglie e di bambini che scorrazzano a destra sinistra». Il piccolo prodigio della vita, al Cimitero Monumentale, si compie soprattutto grazie al grande popolo di Comunione e Liberazione, devoto al culto della tomba di don Luigi Giussani: un parallelepipedo di vetro, in fondo alla direttrice principale, sulla sinistra, con una foto semplice e un cassetta per le lettere e i messaggi lasciati dalle migliaia di pellegrini. «Per visitarla arrivano a gruppi sui pullman, da Milano o anche dal Veneto e dal Piemonte – racconta frate Arturo –: attraversano il cimitero, vanno sulla tomba di Giussani, poi ne approfittano per celebrare Messa qui da me». Ma ci sono anche gli affezionati del Pret de Ratanà, al secolo don Giuseppe Gervasini, un sacerdote molto conosciuto in Lombardia per le sue capacità taumaturgiche e anche lui sepolto lungo i viali costellati di statue e monumenti. Il risultato è «che ho una parrocchia più viva di molte altre, nel mezzo di un cimitero, e parrocchiani sempre diversi».
È ai vivi, d’altronde, che frate Arturo cerca sempre di parlare nelle lunghe giornate trascorse tra funerali e tumulazioni: «I primi assomigliano sempre a degli esami. Le famiglie si presentano qui facendo una breve descrizione di persone che non conosco ovviamente, che non fanno parte della mia comunità, dal momento che non ne ho una precisa. Ed è difficile, capire, è difficile prepararsi un discorso. Così quando cominciano a dirmi “desiderava questo e questo” io li ascolto e poi chiedo “e voi? Voi che cosa desiderate? Penso sempre che quel momento, e la Messa a seguire, mi serviranno per parlare ai vivi appunto – continua –. E non per convertirli, o per offrire loro risposte, ma per far sì che davanti a una cosa grande come la morte si facciano delle domande: chi sono? Che cosa voglio? Cosa mi dice il fatto che anche la mia vita potrebbe finire, all’improvviso, e cosa ne rimarrebbe?».
Non c’è un altro posto dove sia così chiaro, d’altronde, come l’ordine delle priorità di questo nostro mondo sia fragile e inconsistente: «Celebro sotto le spoglie di Manzoni, appunto, l’uscita posteriore della mia chiesa affaccia sulle tombe di Giorgio Gaber e Alda Merini, poco più in là tocca a Jannacci e a Fogar – continua frate Arturo – eppure davanti alla morte siamo tutti uguali». Sarà per quello che lui, cappellano del Monumentale da 5 anni, del cimitero sa ancora poco: «Mi piace scoprirlo un po' alla volta, ancora mi serve la mappa per capire dove mi trovo e quando mi chiamano sulle tombe per le benedizioni chiedo sempre d’essere prelevato qui in chiesa da un familiare. Camminando mi guardo intorno, leggo le frasi sulle tombe o davanti alle cappelle di famiglia. In questi spostamenti ho scoperto che ci sono tante statue di san Francesco, per esempio, poco conosciute». E poi? «E poi di nuovo i vivi: i turisti di passaggio che vengono a confessarsi, quelli che mi chiedono se serve aiuto e si mettono a spolverare, quelli che vogliono fare una donazione: a volte ne ho viste di impressionanti». Ad Arturo piace immaginare la sua chiesa del cimitero come un albero, su cui ci si posa per caso, inciampandoci quasi, si sta un po’ fermi per guardarsi intorno e prendere fiato, «per poi volare via di nuovo». Lui lo fa di pomeriggio, attraversa la grande piazza e raggiunge il convento con gli altri frati di Sant’Antonio, la grande mensa dei poveri, il centro d’ascolto: «Non finisce al cimitero, in fondo, la mia vita».
Anche in Italia, da un po’ di anni, il 31 ottobre le strade e le piazze si riempiono di uomini e donne mascherati da diavoletti o scheletri mentre i bambini suonano alle case dei vicini chiedendo: dolcetto o scherzetto? E, poi, biscotti e torte a forma di zucca, coprilampade che imitano i fantasmi, nelle vetrine delle librerie racconti sui “morti viventi”. Halloween impazza, all’insegna di un fenomeno culturale che non fa parte, se non in alcune località del Centro Sud, delle tradizioni storiche italiane. Il 1° novembre, inoltre, si celebra la festività di Ognissanti, che un nutrito gruppo di credenti, come anche alcuni teologi ed esorcisti, vedono in contrasto con Halloween. Ma è davvero così? Il tema è al centro del nuovo numero di Taccuino celeste il podcast di Avvenire dedicato ad approfondire in cosa crede chi crede. Se ne parla a partire dalle origini, comuni, della due festività, dando spazio anche a chi ritiene che Halloween sia la porta d’ingresso al satanismo, o comunque una via che facilita l’azione del diavolo.
Come detto Taccuino celeste è un podcast che riflette e si interroga sui temi della fede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, dell’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto, del segno della croce, di come “portare Dio in vacanza”, delle falsità che circondano la figura di Maria Maddalena, dell’esistenza del Purgatorio, di scomuniche ed eresie, di come dovrebbero essere le omelie.
Taccuino celeste è un appuntamento settimanale che però può essere ascoltato tutti i giorni, sempre gratuitamente (anche le vecchie uscite), sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Un concerto-evento degno delle grandi rockstar, ma anche una grande festa della fede proprio il giorno di Ognissanti. Oggi alle 20.30, al Padiglione B dell’Area Exp di Cerea, in provincia di Verona, ci sarà il concerto che celebra i 15 anni di missione dei Reale, band e progetto di Christian music italiana tra i più conosciuti e longevi del nostro Paese. L’evento è patrocinato dal Dicastero per l’evangelizzazione della Santa Sede che l’ha inserito tra i grandi eventi che aprono la strada al cammino dei giovani verso il Giubileo 2025.
Prodotto dai Reale e da La Gloria music, etichetta discografica indipendente di Christian music italiana. Con loro sul palco saliranno quelle realtà amiche che in questi 15 anni li hanno sostenuti: 5pani2pesci , Comunità Cenacolo, Kantiere Kairòs, Martin McNally. Un festival dell’evangelizzazione reale tra musica, testimonianze e preghiera, «uno spettacolo maestoso ad alto impatto emotivo, sul modello di quelli degli artisti di christian music d’oltreoceano come Hillsong, Elevation Worship, Brandon Lake e compagni, per dimostrare che anche in Italia è in atto un rinascimento spirituale che trova anche nella musica e nello spettacolo una forma d’espressione efficace e di qualità» spiega ad Avvenire Alessandro Gallo, frontman e fondatore della band che dal 2009 porta avanti la sua missione tra piazze, teatri e oratori trasmettendo il messaggio evangelico attraverso musica che va dal rock al pop. La band dei Reale vede oltre ad Alessandro Gallo, la moglie Francesca Cadorin, cantante, Dario Minazzo alla batteria, Francesco Lora e Luca Giurisato alle chitarre e Giorgio Munari al basso.
«Abbiamo investito tantissimo sulla qualità dello spettacolo – spiega il leader della band –. L’obiettivo è che i ragazzi vivano le stesse emozioni, se possibile più belle, dei concerti dei loro idoli, anche se non sono d’accordo coi nostri valori». Non mancheranno i brani di maggior successo della band riarrangiati, da “Luce” una delle più cantate nelle parrocchie d’Italia, “Alla porta del cielo” (Inno della marcia francescana 2016), “Come nessun altro”, “Giorno Uno”, “Fino a dove puoi arrivare”. La serata si concluderà con un momento di adorazione presieduto da don Tommaso assistente della associazione Trasforma con cui i Reale hanno sviluppato il progetto musicale. Già oltre mille i giovani che hanno acquistato i biglietti e che si apprestano ad affrontare viaggi in aereo e pullman da tutta Italia per vivere questa serata unica. La parrocchia di Cerea ospiterà i giovani nel centro parrocchiale dove sono pronti 300 posti “sacchi a pelo” in stile Gmg.
Il concerto è stato anticipato dall’uscita del singolo “Sono rimasto Vivo” (La Gloria - Reale) che segna un ritorno al rock delle origini degli anni 90. Il testo e il video giocano su immagini post-apocalittiche per affermare che anche quelle sofferenze che per ognuno possono rappresentare «la fine del mondo» si possono superare grazie alla fede.
Stasera, in anteprima per chi sarà al concerto, si potrà trovare anche il libro dal titolo «Io non c’entro niente», in uscita nelle librerie dall’8 novembre, edito da Effatà editrice, scritto da Alessandro Gallo. Una autobiografia che racconta il suo percorso di rinascita da una adolescenza ribelle nella droga e negli eccessi fino alla conversione in Comunità Cenacolo, l’incontro con Francesca sua moglie e il presente con i Reale. «Ho deciso di scrivere la mia storia ora che mio figlio ha compiuto 17 anni, la stessa età di cui io sono entrato in comunità di recupero a tirare le somme della mia vita – spiega il cantante 43enne –. La mia droga era la ricerca del successo, l’incontro con la musica cristiana è avvenuto in comunità grazie a madre Elvira e sono tornato a riavere voglia di avere una vita».
Lo spettacolo è solo uno dei progetti che i Reale stanno realizzando in preparazione al Giubileo 2025. È appena uscita la prima puntata di un podcast che durerà fino a luglio 2025, dal titolo «Esplosi - Felicità scomposte», prodotto con Rossella Pivanti, sempre patrocinato dal Dicastero per l’Evangelizzazione, in cui Alessandro Gallo si soffermerà sui temi della felicità, del successo, della realizzazione attraverso l’incontro con personaggi noti e meno noti come Nek, Andrea Delogu, Francesca Liberatore, Sara Ciafardoni, Matteo Rizzi, Giusy Buscemi e tanti altri. Si potrà ascoltare su tutte le piattaforme streaming dedicate e vedere sul canale YouTube dei Reale.
«Sogniamo di far vedere all’Italia quello che noi abbiamo il privilegio di vedere tutti i giorni, che c’è un esercito numerosissimo di giovani che credono in Dio, che cercano Dio e che credono nell’Amore, di giovani cattolici che si stanno “sporcando” nelle scuole, nelle strade, nelle opere umanitarie, nelle aule di università, senza vergogna, senza paura, mettendoci la faccia, con coraggio, fantasia e forza, per rendere il mondo e la nostra Italia un posto migliore e farlo con la Fede nel cuore» spiegano i Reale. «Siamo vittime di una mono-narrazione falsata in cui i cattolici sono generalizzati come retrogradi, ottusi e terrorizzati dalle ideologie, dalla sessualità, dalle innovazioni ed invece non è così e noi ne siamo testimoni – spiegano –. Il grande assente dal mondo della missionarietà è lo Spirito e noi vogliamo dargli voce attraverso le nostre voci: come ha salvato la vita a noi, la può salvare a qualcun altro, vale la pena provarci»
I Reale sono reduci dal “tour/pellegrinaggio” mondiale ’“Asking for Faith” tour, progetto patrocinato anch’esso dal Dicastero per l’evangelizzazione, che nel 2023 li ha visti protagonisti nei festival internazionali di Christian music più importanti del pianeta portando la loro musica e la loro testimonianza a Medjugorje, New York, Londra, Norimberga, Fortaleza e con tre show alla Gmg di Lisbona, tour internazionale che verrà ripreso nel 2026 puntando poi alla Gmg 2027. «Nel 2025 in particolare saremo presenti in concerto al Giubileo degli adolescenti il 26 aprile e al Giubileo dei giovani il 3 agosto a Tor Vergata – aggiunge Alessandro –. Questa è una rivincita. Nel Giubileo 2000 ero in comunità: per me è un regalo di Dio andare a Tor Vergata a cantare per un milione e mezzo di persone».
«Le vittime vogliono essere ascoltate, vogliono giustizia». Non ha dubbi Teresa Morris Kettelkamp, segretaria aggiunta della Pontificia commissione per la tutela dei minori, intervistata da Vatican News a proposito del primo Rapporto annuale, pubblicato il 28 ottobre. Il documento, chiarisce Morris Kettelkamp, «è uno strumento, un’istantanea dello status della Chiesa in relazione alla salvaguardia dei sopravvissuti» agli abusi e nasce dalla richiesta del Papa di avere un’idea riguardo a «come si sta comportando la Chiesa globale nel contesto della tutela dei minori».
Una richiesta, quella di Francesco, che ha imposto alla Commissione presieduta dal cardinale Sean Patrick O’Malley un compito serio e preciso, da condurre in modo appropriato. «Ma non avevamo un programma da seguire – spiega Morris Kettelkamp – e dovevamo pensare: “Come si fa a farlo?”». La raccolta dei dati si è quindi avvalsa di più contributi, a partire dall’incontro - ancora in corso – con i vescovi giunti a Roma per le visite ad limina: «Così abbiamo incontrato i vescovi dopo le loro udienze con il Santo Padre. Erano spesso le quattro del pomeriggio, faceva caldo, loro erano stanchi e probabilmente anche affamati. Ma parlavamo delle risposte ai loro questionari quinquennali e di come potevamo aiutarli a sviluppare risorse, che sono le fondamenta per la creazione di un ambiente sicuro in una Chiesa accogliente verso chi ha subito abusi». C’è stato poi un lavoro diviso tra le commissioni nelle diverse regioni del mondo, attraverso valutazioni di esperti su quali siano le sfide, ma anche le buone e le cattive notizie di ciascuna area. Infine, si è guardato «alla Chiesa al di fuori dalla Chiesa, ovvero la Caritas e altri ambiti nell’ambiente ecclesiastico che aiutano i bisognosi».
Le domande che hanno guidato il lavoro della Commissione sono state sempre le stesse: «Dove sono le misure di salvaguardia? L’apertura all’accoglienza dei sopravvissuti?». E se è pur vero che «non abbiamo ancora una cultura della salvaguardia», «un dato che emerge – sottolinea la segretaria - è che il desiderio di sviluppare meccanismi di salvaguardia per la Chiesa è universale nonostante le sfide, le culture e risorse diverse». La differenza di vedute è forse il più grande ostacolo con il quale la Commissione si trova a dover fare i conti. Un caso è quello del “conforto” che i sopravvissuti dovrebbero trovare nei centri in cui si recano, sul quale le definizioni possono non coincidere: «Negli Stati Uniti, ad esempio, il conforto può essere equiparato al denaro, ma questo non corrisponde alla realtà». E ancora: «Ciò che significa per me giustizia può essere diverso da quello che significa per te. Ma [le vittime] vogliono quella, vogliono indietro la loro integrità. Questa è una delle sfide che abbiamo riscontrato nella Chiesa».
Il Rapporto, commenta Morris Kettelkamp, «è un progetto pilota, un’istantanea. Ci sono lacune. Ma questa è la nostra prima volta e la Chiesa è seriamente impegnata nella salvaguardia. Anche se mancano le risorse, nel corso della mia esperienza non ho trovato un solo leader ecclesiale che abbia ignorato la salvaguardia». Una disponibilità che sostiene il primo passo e incoraggia i prossimi: «Dobbiamo fare di più per fare sentire ciascuno accolto e perché le vittime di abusi possano farsi avanti, senza che ulteriori danni siano loro inflitti».
Immaginatevi un bancone, con tanto di caffè, cappuccini e caffelatte, le noccioline “addormentasuocere” e gli immancabili lupini, di cui abbiamo perso memoria. Alle spalle il campionario di alcolici, sigarette, toscani. Nel frigorifero la spuma, la cedrata e il ginger. Ma il tabaccaio è un predicatore, sui generis, un comunista obbediente al vescovo che non lo capisce tanto. Si è convertito e non riesce a tenere per sé quanto il Vangelo scrive dentro di lui, con una passione per “l’Altro Cristo”, san Francesco che «partì solo: modificò un’epoca».
Renzo Buricchi (Seano 1913- Prato 1983), gestore di un bar in piazza del Comune a Prato, è già riconosciuto come servo di Dio e il processo di beatificazione avviato dalla diocesi di Prato va avanti, con l’acquisizione di testimonianze e documenti, come quelli presentati in un recente convegno dal postulatore don Alessandro Andreini sui rapporti tra Buricchi e i francescani del Santuario della Verna, negli anni Cinquanta. Buricchi rimane colpito dalla processione notturna dei frati e prima ancora dalla scelta della povertà in Francesco che lo ha portato lassù. E anche lui, con gli avventori che gli si fanno vicino colpiti dal suo dialogare, cominciano la sera a pregare davanti all’ospedale e a farsi vicini ai poveri della città tessile. Tra di loro figurerà anche Marcello Pierucci, giornalista de l’Unità, ateo che si converte, al quale dobbiamo due libri che hanno fatto conoscere Buricchi. Il tabaccaio si sente partecipe di una missione a Prato che non deve essere «elementare, ma santa e sapiente, in modo da coordinare il buono e travolgere il cattivo».
Le lettere recuperate da Andreini tra Buricchi e i frati della Verna sono dodici, di cui tre di fra’ Giovacchino Cioncolini, una del guardiano fra Girolamo Buratti e otto di Buricchi stesso, che per la rivista del Santuario scrive alcuni articoli. Dopo una visita di Buricchi alla Verna nell’ottobre 1955, il tono nelle lettere si fa più confidenziale. Cioncolini gli scrive il 7 novembre dello stesso anno: «Veramente profonde le tue riflessioni sulle necessità di farsi prendere, non dalla mania di fare, ma dallo spirito, che solo sa e può dare un significato alla vita dell’uomo. Ammiro la tua riuscita su questo punto e mentre faccio voti perché debba essere così ancora per l’avvenire, ho una santa invidia di seguirti per questa via».
Per Buricchi tutta l’opera di Francesco «si ingigantisce... e l’ordine nei secoli, ha grandezza, quando si abbevera nella Sua imitazione, si impoverisce quando conserva le Sue glorie: il tempo nel passare annienta la sostanza della gloria richiamando al Suo seno chi l’edificò. I conservatori sono i lenti demolitori di essa».
Bisogna mettere in conto di non essere capiti e in suo articolo Buricchi attribuisce a Francesco l’espressione «Vuoi vincere? Perdi!». Vinse più battaglie san Francesco «col colloquio al sultano che tutti i generali delle crociate». Su Buricchi “inciampa” il vescovo di Prato, Pietro Fiordelli, che chiede ai frati di non farlo più scrivere sulla loro rivista. Buricchi disse che «non solo non avrebbe più scritto sul giornale della Verna, ma da nessuna altra parte. E così fece», ricorda Pierucci. Nel frattempo Roncalli diventa Giovanni XXIII e Buricchi sottolinea nella sua corrispondenza «un Papa cosciente di questo nostro tempo».
La cosa bella della santità è la fantasia. Tra le vite di chi la Chiesa indica come modelli non ce n’è una uguale all’altra. Parliamo delle esistenze vere, fatte di sacrifici e gioia, di lacrime e sorrisi, storie dinamiche, non imbalsamate, come spesso succedeva invece nelle vecchie agiografie. La solennità di “Tutti i Santi” che si celebra il 1° novembre, diventa allora occasione per conoscere più da vicino l’umanità, il travaglio terreno di chi ha già raggiunto il cielo.
Un aspetto, quello dell’ordinario che diventa straordinario, sottolineato da Francesco sin dall’inizio del suo pontificato. «I santi – disse il 1° novembre 2013 – non sono superuomini, né sono nati perfetti. Sono come ognuno di noi, persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale». Li ha cambiati l’amore di Dio, seguito «con tutto il cuore, senza condizioni e ipocrisie». Significa unire contemplazione e azione, trovare nella preghiera la forza per spendersi nel servizio agli altri, sopportando sofferenze e avversità senza odiare e anzi «rispondendo al male con il bene». Un cammino di “perfezione normale” verrebbe voglia di dire giocando con i contrasti, che segue il filo rosso tracciato da Bergoglio nell’Esortazione apostolica “Gaudete et exsultate” dedicata appunto alla santità nel mondo attuale.
Un tempo, il nostro, in cui il Signore, accanto ai «mezzi di santificazione» che già conosciamo, dalla preghiera all’accostarsi con frequenza all’Eucaristia e ai Sacramenti, chiede a chi voglia imitarlo una grande capacità di sopportazione, pazienza e mitezza. E insieme l’impegno a fare comunità, audacia e fervore nel seguire il Vangelo, gioia e senso dell’umorismo. Requisiti magari difficili da esercitare con costanza, però alla portata di ciascuno, perché Dio non chiede a nessuno l’impossibile o meglio, lo rende possibile a tutti.
«Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e donne che lavorano per portare a casa il pane, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere!». Questa, annota il Papa nella “Gaudete et exsultate” è «tante volte la santità della porta accanto». Uno stile di vita che ritroviamo, con sottolineature differenti, in chi più di recente è salito agli onori degli altari.
Quanto ai numeri, tra gli ultimi Pontefici, Giovanni Paolo II ha canonizzato 482 beati, Benedetto XVI 45, Francesco 926 molti dei quali però, martiri riuniti in gruppi molto numerosi. Durante il Sinodo sulla sinodalità, il 20 ottobre scorso il Papa ha presieduto il rito per 14 nuovi santi. Tra di loro due italiani: Giuseppe Allamano (1851-1926), fondatore dell'Istituto dei Missionari della Consolata e delle Suore Missionarie della Consolata. Sebbene non sia mai partito per una missione, dedicò la sua vita alla formazione missionaria e alla ristrutturazione del Santuario della Consolata. E poi suor Elena Guerra (1835-1914) che dedicò la vita all'educazione e alla devozione allo Spirito Santo, pubblicando opere che influenzarono la vita della Chiesa. La sua causa di canonizzazione è stata riaperta dopo un miracolo attribuito alla sua intercessione nel 2010.
A completare l’elenco dei nuovi santi: suor Marie-Léonie Paradis (1840-1912) che ha fondato le "Piccole Suore della Santa Famiglia", dedicandosi ai servizi nei collegi e seminari. Era stata beatificata nel 1984; i Martiri di Damasco, otto frati francescani e tre laici, uccisi nel 1860 durante persecuzioni contro i cristiani in Libano e Siria. La loro canonizzazione rappresenta un messaggio di pace e dialogo in un contesto medio-orientale travagliato.
Con il rito celebrato il 20 ottobre diventano quattro i Sinodi in cui è avvenuta una canonizzazione, dopo quelle del 2015 (3 santi), del 2018 (7 santi, tra cui Paolo VI e Oscar Romero) e del 2019 (5 santi). Quanto ai prossimi nuovi santi non si conoscono ancora le date, però è prossima la canonizzazione del giovane beato Pier Giorgio Frassati (1901-1925) une delle figure più luminose cresciute in Azione Cattolica. Il rito è previsto durante il Gubileo del 2025. Vicino anche il riconoscimento della santità del giovanissimo beato Carlo Acutis (1991-2006) conosciuto, tra le altre cose, per la sua opera di diffusione attraverso internet.
Figure differenti tra loro, come sono le biografie di tanti testimoni della fede cresciuti in tempi ormai lontani. Persone accomunate, ebbe a dire papa Francesco il 13 ottobre 2019, dal fatto di rappresentare delle «luci gentili nel buio del mondo». Significa che guardare a loro, vuol dire vedere più chiara la strada che ci porta fuori dal tunnel, che potrebbe essere la rabbia per una punizione ingiusta, una malattia, un lutto. I santi come indicatori della strada e guide sicure dunque, uomini e donne che ritmano il cammino verso la libertà ma senza cedere alla presunzione.
«Il comportamento del cristiano – diceva il cardinale John Henry Newman santo dal 2019 – è talmente lontano dall’ostentazione e dalla ricercatezza che a prima vista si può facilmente prenderlo per una persona ordinaria». La sua forza infatti consiste nel farsi abitare dal Signore, nel dimenticare il più possibile sé stesso per fargli spazio. «Dio costruisce sul nulla. È con la sua morte che Gesù ha salvato il mondo; è con il niente degli apostoli che ha fondato la Chiesa» sottolineava Charles de Foucauld canonizzato il 15 maggio 2022. Un uomo diventato grande quando si rese conto della sua piccolezza. Com’è nella logica del Padre che giudica secondo il parametro dell’amore, che gioisce nel perdonare, che è disposto ad aprire le porte del cielo anche all’ultimo momento. Non a caso il primo santo “sicuro”, portato in Paradiso da Gesù stesso era un malfattore: il buon ladrone, capace di rubarsi il cielo.
Ce li portiamo nei nomi, li celebriamo in alcune ricorrenze, li invochiamo nelle difficoltà. Sono con noi, ma a volte la loro vita ci pare talmente esemplare da essere proprio irraggiungibile. La famiglia italiana è ancora devota ai santi? Come li pensiamo, in particolare in prossimità della festa del primo novembre? Lo abbiamo chiesto a Marco e Romina Manali, coppia di sposi impegnata nell’approfondimento e nella formazione teologica (coinvolta nel Progetto misterogrande, un laboratorio teologico-pastorale per la promozione del matrimonio e della famiglia), che ha recentemente pubblicato Compagni di viaggio. I santi che illuminano la vita di famiglia (Edizioni San Paolo). «Abbiamo la fortuna di vivere in Umbria, a poca distanza dai monasteri di Francesco e Chiara. Da qui vediamo ancora una splendida devozione da parte di tanti pellegrini e visitatori, fatta dall’incontro coi luoghi che riecheggiano una grande storia. E poi, sicuramente, gioca la sua parte la ricerca interiore di ciascuno», spiegano.
Ma chi si rivolge ai santi, nella nostra contemporaneità?
Naturalmente ci sono i credenti, che nei santi vedono l’esperienza del divino, cioè il modo in cui Dio si manifesta nella vita delle persone, ma ci sono anche in non credenti, che si avvicinano ai santi attraverso percorsi culturali, perché hanno dentro al cuore una domanda di senso.
Nel vostro nuovo libro c’è un percorso d’incontro con dodici figure, tra santi e beati, che appartengono al nostro tempo: da don Pino Puglisi a Carlo Acutis, da Chiara Luce Badano a don Oreste Benzi. Sono profili che forse sanno stare più vicini ai problemi moderni?
Sicuramente la loro vita ci parla da un orizzonte vicino, che conosciamo; il loro quotidiano è stato simile al nostro. Ed esercitano una fortissima attrattiva nei giovani. Qualche estate fa abbiamo fatto un campo estivo “alternativo” coi ragazzi della nostra parrocchia: siamo stati ospitati per alcuni giorni nell’episcopio di don Tonino Bello. Abbiamo incontrato di persona chi lo aveva conosciuto e amato, e che oggi continua a promuovere i suoi progetti per i poveri. L’esperienza, per i nostri ragazzi, è stata fortissima: hanno conosciuto una storia santità “dei giorni nostri”, hanno sperimentato la domanda di cambiamento e realizzazione che porta una vita così esemplare. Puoi restare uguale, dopo essere stato accanto a un santo, dopo aver capito il senso del suo servizio?
“Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità”, ha scritto Papa Francesco nella Gaudete et Exsultate. Il suo richiamo alla “santità della vita di famiglia” è costante anche in Amoris Laetitia e nei tanti interventi che dedica alle coppie di sposi. Viene quasi da schermirsi: ma come, proprio noi, santi?
Certo, capita di sentirsi così, un po’ “inadeguati”, perché i santi li associamo allo straordinario, ai gesti eroici, al sopportare terribili prove. Ma anche le più straordinarie vicende dei santi della storia, dobbiamo ricordarlo, sono solo momenti eccezionali maturati in un quotidiano sconosciuto. Il vivere nell’ordinario, rispondendo alla chiamata dell’amore, ci avvia su un cammino di santità che è la ricerca costante e incrollabile della pienezza di vita. In un tempo in cui il modello della famiglia è ampiamente in crisi, viverlo fino in fondo, superando insieme le difficoltà, significa essere testimoni di santità.
Colpisce, in tema di pienezza, il percorso di un giovane come Piergiorgio Frassati, che esercita il fascino della coerenza delle scelte, ma anche la gioia di vivere.
Sì, Piergiorgio Frassati - come Carlo Acutis, del resto – ci porta due diversi doni: non aver paura del proprio tempo, usandone i mezzi in modo buono, e intravedere il cambiamento portando in sé una testimonianza di bellezza. Carlo e Piergiorgio hanno capito, in un mondo spinto sempre più verso la ricchezza, l’egoismo e l’imperialismo degli oggetti, che le cose si usano e le persone si amano, non il contrario.
Anche Gianna Beretta Molla, che voi associate alla speranza, è un modello di donna che ci interroga tutte, al giorno d’oggi. Diventata medico tra tante difficoltà, amava profondamente suo marito e ha messo al mondo i figli che desiderava. Adesso invece viviamo nel dramma di dover scegliere: o la carriera o i figli.
Gianna ha portato avanti tutto quello che si era prefissata e ha fatto una vita bellissima, all’insegna non della sottrazione, “o questo o quello”, ma dell’incremento: “sia questo, sia quello”. Ha tenuto insieme studi, lavoro, amore, figli: seguire la via di Cristo insegna questo, a tenere insieme l’impossibile.
Allora, nel giorno dei santi, chi pregherete?
Pregheremo tutti i santi che ci parlano, con la loro vita, dal lungo svolgersi della storia, e che ci testimoniano non la grandezza, ma la pienezza della vita. Pregheremo per gli sconosciuti che hanno vissuto loro accanto, e ne sono stati cambiati, e per quelli che hanno percorso una via silenziosa di santità. Pregheremo anche per le generazioni che ci hanno preceduti e che si sono impegnate a fare dei cristiani un popolo bello, capace di portare speranza nel mondo. E il giorno dopo, il 2 novembre, pregheremo per i morti, che hanno vissuto con fede il loro quotidiano, e che ci aspettano nel Regno dei Cieli, insegnandoci la bellezza del nostro essere umani abitati da un’anima immortale.
Lo scorso 22 ottobre a Lima, capitale del Perù, si è spento a 96 anni padre Gustavo Gutierrez, uno dei fondatori della Teologia della liberazione cui anzi ha dato il nome grazie al titolo della sua opera più celebre. Ma chi è stato Gutierrez e cosa ci lascia quella che è stata una delle correnti teologiche più discusse del 900? Riccardo Maccioni ne parla con il teologo Brunetto Salvarani
«Era un santo il nostro cardinale. La sua fede era vera perché si specchiava nelle dolore della povera gente. La sua voce per la giustizia sociale e la libertà fu una spina nel fianco per la dittatura del generale Pinochet». Questa la testimonianza di un’anziana donna nel docufilm di Cote Correa “Requiem per il Cile: il cardinale Raúl Silva Henríquez” che questa sera verrà proiettato a Moliterno (Potenza) nel corso della quindicesima edizione della rassegna sulle nuove cinematografie del mondo «Frammenti autoriali». Il cardinale Henríquez» fu tra gli alti presuli della Chiesa cilena che trovarono in papa Montini il loro più fervido sostenitore nella difesa delle istanze dei ceti più deboli. Nato nel 1907 a Talca, nella regione del Maule, da salesiano padre Raúl studiò teologia nella capitale cilena e in Italia, a Torino. Dopo essere stato vescovo di Valparaiso, venne nominato nel 1962 cardinale di Santiago del Cile da Giovanni XXIII, la nuova carica gli permise di partecipare ai lavori del Concilio Vaticano II e al Conclave che portò al soglio pontificio Paolo VI. Con padre Raúl «l’episcopato» di Santiago del Cile conobbe per un ventennio un fervore profetico senza precedenti. Ispirandosi alle direttive ecclesiali e sociali della Conferenza episcopale di Medellín del 1968, Henríquez divenne una figura scomoda nel suo Paese, ma per amore del suo popolo non tacque né alzò la resa, «la Chiesa del Cristo - dirà - non smetterà mai di difendere i diritti dell’uomo. E sappia, il generale Pinochet, che io sono pronto a nascondere i rifugiati e i perseguitati anche sotto il mio letto». Nel 1976, non a caso, inaugurò il “Vicariato della solidarietà” per dare assistenza sanitaria e legale a chiunque ne avesse avuto bisogno, in particolare ai dissidenti al regime. «Di fronte a questo ennesimo sgarbo - dice un sacerdote nel docufilm - Pinochet andò su tutto le furie come quando il 18 settembre del 1973, pochi giorni dopo il golpe, il cardinale non volle celebrare nella scuola militare di Santiago il “Te Deum” che ricorda l’inizio dell’indipendenza del Cile». Dopo la morte di Paolo VI, il cardinale avvertì un senso di solitudine, molti che gli erano stati accanto nella sua opera pastorale l’abbandonarono, per cui nel 1982 decise di lasciare la guida dell’arcidiocesi di Santiago. « Il suo impegno per i diritti e la causa del popolo ebbe una portata del tutto evangelica - dice un altro sacerdote nel docufilm di Correa - oggi dobbiamo ricordare Henríquez come una grande figura della Chiesa. Un profeta». Raúl Silvia Henríquez morì nel 1999, al suo funerale una marea di fedeli, riecheggiando l’appello delle innumerevoli manifestazioni contro gli abusi di Pinochet, andò cantando per le strade di Santiago: «Raúl, amigo, el pueblo esta contigo» (Amico Raúl, il popolo è con te).
«L’Ucraina guarda con favore all’azione diplomatica della Santa Sede: sia che si tratti di sforzi per la liberazione della nostra gente, sia che riguardino tentativi di negoziati distinti». L’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, conosce bene il “peso” della Chiesa cattolica sulla scena internazionale. E sa quanto per Kiev sia importante l’appoggio vaticano. Mercoledì 30 ottobre è cominciato in Canada il secondo summit internazionale sulla Formula di pace del presidente Volodymyr Zelensky. Dopo il vertice in Svizzera dello scorso giugno, stavolta l’incontro di due giorni ha un unico tema in agenda: la “liberazione di tutti i prigionieri e deportati”, quarto dei dieci punti targati Kiev. «Ed è presente una delegazione vaticana con l’arcivescovo Paul Richard Gallagher», afferma Yurash.
Dalla sua rappresentanza diplomatica, affacciata sulle mura leonine a Roma, è passata la preparazione dell’ultima udienza di papa Francesco a Zelensky avvenuta l’11 ottobre. «È stato il quarto incontro da quando il presidente è in carica; il terzo dall’inizio dell’invasione su vasta scala. Non molti altri leader mondiali hanno avuto l’opportunità di incontrare così spesso il Santo Padre. Direi che si è instaurato un rapporto di fiducia reciproca. E mai abbiamo avuto un livello così significativo di comprensione e interazione», sostiene Yurash. Poi riferisce di cinque liste che Zelensky ha affidato alle mani “vaticane”. «Il presidente ha chiesto al Papa di continuare a fare tutto il possibile per riportare a casa i nostri concittadini dalla Russia. E, tramite questa ambasciata, ha fatto arrivare alla segreteria di Stato cinque elenchi di nomi: uno dei giornalisti; uno dei civili in condizioni di salute critiche; uno dei militari feriti; uno di ecclesiastici catturati; e naturalmente quello dei bambini». Una pausa. «Come ha dichiarato lo stesso presidente, la Santa Sede è al primo posto in questa nostra attenzione. Non da sola: abbiamo altri partner come il Qatar o il Canada. Ma il suo apporto è fondamentale». L’ambasciatore cita il Papa, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, la rete delle nunziature e la “missione” del cardinale Matteo Zuppi che «nelle scorse settimane, andando a Mosca per la seconda volta, è tornato a parlare con i russi».
L’Ucraina è in sintonia con la missione di pace della Santa Sede?
«Già prima che iniziasse la guerra nel febbraio 2022, l’Ucraina vedeva nella Santa Sede uno snodo e un luogo per possibili negoziati con la Russia (collegati agli scontri in Donbass, ndr). Ma, per una trattativa, serve che le due parti siano disposte a incontrarsi. Sfortunatamente la Russia non lo era, mentre l’Ucraina è da anni favorevole all’iniziativa vaticana di moderare il dialogo».
La diplomazia umanitaria è via di pace, secondo l’assunto d’Oltretevere?
«Sicuramente. Come può esserci pace se una parte del nostro popolo si trova prigioniero in un altro Stato? Sono migliaia gli ucraini deportati nella Federazione Russa, compresi i minori. Non è un caso che il loro rimpatrio sia uno dei punti della Formula del presidente Zelensky. La Santa Sede ha partecipato sia al summit in Svizzera a giugno, sia all’attuale vertice in Canada per implementare il piano del presidente e supporta il punto relativo a questo tema. Di fatto aiuta il nostro Paese con un intervento che sta a cuore alla popolazione».
Sul rientro dei ragazzi “rubati” i numeri sono ancora ridotti.
«La Santa Sede sta facendo il massimo. Tuttavia le operazioni sono complesse. Occorre inviare le liste, avere contatti con le autorità di Mosca, capire i luoghi in cui i bambini si trovano, portarli fuori della Russia».
Il Papa ha criticato la nuova legge ucraina che mette al bando la Chiesa ortodossa legata a Mosca. C’è un giro di vite sulla libertà religiosa?
«L’Ucraina garantisce la piena libertà di culto, secondo gli standard internazionali. Tuttavia siamo in guerra e ci sono ragioni di sicurezza nazionale. Oggi il 90% della popolazione chiede che la Chiesa ortodossa presente nel Paese non sia più dipendente da Mosca. Il presidente Zelensky ho ha ribadito nell’udienza con il Papa. Il patriarcato di Mosca ha contribuito alla preparazione della guerra, l’ha benedetta, continua a favorirla, collabora con i militari russi nelle zone occupate. Quindi la legge da poco varata non è contro l’ortodossia, ma contro la subordinazione a Mosca. E non è contro i credenti: infatti, abbiamo una Chiesa ortodossa autocefala, indipendente canonicamente e riconosciuta dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli, e i fedeli ortodossi possono unirvisi per professare la loro fede».
Negli incontri vaticani di Zelensky si è parlato dell’arruolamento obbligatorio dei sacerdoti che preoccupa la Chiesa cattolica.
«In segreteria di Stato il presidente ha spiegato che non è prevista alcuna mobilitazione del clero. Nessun prete verrà mandato in prima linea come soldato o imbraccerà un’arma. Al massimo può essere integrato nell’esercito come cappellano. E il ministero della Difesa ha creato un dipartimento per il reclutamento di nuovi cappellani militari che sostengano spiritualmente i soldati».
«Sono padre Oreste, father Oreste, non abbiate paura, la polizia when I am here non vi fa niente...». Il nebbione è fitto, il buio è quello pesto e disumano delle periferie, le ragazze restano acquattate nella boscaglia. Ma lui scandisce più volte la parola chiave, «father Oreste Benzi, father, father». Funziona: escono in quattro, poi cinque, urlano di gioia e lo circondano, come avessero visto Gesù Cristo in persona. Seminude loro, tonaca e cappotto nero il prete, sono schiave e lui è lì per liberarle...
Inizia così, con una tra le migliaia di “avventure” che si potrebbero raccontare di don Oreste Benzi, il docufilm (da oggi nelle sale cinematografiche) “Il Pazzo di Dio” del regista Kristian Gianfreda, dedicato al sacerdote riminese nell’anno che culminerà con il centenario della sua nascita (7 settembre 1925). E titolo non potrebbe essere più azzeccato: in sessanta minuti si viaggia sulle montagne russe di un prete che ha fatto la rivoluzione e ha cambiato la sua fetta di mondo. Il perché ce lo spiega lui stesso: «Sono sempre stato spregiudicato, che significa non mettere paletti davanti al Dio che viene, cioè all’avventura, adventus è qualcosa che viene e che quindi non c’era. Allora mi piace andare incontro a ciò che viene e non restare fermo a ciò che c’era». Ed ecco allora le sue invenzioni geniali, prima tra tutte la casa-famiglia, “semplicemente” dare una famiglia a chi non l’ha. Ecco poi la battaglia per la chiusura degli istituti, casermoni in cui orfani, disabili, senzatetto, drogati, anziani venivano ammucchiati e dimenticati. Ed ecco il principio su cui si fonda la sua creatura più folle e straordinaria, l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (anzi Xxiii, con il logo che stilizza una famiglia), oggi diffusa in tutti i continenti con oltre 600 strutture di accoglienza e 26mila persone soccorse tutti i giorni: i poveri non vengono a cercarci, allora dobbiamo andarci noi a cercare loro. «Se venite via dalla strada io vi do un tetto, un passaporto e un lavoro», propone a quelle ragazze don Benzi nel suo inglese-romagnolo, e in migliaia lo hanno seguito.
Nel lavoro di Gianfreda, già autore del film “Solo cose belle”, delizioso affresco di ciò che avviene nelle case-famiglia di don Benzi, filmati d’epoca e testimoni di oggi si alternano nel raccontare il don Oreste di tutti i giorni e di tutte le notti, quello che non dormiva mai (si appisolava ogni tanto) «perché guai a lasciare indietro qualcuno, può darsi che non tornerà più». Con questo spirito prima di salutare le ragazze lascia loro il numero di cellulare e in Comunità l’ordine è di rispondere a qualsiasi ora, «chi mi ha cercato potrebbe non richiamare». E con lo stesso spirito, mentre corre in macchina verso Roma con un suo stretto collaboratore per incontrare un ministro, pretende di uscire dall’autostrada e tornare a Rimini, dove a un senzatetto aveva detto di ripassare la sera.
«Dopo anni di dolore desideravo solo morire – testimonia una ex prostituta – ma quella notte si fermò un’auto da cui uscì un uomo, lui non mi chiese quanto costi, mi chiese quanto soffri, e mi disse di seguirlo». «Ero per terra in stazione la notte di capodanno, ero fatto di ogni tipo di droga, avevo perso gli affetti, mi restava solo la morte, mi dicevo “è finita e sono contento che sia finita” – racconta Oscar Baffoni, poi missionario della Papa Giovanni XXIII nel mondo –. Di colpo in sala d’attesa entrò questo cappottone nero, in mano una bottiglia e un panettone, venne da me e mi chiese se volessi brindare con lui. Finì che gli raccontai la mia vita e lui mi fece una proposta: vieni con me, vedrai che facciamo tutto nuovo».
Stride di fronte al fuoco di don Benzi la tiepida miopia di opinionisti televisivi, politici e giornalisti, lontani anni luce dalla vita vera, quella che lui non ha timore a raccontare nei talk show come nelle Aule del potere e della Giustizia. Senza remore, bistratta volti ancora oggi noti (e attivi) che alle sue denunce oppongono la banalità del quieto vivere (sono schiave? sì ma in fondo è il mestiere più antico del mondo, perché cambiare la cose...) e davanti a chi in tivù lo tratta da santo («Lei è straordinario, mica possiamo vivere come lei, noialtri») scuote la testa amareggiato perché quello che pretende è solo il minimo della giustizia.
In pieno Sessantotto non contrasta i movimenti giovanili, anzi, li sfida ad essere coerenti fino in fondo, manifesta con loro il primo maggio ma in mezzo ai suoi disabili in carrozzina: chiedono lavoro, dignità, uguaglianza, sulle loro bandiere sventolano slogan mai visti prima, “Chiudiamo gli istituti e apriamo le fabbriche. Gli handicappati devono entrare in società».
Sullo sfondo, costante, la sua fede innamorata di Dio, «il mio respiro», come la definisce. Chi è don Benzi ce lo spiega lui stesso con la parabola del cane, che del suo amico umano non capisce i progetti ma lo ama profondamente e si fida: «Chi è don Benzi? Quel cane».
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Mentre nella mattinata di sabato 26 ottobre, ultimo giorno di lavori al Sinodo dei vescovi, il nostro sguardo scorreva i numeri del Documento finale, la mente è andata al mondo là fuori che attendeva una scossa energica e una parola di speranza. Per accendere l’animo m’è venuta in soccorso la parola appassionata di Paolo VI nel Discorso di chiusura dell’ultimo giorno del Vaticano II: «La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani […] ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo». Possiamo dire anche noi di aver portato la stessa passione nel cuore? Credo di sì: ma ora bisognerà passare dal Sinodo di carta al Sinodo di carne. Per farlo indico cinque temi notevoli.
Il tema della fede in Dio nel mondo contemporaneo e la cura dell’iniziazione alla vita cristiana delle nuove generazioni è la sfida cruciale. È andata in crisi non solo la trasmissione della fede, ma soprattutto la consegna delle forme buone della vita. La difficoltà a generare alla vita e alla fede in formato grande si staglia sullo sfondo del mondo occidentale secolarizzato. Anche gli altri continenti ne subiscono l’influsso dirompente. Ormai la ricerca di spiritualità non si presenta più solo come un bricolage del sacro che attinge a luoghi e tradizioni diverse, ma ciascuno si siede a una tavola imbandita di senso e di esperienze per vivere, in cui la dimensione trascendente è un cibo per occasioni eccezionali come la nascita, la sofferenza e la morte. Le vere sfide si concentrano tutte nel ricupero della forza generativa del Vangelo. Ciò richiede soprattutto per ragazzi, adolescenti e giovani la ripresa del triangolo educativo tra famiglia, scuola e comunità cristiana. Su questo il Sinodo ha speso parole importanti.
Il Sinodo ha dedicato ampia attenzione all’autenticità della testimonianza della Chiesa nel mondo. La Chiesa dev’essere come una casa di cristallo. Tutti la osservano e devono poter vedere attraverso la trasparenza delle sue pareti come si parla, si decide e cresce la vita cristiana. Tre aspetti hanno interessato i dibattiti ai tavoli: i processi del discernimento comunitario, la sinodalità delle decisioni, la trasparenza delle valutazioni e dei rendiconti. Ma la sinodalità è condizione della missione, così che i più sensibili hanno posto l’accento sulla vita fraterna e sull’immagine di Chiesa delle parrocchie, dei movimenti e dei consacrati. La presenza capillare alla vita delle persone dev’essere capace di ringiovanire le comunità, attorno alla Parola, ai Sacramenti e alla Carità. La sinodalità delle decisioni e dei rendiconti non deve aumentare la burocrazia, ma coinvolgere tutti nello snellimento di una Chiesa obesa, per renderla duttile, sciolta, dinamica, più missionaria.
Il prossimo 21 novembre ricorrono sessant’anni della Lumen Gentium, la costituzione conciliare sulla Chiesa, che ha messo in luce il suo carattere di mistero e di popolo di Dio. I laici furono il detonatore della riscoperta della Chiesa come soggetto storico, il popolo dei battezzati in cammino verso il Regno. Essi sono i “nuovi venuti” del Concilio per sedersi alla stessa mensa dei ministeri istituiti. Tanto è vero che nel primo periodo dopo il Concilio si parlò persino di “una Chiesa tutta ministeriale”. Ma se fosse così chi vivrebbe semplicemente la vita battesimale e la missione nel mondo? Oggi, la questione dei ministeri (di fatto e istituiti), radicati nel battesimo, intende superare il dualismo preti e laici e dare finalmente alla Chiesa un volto variegato come nel primo millennio. Su questo punto il Sinodo mi è sembrato timido, ha ripreso gli interventi di papa Francesco, senza scorgere il carattere strategico dei nuovi venuti per il rinnovamento della forma ecclesiale. La Chiesa di domani o sarà una Chiesa fraterna dal volto multiforme oppure semplicemente non sarà. Il numero 60 sulla partecipazione della donna alla missione ecclesiale è rimasto incompiuto e ha ricevuto il maggior numero di no (97).
Uno dei punti più discussi ha riguardato la sinodalità (episcopale e battesimale). La natura pastorale e l’autorità dottrinale delle Conferenze episcopali (nazionali, regionali, provinciali e persino continentali) è stata oggetto di forte dibattito, anche per la critica delle Chiese orientali. Il pericolo paventato è quello di trasformare la Chiesa cattolica in un’Onu delle Chiese o in una confederazione di Chiese nazionali, dimenticando che storicamente la collegialità episcopale sorge dai sinodi provinciali. Ora però la questione più impellente è quella di passare dal Sinodo di carta al sinodo di carne. La sinodalità deve diventare una postura stabile di tutte le Chiese, attraverso gli strumenti di partecipazione, che talvolta si trascinano stancamente. A un tavolo è emersa la proposta originale di prevedere ogni cinque anni in ogni diocesi un’“Assemblea diocesana sinodale”, perché questo stile di Chiesa entri stabilmente nella pratica della vita ecclesiale. Non ha raggiunto però il livello del testo finale.
Grande impressione ha fatto nel Sinodo il grido che s’è levato dai teatri di guerra nel Medio Oriente, in Ucraina e in molti altri siti del mondo, all’origine di imponenti fenomeni migratori e della divaricazione tra popoli ricchi e poveri. Tuttavia, lo sguardo sul mondo delle povertà va differenziato. Non ci si può concentrare solo sull’indigenza materiale, ma occorre farsi prossimi della vulnerabilità e di tante povertà spirituali che affliggono anche il mondo del benessere e i figli dell’abbondanza. Il volto delle povertà è tentacolare e richiede ai cristiani lo sforzo di uscire dai luoghi comuni. Soprattutto da noi in Occidente la mancanza di senso e di futuro mina come un male oscuro le fasce giovanili, generando disagio, dipendenze, depressione, male di vivere.
Ecco cinque aree notevoli del Sinodo. Chi ha partecipato può correggere o arricchi-re l’elenco, perché il mondo là fuori senta che il Sinodo non lo ha dimenticato. E dei “punti scottanti” dei dieci “Gruppi di studio” al Sinodo non si è parlato? Sì, ai tavoli molto! Il tentativo di collegarli al lavoro sinodale è stato un po’ timido, ma i risultati non potranno tardare.
vescovo di Novara, ha partecipato alla Seconda sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi
Halloween? Dolcetto o scherzetto? No grazie. Come accade ormai da quasi un decennio, la sera del 31 ottobre, nella vigilia della solennità di Tutti i Santi, la Fondazione degli Oratori Milanesi-Fom propone ai ragazzi un modo diverso di vivere, se non proprio tutta la notte, almeno una gran parte della serata in cui tanti loro coetanei festeggiano, appunto, solo Halloween. Torna, infatti, l’ormai tradizionale appuntamento della “Notte dei Santi”, giunto alla nona edizione, ma in questo 2024 con un valore aggiunto. Un viaggio alla scoperta della figura del beato Carlo Acutis, il giovane milanese scomparso nel 2006 a soli 15 anni per una leucemia fulminante e del quale papa Francesco ha annunciato la canonizzazione prevista per il Giubileo del 2025.
L’iniziativa, dedicata per lo più agli adolescenti di età tra i 14 e i 16 anni, permetterà infatti di percorrere i luoghi che Carlo Acutis frequentava, dalle scuole dove ha studiato alla parrocchia in cui si recava quotidianamente per pregare e partecipare all’eucarestia: un itinerario caratterizzato da momenti di animazione, riflessione e testimonianza che culminerà con l’incontro e il dialogo finale con l’arcivescovo Delpini (tra le 21.30 e le 22.15) e i vescovi ausiliari che saranno tutti presenti, in momenti differenti della sera.
Divisi in gruppi, con partenze scaglionate fra le ore 18 e le ore 20.30, i 1500 ragazzi attesi si incontreranno in largo Cairoli per poi dirigersi nelle tre scuole che videro la presenza di Carlo studente: il Collegio San Carlo e gli Istituti delle Marcelline di piazza Tommaseo e Leone XIII. Proprio in quest’ultima scuola si potrà entrare visitando l’aula dove Carlo studiò nel suo ultimo anno di vita. Gli adolescenti, inoltre, incontreranno due testimoni che lo hanno conosciuto: al “Leone” il professore di religione dell’Istituto Fabrizio Zaggia, e alle “Marcelline” suor Monica Ceroni, oggi responsabile della scuola di piazza Tommaseo. Nella medesima piazza, di fronte alla scuola, si svolgerà l’ultima tappa dell’itinerario presso la parrocchia di Santa Maria Segreta dove i giovani saranno accolti da Delpini e dagli altri vescovi.
«Sono stata la preside e l’insegnante di religione di Carlo, dai suoi 6 anni ai 14, avendo frequentato da noi le scuole elementari e medie», ricorda suor Ceroni. «Era una ragazzo normalissimo e vivace, amante della libertà e credo davvero che sia un bell’esempio per i ragazzi di oggi perché testimonia che non serve essere fuori misura per essere santi. Un bravo studente e buon amico: penso che questa sia la santità che il Signore vorrebbe da un ragazzo di quell’età».
«Stiamo lavorando da diverso tempo sulla figura di Acutis – spiega, da parte sua, don Stefano Guidi, direttore della Fom –, perché i ragazzi e gli adolescenti vedono in lui anzitutto un coetaneo, dal punto di vista non soltanto anagrafico, ma anche culturale. La vita di Carlo non è semplicemente la vita di un santo adulto che è stato adolescente, ma è la vita di un adolescente che diventa santo».
Non a caso, ad Assisi, nel Santuario della Spogliazione, accanto all’urna che conserva il corpo di Carlo, continua ad ardere la “Lampada degli oratori della arcidiocesi di Milano”, un segno visibile del forte legame fra Acutis e i ragazzi degli oratori ambrosiani. Un rapporto ormai consolidato, come dimostra il pellegrinaggio della reliquia del “santo 2.0”, ospitata per brevi periodi di tempo in tante diverse realtà oratoriane sull’intero territorio diocesano.
Il corpo di Rosario Livatino, il giudice ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e beatificato il 9 maggio 2021, sarà presto traslato dalla cappella del cimitero comunale alla chiesa di Santa Chiara in Canicattì, il paese dove viveva coi genitori. L’intenzione è di fare della chiesa il Santuario del beato Livatino, martire della fede e della giustizia, un luogo simbolico della nuova evangelizzazione, con un linguaggio legato al tema della giustizia e della legalità. A darne l’annuncio è stato monsignor Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento, al termine dell’Assemblea diocesana convocata proprio a Canicattì nella chiesa di Santa Chiara.
Significativa la data scelta, il 29 ottobre, memoria liturgica del beato, in ricordo del giorno in cui nel 1988, a 36 anni, ricevette il sacramento della Cresima. Lo scorso 14 ottobre l’Arcivescovo aveva richiesto al Dicastero delle Cause dei Santi l’autorizzazione alla ricognizione canonica e alla traslazione del corpo. Il 21 ottobre il prefetto del Dicastero, il cardinale Marcello Semeraro, ha autorizzato a procedere. Attenendosi alle disposizioni dell’Istruzione sull’autenticità e la conservazione delle reliquie e alle prescrizioni del Regolamento di Polizia Mortuaria del Comune di Canicattì, la traslazione sarà eseguita nel corso del prossimo Anno giubilare.
Prima di giungere alla scelta della chiesa di Santa Chiara per la custodia del corpo del martire, l’Arcivescovo, affiancato da un’apposita commissione, ha valutato la possibilità delle altre chiese di Canicattì. Rispetto a queste, Santa Chiara è dotata di un’aula liturgica capace di accogliere più di mille fedeli e dispone di strutture di servizio adeguate all’accoglienza dei pellegrini e dei devoti: servizi igienici, sale comunitarie, ampissima sala per convegni, spazi all’aperto e parcheggi nel contesto urbano. Trattandosi inoltre di una nuova chiesa, nata per le esigenze pastorali legate all’espansione della parrocchia di Santa Lucia, non ha vincoli devozionali legati alla pietà popolare e proprio per questo si pensa di farne il Santuario dedicato al giudice martire.
Inoltre, la collocazione nella chiesa di Santa Chiara favorirà un pellegrinaggio simbolico anche nei luoghi degli affetti e della vita cristiana del beato: la Chiesa Madre, dove ha ricevuto il battesimo; la chiesa parrocchiale di san Domenico, dove ha ricevuto la Cresima, ha vissuto il suo cammino di fede, dove tutte le domeniche si recava a Messa assieme ai genitori e dove è stata aperta nel 2011 e successivamente chiusa nel 2018 la causa diocesana di beatificazione; infine la casa natale, dove ha vissuto fino all’ultimo giorno con i genitori, ma anche dove viveva un boss mafioso, tra i coinvolti nel suo tragico omicidio sulla statale 640 Caltanissetta-Agrigento in corrispondenza del viadotto Gasena. Anche questo è un luogo di memoria, con la presenza del monumento fatto erigere dai genitori e, da alcuni mesi, di un parco a lui dedicato.
"Camminavo nella tendopoli del paese, dove abitano centinaia di migranti in attesa del permesso di soggiorno. A un certo punto, in un angolo, ho visto un ragazzo: stava cucinando pasta e fagioli in una pentola lurida, completamente annerita. Sono rimasto impressionato e ho detto: dobbiamo fare qualcosa". Il diacono Michele Vomera, direttore della Caritas calabrese di Oppido Mamertina-Palmi, racconta così la scintilla che ha acceso l’idea di creare una mensa diocesana a San Ferdinando, paesino della città metropolitana di Reggio Calabria, a due passi da Rosarno e dal porto di Gioia Tauro.
Era il 2019. L’intuizione di Vomera si concretizzerà un anno dopo, grazie ai fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica: circa 115mila euro, ricevuti tra il 2020 e il 2022, che hanno finanziato l’acquisto di tutte le attrezzature per una cucina solidale allestita nei locali messi a disposizione dalle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida. Oggi la mensa funziona a pieno regime: conta 100 posti a sedere e, grazie a 40 volontari, distribuisce 400 pasti alla settimana a persone fragili e in difficoltà economica. Fin dalla sua inaugurazione, in piena pandemia, ha attivato un servizio da asporto che ancora oggi vede giovani volontari fare la spola tra la cucina e i bisognosi, compresi quelli della tendopoli di San Ferdinando da cui è partito il progetto.
"La nostra diocesi - spiega Vomera - è piccola: ha circa 175mila abitanti e 66 parrocchie. Sul territorio i migranti costituiscono il 6% della popolazione ma vivono separati dal resto della società, in punti ben precisi e riconoscibili della città, per esempio nella tendopoli di San Ferdinando, a contrada Russo a Taurianova o nel villaggio della solidarietà di Rosarno. Qui le persone arrivate in Italia non riescono a integrarsi e sono letteralmente messe da parte. Forse anche per questo all’inizio molti non si aspettavano che i migranti avrebbero accettato da noi un piatto di pasta; c’era l’idea che preferissero cucinare le ricette tipiche della loro cultura. Invece non c’è mai stato nessun problema, abbiamo sempre ricevuto complimenti e ringraziamenti. E oggi nel menù, oltre alle preparazioni della cucina italiana, abbiamo aggiunto anche qualche piatto tipico africano".
Ma in diocesi non ci sono solo stranieri e tra gli italiani la Caritas si interessa soprattutto ai numerosi anziani dei paesini dell’entroterra che vivono il fenomeno dello spopolamento. "A molte persone che frequentano la mensa - dice Vomera - non manca il pasto ma affetto, dialogo e supporto. Ricordo il caso di Enrico: mi raccontò di un problema di salute che non riusciva a superare per un intoppo burocratico; ne abbiamo parlato a tavola e lo abbiamo aiutato a risolvere attivando una rete proprio come si farebbe per un amico".
Da qualche anno a Gioia Tauro la diocesi, su impulso delle quattro parrocchie locali che hanno anche offerto gli spazi di un ex asilo, ha voluto anche un emporio della solidarietà, un piccolo supermercato dove le famiglie possono fare la spesa in materia autonoma. L’emporio, reso possibile anche dai fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica e aperto tre giorni alla settimana, sostituisce la distribuzione dei pacchi alimentari ai bisognosi e, più che un servizio assistenzialista, assomiglia a un piccolo negozio di vicinato dove le persone prese in carico dai Centri di ascolto Caritas possono acquistare prodotti alimentari, di pulizia e igiene usando un’apposita carta a punti. "L’approccio è molto diverso - ci spiega il direttore Caritas - perché le persone possono scegliere quello di cui hanno realmente bisogno, evitano sprechi e si vedono restituita la loro autonomia". L’esperimento funziona e la Caritas sta attualmente pensando di aprire succursali in altre località.
All’emporio la Caritas aggiungerà presto anche un negozio di vestiti (nuovi o in ottimo stato) dove gli utenti potranno comprare pantaloni e magliette al prezzo simbolico di 1 euro al pezzo. L’ennesimo anello di una catena di solidarietà che la mensa e l’emporio hanno innescato sul territorio. Attualmente, per esempio, la Caritas sta studiando come recuperare le eccedenze alimentari collaborando con alcune catene di grande distribuzione e ha attivato una cooperazione con aziende locali che da un lato donano materie prime importanti per le attività di ristorazione e dall’altro si prestano a ospitare giovani per un percorso lavorativo.
"Sul territorio della nostra diocesi il lavoro nero è dappertutto", spiega il direttore della Caritas che non a caso ha dedicato gli ultimi progetti 8xmille al contrasto di impieghi precari e irregolari. "Abbiamo permesso ad alcuni ragazzi di inserirsi in aziende in regola e di avviare stage di minimo sei mesi per approcciarsi al mondo del lavoro. Ha funzionato: la metà dei 21 tirocini attivati finora si è trasformata in un contratto a tempo indeterminato".
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La Chiesa, a tutti i livelli, è sempre più determinata a portare luce nelle tenebre della terribile piaga degli abusi. Lo si evince anche dal Rapporto annuale della Commissione pontificia per la Tutela dei minori presentato ieri. Tra le altre cose, vi si raccomanda di procedere a forme di risarcimento alle vittime, non solo economico, si fa un bilancio delle forme di lotta all’abuso messe in atto in diverse aree geografiche (promossa la Chiesa italiana) e soprattutto, come ha fatto nella conferenza stampa il presidente della Commissione, il cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, si fa ancora un mea culpa di fronte a coloro che sono stati colpiti da questa piaga. Il porporato ha comunque sottolineato, sia nell’introduzione al documento (composto da circa un centinaio di pagine), sia rispondendo alle domande dei giornalisti, che si è definitivamente voltato pagina e non verranno ripetuti gli errori del passato.
L’immagine più chiara ed efficace è quella del cammino da fare insieme. Nel senso che il Sinodo sulla sinodalità è finito ma in realtà continua. Lo stesso Documento conclusivo approvato sabato scorso deve diventare strumento di vita vissuta coinvolgendo tutti, recita il testo, in un percorso condiviso di consultazione e discernimento. Significa che «si continuerà a lavorare a diversi livelli – spiega il vicepresidente della Cei monsignor Erio Castellucci arcivescovo di Modena-Nontantola, vescovo di Carpi e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale –. Il primo è quello delle diocesi. Ci sono tanti spunti ed esperienze cristallizzati nel Documento finale, un testo che non è nato semplicemente dal lavoro di qualche settimana, ma è maturato in questi tre anni e che ora avendo annunciato il Papa che non ci sarà alcuna esortazione apostolica, diventa il testo da consegnare alle Chiese locali. E poi c'è il livello dei gruppi di studio che continuerà a lavorare sui temi sinodali, alcuni molto impegnativi per l'intera Chiesa».
I commenti si sono concentrati soprattutto sulle donne.
Il tema delle donne diacono è importante, ma potrà riguardare eventualmente solo una piccolissima minoranza, invece quello delle donne in quanto tali, riguarda tutti e tutte. Il Papa ci sta dando degli esempi mettendo presenze femminile in ruoli di governo nella Chiesa. Bisognerà superare diverse mentalità un po’ arroccate e aprire le diocesi, le parrocchie, a questa prospettiva.
La parola chiave emersa al termine dei lavori è armonia, armonia delle differenze.
Sì, è stata usata l'immagine molto cara ai cristiani d'Oriente della Chiesa come sinfonia, del Sinodo come armonia, per indicare che la Chiesa non è né una uniformità, un solo tono, un solo strumento, un solo spartito e neanche un’anarchia ma vi si trova una confluenza delle diversità così come l'inverso. Cioè il fatto che, come a Pentecoste, una sola lingua può venire udita nelle lingue di tutti. Bisogna cercare di individuare quelle diversità che non possono essere accolte, perché creano solamente divisione, ma soprattutto quelle, e sono molte, che creano ricchezza e quindi vanno recepite.
Al Sinodo si è parlato anche della necessità di superare certe rigidità che caratterizzano la vita della Chiesa. C’è, a suo modo di vedere, uno scollamento tra vertici e base?
Credo che oggi lo scollamento sia non tanto verticale, con i vertici da una parte e dall'altra il popolo santo, ma trasversale, con delle guide, peraltro non tante, che si sono arroccate su posizioni nostalgiche, indietriste, dice papa Francesco, allergiche e anche pesantemente critiche nei confronti di qualsiasi cambiamento. Una posizione che però non è esclusiva di alcuni vescovi o preti ma trova posto abbondantemente anche nella gente semplice, che non riesce a distinguere tra le proposte di vera tradizione di Chiesa e quelle di stampo tradizionalistico, che invece impediscono qualsiasi cambiamento.
La sfida riguarda sia pastori che laici, insomma. Non a caso Sinodo vuol dire camminare insieme.
Alcuni meccanismi da sbloccare sono stati individuati sia nel Sinodo generale che nel Cammino italiano e riguardano la prospettiva di una missione più snella. A grande voce tutte le persone che hanno partecipato al primo anno della proposta sinodale hanno chiesto una formazione più adatta a tutti, cioè non per alcuni specialisti ma che passi attraverso esperienze fatte insieme, con creatività, momenti di servizio, testimonianze. Un’iniziazione cristiana ripensata in n modo meno scolastico e più esperienziale. Un secondo nucleo, secondo me, da sbloccare è quello della partecipazione ai processi decisionali nella Chiesa.
Una svolta importante.
Attualmente, tutti gli organismi di partecipazione sono consultivi, cioè si danno dei consigli ma poi chi deve decidere, i parroci, i vescovi, è libero di farlo autonomamente. Su questo tema il Sinodo ha messo a punto dei percorsi, c'è una Commissione per questo, di maturazione. Nel senso che l’aspetto consultivo e quello a deliberativo si devono intrecciare. E questo comporterà anche il coinvolgimento delle donne, che sono parte del mondo laicale, anzi la maggior parte. Un passaggio molto più importante di quello che sembra, perché metterà a disposizione la sensibilità e l'intelligenza femminile delle decisioni della Chiesa che oggi spesso appaiono molto maschili e poco integrate nella vita comunitaria.
Un altro aspetto riguarda molto il nostro Paese.
Sì, il problema della gestione delle strutture, che riguarda le Chiese di antica cristianità o di post-cristianità. Abbiamo strutture materiali, pastorali, mentali, burocratiche che sono ritagliate sui tempi della cristianità quando, probabilmente in modo più ipotetico che reale, c'era una buona saldatura tra la Chiesa e la società, sia dal punto di vista culturale che operativo. Adesso quel legame non c'è più. Però ci restano le strutture, comprese quelle materiali che ci stanno crollando addosso. E che oltretutto agiscono da fumo negli occhi, perché danno l’idea che la Chiesa sia molto ricca mentre invece spesso rappresentano solo costi, di manutenzione e di restauro senza portare benefici pastorali.
A proposito delle Chiese in Italia siamo alla vigilia di un appuntamento importante, quello della prima Assemblea sinodale, che si svolgerà dal 15 al 17 novembre in San Paolo fuori le Mura, a Roma.
Sì, per noi è questa la fase finale del Cammino sinodale, che poi sarà, speriamo, la fase iniziale di un rinnovamento. Raccogliamo i frutti di questi anni, vissuti sempre in contatto, anzi il primo proprio in osmosi con il Sinodo generale. Li raccogliamo attorno ad alcuni elementi specifici per l'Italia che sono in gran parte condivisi. Il fatto che il Papa abbia deciso di non scrivere un'Esortazione apostolica consegnando alle diocesi il Documento approvato sabato ci facilita molto, perché ci dà già dei punti di riferimento fermi. Poi noi dovremmo procedere anche considerando le peculiarità dell'Italia. Per esempio dovremmo tenere conto che da noi il 95% della formazione attualmente riguarda i bambini e i ragazzi, cioè l'iniziazione cristiana in preparazione ai sacramenti, però aprendoci al discorso degli adulti, dei giovani. Un altro tema, quello dei ministeri femminili e maschili, in Italia è abbastanza consolidato, ma anche a rischio clericalismo; quindi, dovremmo vedere come collocarlo dentro un orizzonte missionario che non sia solo al servizio di una conservazione che vorremmo superare ma di una Chiesa più estroversa, più in uscita, come dice il Papa. Inoltre, ripeto, la questione delle strutture, abbastanza specifico per noi, intrecciando la legislazione concordataria con quella italiana che assegna al responsabile pastorale della Comunità, il parroco, anche la responsabilità legale.
Tornando ai calendari, dopo quella del 15-l 17 novembre, dal 31 marzo al 4 aprile si terrà la Seconda assemblea sinodale.
A novembre si partirà dai i Lineamenti che sono già stati distribuiti e che inquadrano i temi che dovranno essere trasformati durante l'Assemblea in uno strumento di lavoro consegnato alle diocesi, che avranno tre mesi per integrarlo con osservazioni e proposte. Nell’Assemblea di fine marzo e inizio aprile verranno discusse e votate le proposizioni cui i vescovi daranno forma definitiva nell'Assemblea generale di maggio, così da diventare orientative e normative per le Chiese italiane.
Ma se lei dovesse riassumere il bello del Sinodo appena concluso, il segno da cui si è sentito maggiormente arricchito?
Direi il contatto quotidiano per un mese con uomini e donne, vescovi, laici, papà, mamme, religiosi, religiose di tutto il mondo, la possibilità di ascoltare la testimonianza di Chiese tra loro diversissime, realizzando l’immagine di una sinfonia, fatta di note, strumenti, voci, spartiti che apparentemente non sono legati. Chiese in situazioni di guerra, Chiese di territori dove i cattolici sono un'infima minoranza, dove i credenti non possono esprimere la loro fede. Eppure il concerto, la sinfonia, era segnato dalla gioia di essere cristiani, dalla bellezza del credere, dalla possibilità di vivere la carità verso i fratelli e le sorelle, anche quelli di altre fedi o di nessuna religione. Dove da noi spesso prevale la noia o la nostalgia, là si vive la gioia di essere lievito, piccole comunità ma creative.
La parola chiave che ripetono all’unisono è gratitudine. Geneviève Jeanningros e Anna Amelia Gigli, piccole sorelle di Gesù che hanno varcato già da qualche tempo la soglia degli 80 anni vivendo in due caravan nel Luna park di Ostia Lido, sul litorale romano, vogliono dire il loro grazie al Signore «a conclusione del nostro servizio nel mondo del circo e dello spettacolo viaggiante, per quanto ci ha permesso di vivere in questi anni. Per i volti e le storie che abbiamo incontrato, per il dono dei fratelli con cui abbiamo condiviso la nostra vita, per tutti gli amici che in questi anni ci hanno ricolmato di amore, per la fiducia e l’affetto che le nostre responsabili ci hanno sempre dimostrato». Oggi pomeriggio alle 18.30 il vescovo ausiliare del settore Sud della diocesi di Roma, monsignor Dario Gervasi, presiederà la celebrazione eucaristica sulla pista dell’autoscontro del Parcolido in piazza della Stazione vecchia, meteo permettendo. Un luogo amato anche da papa Francesco, che ha incontrato due volte con semplicità – la prima il 3 maggio 2015, l’ultima pochi mesi fa, a fine luglio – le due religiose e le famiglie che lavorano in un settore precario come quello dei giostrai.
«Sono tutti dispiaciuti per la nostra partenza», dice piccola sorella Geneviève. Di origine francese, la suora ha condiviso con i giostrai 55 dei suoi 81 anni e mezzo, ma è nota anche per il suo impegno nei confronti della comunità LGBT+, avendo più volte organizzato incontri tra papa Francesco e persone trans e omosessuali.
Raccontano le due suore che, nelle loro giornate scandite da preghiera, spesa, cucina, faccende, lavoro pomeridiano e serale allo stand diviso fra giochi e vendita di lavori artigianali in creta e gesso realizzati da piccola sorella Anna Amelia, «abbiamo ricevuto tanto dai nostri amici delle giostre. La vicina Elisabetta diceva: “Noi siamo esseri liberi” e un po’ di questa libertà l’abbiamo presa anche noi. Poi la vocazione dei giostrai e circensi è portare gioia dove sono, con la loro presenza. Cercano sempre davanti al pubblico di scordarsi le loro pene per essere accoglienti: un’altra bella qualità. Formiamo una grande famiglia con loro, che sono aperti a tutti e ci hanno aiutato a fare altrettanto. I rapporti sono veri, non sono belle parole e pennellate: se non sono d’accordo, te lo dicono». E piccola sorella Anna Amelia aggiunge: «Per loro siamo delle sorelle. Ci chiedono di tornare ogni tanto a trovarli, quando non potremo verranno loro».
Al Parcolido per ora resterà così com’è il caravan visitato per la prima volta da un Papa il 3 maggio 2015, prima di andare nella parrocchia S. Maria Regina Pacis. «Il 31 luglio scorso è venuto nel pomeriggio a benedire una statua della Madonna che i nostri amici hanno voluto mettere nel Luna park. Per noi è un padre e un fratello: lo chiamano papà, babbo. Sa che ce ne andiamo, è dispiaciuto anche lui, pur comprendendone i motivi», confida piccola sorella Geneviève. E la consorella aggiunge: «C’è qualcosa di profondo che resta sempre quando vuoi bene veramente a qualcuno. Soffri e scoprirai cose belle, ma non starai ferma».
La presenza nel mondo dei giostrai era stata fortemente voluta dalla fondatrice, piccola sorella Magdeleine, di cui è in corso la causa di beatificazione. Nel gennaio 1965 aveva pensato a una presenza con uno stand al Luna park del quartiere Eur di Roma: «È la Chiesa che va verso il mondo. Lo stand si chiamerà “Nuit de Lumière”, Notte di luce. E sarà il presepe permanente, il Natale permanente». Fu inaugurato il 29 giugno 1966 e nel 2008, quando il Luneur chiuse da un giorno all’altro, per un anno le piccole sorelle parteciparono ai Luna park vicini, fino al 2010 quando furono accolte al Luna park di Ostia dal responsabile Ginetto Pugliè, che con grande disponibilità le ha sempre fatte sentire parte della comunità del Parcolido. Le piccole sorelle avevano allestito uno stand con giochi e lavori artigianali, vivendo dal 2012 in un caravan prestato e allestito a cappella nella parte posteriore, mentre un vecchio camion era stato trasformato in due camere da letto e un piccolo magazzino. Collaborando con l’allora Pontificio Consiglio per gli itineranti e con la Fondazione Migrantes della Cei, piccola sorella Anna Amelia ha curato i testi per la catechesi di bambini e adulti. «Vivere con e come loro, condividendo gioie, fatiche, speranze, sofferenze. E nello stesso tempo cercando nel cuore dell’altro i segni di amore, i semi di Dio, ed essere per ciascuno una sorella, un piccolo segno della tenerezza di Gesù, una porta aperta. E a nostra volta siamo state accolte come sorelle, come parte della loro famiglia»: così sintetizzano la loro esperienza.
Anche se anziane, restano profondamente innamorate di questa vita «come Gesù a Nazaret, con la porta sempre aperta e il cuore spalancato a chiunque passi, lasciando trasparire la sua tenerezza». Sui passi della loro fondatrice, che parlando della congregazione, definita «fraternità», diceva: «Non ho voluto fare altro che un’opera d’amore. E ora sta a ciascuna di voi, che vi siete impegnate con me su questo stesso cammino, di continuare a farne un’opera d’amore, tenendo bene in mente che quest’opera non ci appartiene, ma che è un’opera della Chiesa».
Secondo quanto trapelato dai lavori sinodali sono state due le questioni su cui il dibattito e le riflessioni hanno marcato le maggiori differenze tra le varie sensibilità presenti nell’assise: la questione del ruolo delle donne nella Chiesa e quella dello statuto teologico e dottrinale delle Conferenze episcopali. E in effetti proprio i due paragrafi riguardanti questi temi, pur risultando approvati con la richiesta maggioranza qualificata dei due terzi, hanno ricevuto il maggior numero di voti negativi.
La questione donna, trattata nel paragrafo 60 del documento, è quella che ha avuto la (relativamente) più bassa cifra di consensi: 258 su 355. I voti negativi sono stati invece 97 (il 27,3%: probabilmente la somma di quanti vi hanno trovato troppe novità e di chi al contrario ne ha riscontrate troppo poche). Lo scorso anno il paragrafo più “contestato” (era quello sul “diaconato femminile”) ebbe 69 “no” su 344 votanti.
Nel paragrafo in questione, dopo l’affermazione che le donne «costituiscono la maggioranza di coloro che frequentano le chiese», che esse «contribuiscono alla ricerca teologica» e che «sono presenti in posizioni di responsabilità nelle istituzioni legate alla Chiesa, nelle curie diocesane e nella Curia Romana», si sottolinea la presenza di donne «che svolgono ruoli di autorità o sono a capo di comunità». «Questa Assemblea – prosegue il paragrafo in questione - invita a dare piena attuazione a tutte le opportunità già previste dal diritto vigente relativamente al ruolo delle donne, in particolare nei luoghi dove esse restano inattuate. Non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida nella Chiesa: non si potrà fermare quello che viene dallo Spirito Santo. Anche la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta. Occorre proseguire il discernimento a riguardo». Discernimento che verrà attuato dalla Commissione presieduta dal cardinale Giuseppe Petrocchi e poi dal Gruppo di studio coordinato dal prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, il cardinale Victor Manuel Fernandez.
Il tema sui poteri delle Conferenze episcopali è stato trattato nel paragrafo 125 del documento finale, che è stato approvato con 310 “sì” e 45 “no” (il 12,7%). In esso si afferma che le Conferenze episcopali «sono uno strumento fondamentale per creare legami, condividere esperienze e buone pratiche tra le Chiese, adattare la vita cristiana e l’espressione della fede alle diverse culture». Di qui la richiesta «di precisare l’ambito della competenza dottrinale e disciplinare delle Conferenze episcopali», senza però «compromettere l’autorità del vescovo nella Chiesa a lui affidata né mettere a rischio l’unità e la cattolicità della Chiesa». Un siffatto esercizio collegiale di tali competenze infatti «può favorire l’insegnamento autentico dell’unica fede in un modo adeguato e inculturato nei diversi contesti, individuando le opportune espressioni liturgiche, catechetiche, disciplinari, pastorali, teologiche e spirituali». In particolare il paragrofo 125 chiede «di specificare il vincolo ecclesiale che le decisioni prese da una Conferenza episcopale generano, rispetto alla propria diocesi, per ciascun vescovo che ha partecipato a quelle stesse decisioni». Riguardo questo tema è utile ricordare che già nel motu proprio Apostolos Suos del 1998 si riconosceva alle Conferenze episcopali un qualche potere di carattere dottrinale, a determinate condizioni (unanimità o maggioranza dei due terzi con “recognitio” vaticana).
Dei 155 paragrafi che compongono il documento finale solo altri due hanno avuto 40 e più voti contrari. Si tratta del numero 27 sulla liturgia (approvato con 312 “sì” e 43 “no”), in cui si chiede «l’istituzione di uno specifico Gruppo di studio, a cui affidare anche la riflessione su come rendere le celebrazioni liturgiche più espressive della sinodalità», e che «si potrà inoltre occupare della predicazione all’interno delle celebrazioni liturgiche e dello sviluppo di una catechesi sulla sinodalità in chiave mistagogica». Le norme in vigore – seppure a volte disattese – prevedono che le omelie siano obbligatoriamente tenute da ministri ordinati.
Il paragrafo 148 infine è quello che ha è stato approvato con 315 “sì” e 40 “no”. Riguarda la formazione al sacerdozio con la richiesta «di una presenza significativa di figure femminili», e «di una revisione della Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis che recepisca le istanze maturate nel Sinodo, traducendole in indicazioni precise per una formazione alla sinodalità».
Il Documento finale è formato da cinque parti. Alla prima - intitolata Il cuore della sinodalità - segue la seconda parte - Insieme, sulla barca di Pietro - «dedicata alla conversione delle relazioni che edificano la comunità cristiana e danno forma alla missione nell’intreccio di vocazioni, carismi e ministeri». La terza parte - Sulla tua Parola - «identifica tre pratiche tra loro intimamente connesse: discernimento ecclesiale, processi decisionali, cultura della trasparenza, del rendiconto e della valutazione». La quarta parte - Una pesca abbondante - «delinea il modo in cui è possibile coltivare in forme nuove lo scambio dei doni e l’intreccio dei legami che ci uniscono nella Chiesa, in un tempo in cui l’esperienza del radicamento in un luogo sta cambiando profondamente». Infine, la quinta parte - Anch ’io mando voi - «permette di guardare al primo passo da compiere: curare la formazione di tutti alla sinodalità missionaria». In conformità alla Costituzione Episcopalis Communio la scelta di papa Francesco di non pubblicare una esortazione post-sinodale ma di approvare espressamente il Documento finale significa - ha spiegato il segretario speciale del Sinodo don Riccardo Battocchio - che questo testo partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro, non con valore normativo, ma dando delle linee di orientamento. «Non è normativo - ha puntualizzato il teologo rettore dell’Almo Collegio Capranica - non significa che non impegna le Chiese» ma indica «una direzione da prendere tutti insieme» in quella «pluralità che caratterizza fin dalle origini l’essere Chiesa di Cristo».
È morto ieri mattina il cardinale protodiacono Renato Raffaele Martino, figura eminente della Curia Romana durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, strenuo difensore del diritto alla vita e instancabile promotore di pace. Tra pochi giorni avrebbe compiuto 92 anni. Era infatti nato il 23 novembre 1932 a Salerno. Alunno dell’Almo Collegio Capranica era stato ordinato sacerdote nel 1957 e il nel 1962 era entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede, lavorando, oltre che nella Segreteria di Stato, nelle nunziature in Nicaragua, Filippine, Libano, Canada e Brasile. Nel 1980 era stato nominato arcivescovo e pro-nunzio apostolico in Thailandia. Nel 1986 aveva ricevuto l’incarico di osservatore permanente della Santa Sede presso la sede Onu di New York, dove era rimasto per ben 16 anni. In questa veste aveva partecipato come capodelegazione vaticana alla Conferenza sulla popolazione e lo sviluppo svoltasi nel 1994 al Cairo, dove riuscì a coagulare un consenso per stabilire che l’aborto in nessun caso può essere considerato un metodo di pianificazione familiare. Nel 2002 Giovanni Paolo II lo aveva nominato presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace e nel Concistoro del 21 ottobre 2003 lo aveva creato cardinale. L’11 marzo 2006 Benedetto XVI lo aveva designato anche presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, rinunciando all’incarico il 28 febbraio 2009. Il 24 ottobre dello stesso anno aveva rinunciato alla presidenza del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. Dal 12 giugno 2014 era cardinale protodiacono. In qualità di presidente di Giustizia e Pace Martino aveva dato voce all’opposizione del Papa e della Santa Sede alla seconda Guerra del Golfo del 2003 e aveva continuato e portato a termine la redazione del prezioso Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, venuto alla luce nel 2005.
Con la scomparsa del cardinale Martino il numero dei cardinali scende momentaneamente a 233 di cui 121 elettori in un eventuale Conclave. Dopo il Concistoro previsto per il 7 dicembre, che vedrà la creazione di 20 nuovi porporati di cui 19 votanti, il Sacro Collegio risulterà composto da 253 membri, di cui 140 elettori (che diventeranno 139 il 24 dicembre per gli 80 anni dell’indiano Oswald Gracias e 138 il 22 gennaio 2025 per quelli dell’austriaco Christoph Schönborn). Protodiacono a pieno titolo diventa ora il cardinale corso-francese Dominique Mamberti, 72 anni, prefetto della Segnatura Apostolica. Quello di protodiacono è un titolo onorifico, che però acquista un particolare valore in caso di Conclave. È lui infatti ad annunciare alla Chiesa e al mondo il nome del nuovo Vescovo di Roma. Le esequie del cardinale Martino si terranno domani, alle 15, all’Altare della Cattedra della Basilica di San Pietro. La liturgia sarà presieduta dal cardinale decano Giovanni Battista Re. Al termine della celebrazione papa Francesco presiederà il rito dell’Ultima Commendatio e della Valedictio.
Nel sistema educativo di san Giovanni Bosco hanno avuto un ruolo fondamentale le passeggiate con i giovani: itinerari di amicizia, di festa, di vita in gruppo, opportunità di nuove scoperte e di contemplazione della natura.
Ciò che colpisce nella santità di don Bosco è proprio il suo atteggiamento di semplicità, creatività e allegria. La gioia, di cui l’allegria è l’espressione esterna, è stata (ed è ancora) uno degli elementi basilari della sua pedagogia, fattore essenziale di un ambiente educativo. Da vero “genio del bene”, don Bosco aveva capito che il divertirsi, il ridere, il camminare insieme, creano una positiva sensazione di benessere e rappresentano una preziosa opportunità di relazione con le persone e con la natura. Sono perciò il segreto della vera amicizia, della profonda sintonia e quindi della vera comunicazione.
Ecco perché i divertimenti, gli svaghi avevano una grande importanza ai suoi occhi di educatore e di padre spirituale. Tra i tanti passatempi da lui inventati e promossi, don Bosco diede importanza anche alle passeggiate. Nell’esperienza pedagogica preventiva del prete di Valdocco questi mezzi, come altri, avevano anzitutto lo scopo di sottrarre i ragazzi dai pericoli del tempo libero vissuto senza impegno e, nello stesso tempo, erano un’occasione di maturazione e di divertimento sano e piacevole che arricchisce il corpo e lo spirito. Ciò che don Bosco voleva mostrare ai giovani era che il servire Dio può andare di pari passo con l’onesta allegria.
Una delle mete preferite da don Bosco per le passeggiate con i suoi giovani era la Basilica di Superga. Nelle Memorie dell’Oratorio si legge che un giorno, provvisti del necessario, si incamminarono verso la collina tra canti e tanta allegria. Arrivati ai piedi della salita, don Bosco trovò un cavallo mandato da don Anselmetti, curato di quella chiesa, e così a cavallo, circondato dai suoi giovani, tra canti e risate, giunse alla Basilica. Inoltre, ogni anno, in ottobre, per la festa della Madonna del Rosario, era diventata tradizione che la comitiva facesse tappa ai Becchi – luogo di nascita del santo, frazione di Castelnuovo d’Asti – dove il fratello di don Bosco, Giuseppe, per ospitarli metteva a disposizione non solo la casa, ma anche il granaio.
Dal 1859 le passeggiate autunnali si trasformarono in veri e propri itinerari festosi attraverso le colline del Monferrato. Don Bosco le scaglionava in tre o quattro settimane nei mesi di settembre e ottobre: erano veri campi di vacanza, i giovani però le meritavano solo con la buona condotta! La preparazione veniva fatta molto tempo prima: don Bosco si preoccupava non solo del vettovagliamento e dell’alloggio, ma anche della musica, del canto, del teatro, che per lui erano fattori indispensabili per queste escursioni. Particolarmente curato era l’aspetto formativo, perché l’intento dell’educatore piemontese era quello di fare del bene non solo ai ragazzi, ma anche di “edificare” le persone che avrebbero incontrate sul loro cammino. Era una forma di evangelizzazione e di apostolato.
Lo schema era diventato abbastanza comune: la comitiva entrava in paese in mezzo ad un gran frastuono e con la banda in testa. Dopo aver salutato la gente, i giovani si dirigevano subito in Chiesa, seguiti anche dalla gente del posto, forse un po’ sconcertata e meravigliata. Dopo una breve funzione, che oggi chiameremmo catechesi, andavano alla ricerca di un alloggio per passare la notte. La mattina dopo, prima di tutto partecipavano alla Messa, poi si divertivano con giochi vari e anche piccoli concerti. Dopo una giornata di viaggio tra le colline, a sera, dopo la benedizione con il SS. Sacramento, vi era la tipica rappresentazione teatrale sulla piazza principale del paese o in una sala apposita. La giornata terminava con il lancio di palloni aerostatici e l’accensione di razzi e ruote pirotecniche: era uno spettacolo attraente che si godeva anche dai paesi vicini.
Le passeggiate di don Bosco con i suoi giovani potrebbero forse dare ad alcuni l’impressione del vagabondaggio, del puro pellegrinaggio religioso, del teatro popolare ambulante; ma nella loro essenza erano un’intenzionale strategia educativa all’insegna della gioia per i giovani e un’occasione di apostolato per lui, sacerdote dal cuore missionario. Per i suoi ragazzi restarono nella memoria come avventure indimenticabili!
Con le camminate insieme ai giovani e con i soggiorni in campagna o in collina don Bosco precorse il turismo giovanile e, sotto certi aspetti, anche le colonie estive e i campi-scuola. Egli era, infatti, convinto che il movimento sia ciò che più giova alla salute fisica e che la poca salute dei suoi giovani potesse derivare dalla mancanza di movimento. Soprattutto era persuaso che l’allegria sia la condizione per il benessere sia fisico che spirituale e che i bambini e i ragazzi ne abbiano bisogno soprattutto nell’età - delicata - dello sviluppo della loro personalità.
Le passeggiate, dunque, mai improvvisate, ma preparate da lui con cura in ogni dettaglio e vissute in un clima di sorpresa, di allegria e di scoperta, erano per don Bosco non un vuoto passatempo, ma un mezzo efficace di maturazione, di vita di gruppo, di apertura di nuovi orizzonti, di conoscenza e di amicizia, soprattutto per i giovani più poveri.