lunedì, 31 marzo 2025
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Lunedì, 31 Marzo 2025

Dicevano i nostri nonni, e con loro tanti psicologi, che uno dei segni della maturità consiste nel saper aspettare, respirare a fondo prima di reagire, senza cedere subito all’ira. Sembra facile riuscirci ma non è così. Siamo “costruiti” con il desiderio di avere tutto e subito e la pazienza per quanto celebrata è una virtù da sempre fuori moda. Eppure, guardandoci indietro, ci accorgiamo che quando abbiamo saputo attendere, i nostri desideri sono stati purificati, a volte li abbiamo persino superati e se si sono realizzati li abbiamo gustati meglio. Il modello da seguire è quello offerto dai grandi saggi, a loro volta imitatori di Dio che malgrado le nostre infedeltà si mostra lento all’ira, pronto a riannodare ogni volta i rapporti con l’uomo, ben sapendo che tornerà a tradire. Ma al di là degli esempi inarrivabili, la pazienza è importante anche di fronte all’intrecciarsi dei piccoli-grandi problemi della vita quotidiana. Perché facilita i rapporti umani, rafforza la comunità, ci insegna a dare il giusto peso alle cose, a considerare essenziale solo quello che lo è davvero. Lo esprime bene in questa preghiera il filosofo e storico francese Lucien Jerphagnon (1921-2011) che non si vergogna di ammettere di aver chiesto la pazienza almeno cento volte.

«Signore,
per la centesima volta,
vengo a chiederti
la grazia della pazienza.
Ma anche per questa,
dovrò aspettare.
Sarei così contento che la pazienza,
come tutto il resto,
venisse dall'oggi al domani.
Signore, vorrei ritrovare un po'
il senso della natura
e il senso dei suoi ritmi.
Accettare che le messi
abbiano bisogno del sole.
Accettare che gli uomini
abbiano bisogno di sonno.
Accettare che le risposte
abbiano bisogno di riflessione
e di quiete.
Accettare,
senza recriminare
i ritardi voluti dalla natura delle cose.
Accettare infine, Signore,
di vivere secondo la tua volontà,
e non secondo la mia.
Signore,
fa che ami questo scorrere noioso e fecondo
dei giorni e delle stagioni,
questo maturare continuo
dei frutti e delle parole.
Concedimi di saper attendere
che venga la pazienza».





Domenica, 30 Marzo 2025

Sarà un punto di arrivo e insieme di partenza la seconda Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, in programma a Roma dal 31 marzo al 3 aprile. Punto di arrivo del cammino iniziato fin dal 2021. Ma anche di partenza, perché bisognerà tradurre in scelte concrete per la vita delle comunità ecclesiali le risultanze del lavoro. Lo afferma il vescovo Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Azione Cattolica e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e membro della presidenza del Comitato nazionale del Cammino sinodale.

Qual è lo scopo di questa seconda Assemblea, che segue di quasi cinque mesi la prima svoltasi a novembre?

«Faremo sintesi di tutto il cammino, ricchissimo di confronto, di dialogo e di riflessione nei gruppi. Sono state rielaborate le 17 schede tematiche che hanno costituito lo strumento di lavoro della prima assemblea sinodale e il materiale è stato tradotto in proposizioni, perché il compito di questa seconda assemblea è proprio focalizzare alcune questioni essenziali sulle quali si dovranno fare delle scelte. Il voto finale sulle singole proposizioni e su tutto il testo costituirà l’indicazione che l’assemblea offrirà ai vescovi per la loro assemblea generale di maggio, in cui verranno prese le decisioni operative. Ci collochiamo anche in un orizzonte più ampio che è quello del Sinodo della Chiesa universale, la cui Segreteria di recente ha tracciato un percorso che arriva fino al 2028 e con il quale dovremo necessariamente interagire».

C’è una nota unificante, o per lo meno dominante, nelle proposizioni?

«Il denominatore comune è la missionarietà. Parliamo di una Chiesa che si interroga su come far risuonare il Vangelo oggi, in questa cultura frammentata e in questo scenario sociale complesso. Una missionarietà basata sulla testimonianza, perché più che mai occorre essere credibili in ciò che si annuncia. Ma non dimentichiamoci che tutto accade in forza della sollecitazione del Papa a ridisegnare il volto della Chiesa in senso sinodale. Quanto più saremo capaci di essere Chiesa sinodale, tanto più saremo efficaci nella missione. Francesco ci ha detto che la sinodalità non è solo una forma, una modalità organizzativa, ma è l’essenza stessa della vita della Chiesa».

E come sono articolate le proposizioni?

«In tre grandi aree. Quella della prossimità agli uomini e alle donne del nostro tempo. L’educazione alla fede, con il tema molto sentito dell’iniziazione cristiana e cioè della trasmissione della fede. E infine le forme di corresponsabilità e la gestione dei beni. In sostanza come camminare insieme e come usare le nostre strutture in questo orizzonte di Chiesa sinodale missionaria».

Il recente Consiglio permanente ha parlato di corresponsabilità nella missione. In termini pratici che cosa vuol dire?

«Significa da un lato dare un dinamismo alla sinodalità. Gli organismi di partecipazione vanno ripensati e meglio organizzati, forse – come molti chiedono – resi obbligatori, anche con l’introduzione di modalità e forme nuove (ad esempio la metodologia della conversazione nello Spirito). Da un altro lato c’è la questione della soggettività. Pensiamo al laicato. Una Chiesa missionaria che non guarda al mondo e gli ambienti di vita, come potrà essere un segno per il nostro tempo? È quindi necessario valorizzare il laicato, anche quello associato, individuando eventualmente nuove forme di ministerialità e di servizio. E poi il ruolo della donna: se ne è parlato molto. Ora dobbiamo apprezzarne e valorizzarne meglio il prezioso contributo. Così come i giovani. C’è un forte desiderio di dare loro fiducia e di inserirli anche nei luoghi dove si prendono le decisioni. Parliamo del futuro e quindi i giovani non possono che essere protagonisti. E c’è l’attenzione ai poveri, agli ultimi, che resta la cifra fondamentale della vita e della missione della Chiesa nel nostro Paese».

C’è anche una sfida culturale oggi per la Chiesa in Italia? Il cristianesimo non rischia di essere culturalmente marginale?

«Oggi c’è una diminuzione dell’espressione pubblica della religiosità. È indubbio che abbiamo meno persone che frequentano, meno battesimi, meno matrimoni. Ma altrettanto incontrovertibile è il dato della domanda di spiritualità. Faccio due esempi: il grande successo del libro di Aldo Cazzullo sulla Bibbia e il film The Chosen, molto apprezzato dagli spettatori. La grande sfida per noi sarà agganciare la domanda di spiritualità per farla maturare in una religiosità non esteriore o formale, ma autentica, e quindi in una vera esperienza di Chiesa.

La seconda grande sfida è quella di una presenza che sia in grado di scuotere le coscienze. Con tutti i temi che papa Francesco ha evidenziato: la sostenibilità ambientale e sociale, l’accoglienza dei migranti, la pace. Siamo chiamati ad affrontare in modo diverso questi scenari che sono davanti a noi.

La terza sfida è etica, soprattutto le questioni aperte e nuove sulla vita nascente e terminale. Tutti temi che richiedono da parte della Chiesa una parola che sia in grado di offrire con autorevolezza discernimento e orientamento».

Servizio ai poveri e sfide culturali sono in alternativa tra loro?

«Ricordo che negli anni ’90 questa domanda era di grande attualità. E il documento della Chiesa italiana per quel decennio fu intitolato “Evangelizzazione e testimonianza della carità”. Le due cose non possono essere contrapposte, anzi traggono forza l’una dall’altra. Perché la sostanza del Vangelo è l’amore, ossia la capacità di promuovere una cultura della solidarietà vissuta nella misura più alta, che sfocia nella santità. I santi ci insegnano ad amare gli altri, specie i più poveri e bisognosi. E quindi anche questo cammino sinodale è, e deve essere, nella luce del Concilio, un cammino di santità che declina nel modo migliore cultura e carità».

E a livello politico che indicazione viene da questo cammino?

«Tutto il cammino ha avuto un dialogo costante con le questioni sociali. E anche la Settimana Sociale di Trieste, con la riflessione sulla democrazia, è stata uno dei suoi passaggi fondamentali. Papa Francesco ci ha detto che viviamo in una democrazia malata che ha bisogno di cura e forse di una revisione profonda. I cattolici, in questo momento, non hanno la preoccupazione primaria di una rappresentazione diretta, ma sentono tutta la responsabilità di contribuire a una buona democrazia e a una partecipazione reale in un’epoca di disaffezione soprattutto da parte dei giovani. Quindi anche attraverso il cammino sinodale e l’attenzione agli ambienti di vita credo che si possa dare un contributo originale alla vita sociale del nostro Paese. Penso anche al tema dell’Europa. Un orizzonte con il quale dovremo misurarci».

Che rapporto c’è tra Cammino sinodale e Giubileo?

«Il Papa ha voluto dare al Giubileo la tonalità della speranza. In questo senso il Giubileo rafforza la speranza di una Chiesa che sappia e rinnovarsi nei suoi dinamismi, ma anche essere un segno più eloquente e maggiormente riconoscibile da tutti. Perciò, Giubileo e Cammino sinodale, che condividono l’idea del movimento, sono due dinamiche convergenti che ci permettono di cogliere meglio i segni di speranza, cioè quei segnali positivi e luminosi che accompagnano anche il nostro percorso e la sua attuazione».





Sabato, 29 Marzo 2025

Muovendosi tra le strade affollate della sua comunità pastorale, il parroco monsignor Gianni Zappa si è fatto una domanda non semplice: «Chi ha la regìa della vita del quartiere Brera-Garibaldi?». L’elegante area intorno all’Accademia di Belle Arti è una vetrina per turisti, ma sembra aver conservato la propria natura elegante. Negli ultimi anni, la zona Garibaldi ha invece trasformato la sua anima di storico quartiere popolare. L’acquisto di una casa è diventato proibitivo. Tante abitazioni sono state convertite in affitti brevi, una realtà potenzialmente devastante per il tessuto sociale e ancora non regolamentata. Diversi negozi storici, luoghi di incontro tra persone e non semplici attività commerciali, sono costretti a chiudere. Sempre meno le coppie e le giovani famiglie che abitano il quartiere, venendo meno al naturale flusso di ricambio generazionale tra i residenti. C’è poi un elemento che ormai contraddistingue questa porzione del pieno centro di Milano: il rumore. Il traffico, il continuo movimento e le voci della movida, dei tanti di ogni età che affollano bar e ristoranti e cercano svago da una vita frenetica.

La prima reazione all’interrogativo di don Gianni potrebbe essere immediata. Le redini del quartiere e l’orientamento del suo futuro sono in balìa del profitto economico e del commercio. Non è però la risposta definitiva. Gli abitanti sono determinati a impedire che il quartiere diventi un parco divertimenti. Non si tratta di una resistenza ostinata, ma di uno sforzo che vuole essere una proposta: preservare e fortificare la sua anima autentica. «Il quartiere – dice il parroco – mantiene vivo un volto identitario formato nel tempo con generosità e capacità di iniziativa». I residenti di vecchia data hanno avviato un percorso solido e «ora lasciano a noi un’eredità che va accolta con coraggio. Ci viene affidata un’anima viva che nasce dalla storia». Questo avviene «con il contributo di tanti, più di quanti si possa immaginare».

Le quattro parrocchie che formano la Comunità pastorale intitolata a Paolo VI – San Marco, Santa Maria Incoronata, San Simpliciano e San Bartolomeo – hanno un ruolo chiave. Il parroco tiene a sottolineare: «Non tanto per merito dei sette preti che qui operano, ma per le parrocchie intese come comunità, come popolo che si è formato a lasciar correre libero il bene, e a costruire relazioni fraterne». Don Gianni parla di una comunità che non si stanca di proporre progetti, segni di grande vitalità. Sono le proposte culturali, educative e di carità. L’elenco è lungo: l’Università della terza età con più di 500 iscritti, la Fondazione Pernigotti, i volontari francescani a San Bartolomeo, l’associazione sportiva a San Simpliciano, il Centro d’ascolto all’Incoronata, l’associazione “in Vetta” che svolge un prezioso servizio a favore di persone senza dimora. E il Centro d’accoglienza a San Marco sostenuto da Floralia, manifestazione benefica in cui piante fiori e sono i protagonisti. Si tiene oggi e domani: i proventi andranno a progetti di reinserimento sociale di giovani e adulti in difficoltà.

È solido anche il cammino condiviso con le realtà che arricchiscono il territorio: le iniziative stimolanti dei padri Somaschi e dei frati minori del santuario di Sant’Antonio in via Farini. Insieme formano «una forza umana che è una vera ricchezza, forse la vera ricchezza del quartiere». Don Gianni è convinto che non vada data per scontata, ma valorizzata dalle istituzioni e dai mezzi di comunicazione, «non semplicemente come notizia di buoni sentimenti ma come identità del nostro quartiere». Un quartiere che è anche “casa” della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale – che dagli anni Sessanta ha la sua sede nei chiostri della Basilica di San Simpliciano.

Tra le vie di Brera e Garibaldi – dove sorge inoltre la chiesa del Carmine, che è sede di una parrocchia territoriale e di una parrocchia personale di lingua inglese, affidate agli Scalabriniani – c’è un’anima che non è fatta di soldi e di commercio, ma di vita. Riconoscerla e sostenerla aiuta a indirizzare il futuro comune a una maggiore responsabilità. «L’oggi e il domani – afferma il parroco – appartengono a chi offre segni di umanità: il benessere e il divertimento o il servizio per la promozione delle relazioni e della dignità tra le persone?».

Il rumore assordante e costante del quartiere deve essere bilanciato da spazi di accoglienza e silenzio. A questo pensano le chiese della comunità pastorale, ininterrottamente aperte dal mattino alla sera. Sono luoghi di forte attrazione per le ricchezze artistiche, ma soprattutto per chi ricerca spazi di riflessione e di respiro. Ciascuna delle quattro parrocchie ha assunto un proprio carattere. Pur in un cammino di unità che forma una sola famiglia di credenti, ogni comunità ha una vocazione specifica. San Simpliciano è il punto di riferimento di bambini e ragazzi. L’Incoronata è il luogo dedicato all’ascolto e alla carità. San Bartolomeo costituisce un’oasi di ossigeno per tanti lavoratori che popolano gli uffici. San Marco invece è casa per adulti e anziani, dove si alternano diverse proposte culturali.

Le preoccupazioni nel cuore di un pastore che ha la cura di quattro comunità sono tante. Don Gianni, i preti collaboratori e le famiglie parrocchiali sanno qual è il loro ruolo. «A un quartiere che fa tanto rumore, vogliamo dire: noi ci siamo. Hai bisogno di silenzio. Noi te lo offriamo».






Sabato, 29 Marzo 2025

«Trattàtemelo bene, trattàtemelo bene, diceva, fra le lacrime, un anziano prelato ai nuovi sacerdoti che aveva appena ordinato. Signore! Chi mi darà parole e autorità per gridare allo stesso modo all’orecchio e al cuore di molti cristiani, di molti?». Nel punto 531 di Cammino, la piccola e densa “costituzione spirituale” dell’Opus Dei, c’è un lampo di quell’amore sconfinato per il sacerdozio come ministero eucaristico che animò il fondatore san Josemaría Escrivá come una luce costante sui passi di una vita spesa interamente a diffondere quel che “vide”, 26enne sacerdote da soli tre anni: la chiamata di tutti i cristiani alla santità nella vita quotidiana, niente di meno.

Tutto era nato dal suo mettersi a disposizione di ciò che Dio – l’aveva a lungo avvertito interiormente – voleva realizzare attraverso di lui, interamente donato a Dio diventando sacerdote. A cent’anni dalla sua ordinazione, il 28 marzo 1925 nella chiesa di San Carlo a Saragozza, la celebrazione ufficiale è tutta in pochi appuntamenti significativi: un evento accademico all’Università e una Messa nella città spagnola dominata dal santuario mariano del Pilar (dove celebrò la prima Messa il 30 marzo), con l’incontro del prelato monsignor Fernando Ocáriz con giovani e famiglie, e una celebrazione liturgica a Roma nella basilica di Sant’Apollinare presieduta dal vicario ausiliare monsignor Mariano Fazio.

Un’agenda sobria, che rimanda alla sconfinata riflessione di Escrivá sulla figura, la missione, la responsabilità del sacerdote (sul sito istituzionale un’ampia proposta di contenuti) come “custode” e amministratore dei doni sacramentali, dalla celebrazione della Messa alla confessione. Ne è un segno tangibile il modo in cui san Josemaría celebrava la Messa (ed esortava a farlo), con raccoglimento assoluto e vera commozione, sempre come se fosse la prima e l’ultima volta, insegnando ad attualizzare ogni volta la redenzione (perché «il sacerdote – chiunque egli sia – è sempre un altro Cristo») attraverso il modo stesso in cui ci si accosta all’altare, si “vive” la liturgia, si offre l’Eucaristia, sapendo che è anche del modo in cui il Signore viene reso presente dai sacerdoti che si nutre la fede della gente: «Dobbiamo stare in Cielo e sulla terra, sempre – disse nel 1975 per il cinquantesimo di ordinazione, tre mesi prima di morire –. Non fra il Cielo e la terra, perché siamo del mondo. Nel mondo e in Paradiso allo stesso tempo (...), immersi in Dio ma sapendo che siamo del mondo e che siamo terra, con la fragilità della terra: un recipiente d’argilla che il Signore si è degnato di utilizzare al suo servizio».

Una visione che si è impressa nella Società sacerdotale della Santa Croce, che Escrivà fondò nel 1943 pensando a una «associazione di chierici» per «aiutare i sacerdoti secolari a cercare la santità nell’esercizio del loro ministero al servizio della Chiesa, secondo lo spirito e la prassi ascetica dell’Opus Dei», come si legge nel suo nuovo sito. Diffidando dai cristiani “con la faccia lunga”, Escrivà considerava indispensabile la virtù della gioia come segno e frutto di un cammino di fede vissuto da figli di Dio: «Voglio che tu sia sempre contento, perché la gioia è parte integrante del tuo cammino». Ed è alla gioia che Ocáriz ha dedicato la sua recente lettera pastorale: «La fede tende a esprimersi, con parole o senza parole, nella preghiera e, con la preghiera, giunge la gioia, perché – qui il prelato cita Escrivà – “quando il cristiano vive di fede (una fede che non sia solo parole ma realtà di orazione personale), la certezza dell’amore divino si manifesta nell’allegria, nella libertà interiore”».

?Ecco la preghiera per chiedere grazie attraverso l'intercessione di san Josemaría

"O Dio, che per mediazione di Maria Santissima concedesti a san Josemaría, sacerdote, innumerevoli grazie, scegliendolo come strumento fedelissimo per fondare l'Opus Dei, cammino di santificazione nel lavoro professionale e nell'adempimento dei doveri ordinari del cristiano, fa' che anch'io sappia trasformare tutti i momenti e le circostanze della mia vita in occasioni per amarti e per servire con gioia e semplicità la Chiesa, il Romano Pontefice e tutte le anime, illuminando i cammini della terra con la fiamma della fede e dell'amore. Concedimi, per intercessione di san Josemaría, la grazia che ti chiedo:… (si chieda). Amen".

Padre nostro, Ave Maria, Gloria.







Venerdì, 28 Marzo 2025





Venerdì, 28 Marzo 2025

Sarà il fine settimana della misericordia e del perdono. Non solo per questa Quaresima, ma anche nell’ambito del Giubileo. Prima «24 ore per il Signore», iniziativa quaresimale di preghiera e riconciliazione voluta da papa Francesco, che come per le edizioni precedenti, si svolge alla vigilia della IV Domenica di Quaresima, fra oggi e domani, non solo a Roma ma in tutte le comunità del mondo. Quindi l’evento giubilare dei sacerdoti istituiti “Missionari della misericordia”, secondo il programma che illustriamo più ampiamente a parte, in questa stessa pagina.

«Speranza a misericordia si richiamano a vicenda – sottolinea l’arcivescovo Rino Fisichella, pro prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione, sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo, da cui dipende non solo l’organizzazione dell’Anno Santo, ma anche quella di questi due eventi – e sono una grande opportunità pastorale per la Chiesa e spirituale per gli uomini di oggi». Con lui facciamo anche il punto della situazione a tre mesi dall’inizio del Giubileo della speranza, che sta vendendo un grande afflusso di pellegrini, già quattro milioni e mezzo.

Il riferimento ai missionari della misericordia e a “24 Ore per il Signore” è anche un ponte con il precedente Giubileo straordinario voluto da Francesco?

«Il Papa nella Bolla di indizione “Spes non confundit” fa riferimento esplicito ai missionari della misericordia e nel testo parla dell’importanza che affida al loro ministero anche durante questo Giubileo. È un segno di grande attenzione nei confronti di questo privilegiato gruppo di sacerdoti che sparsi per il mondo hanno il compito di rendere tangibile la misericordia di Dio attraverso il perdono. E questo vale in modo particolare per il Giubileo che si caratterizza per l’indulgenza, cioè il segno del grande, totale perdono che viene concesso ai pellegrini».

Qual è la specificità dei missionari della misericordia?

Il Papa concede loro le facoltà che lui possiede di rimettere i peccati riservati direttamente alla Sede Apostolica. E quindi già questa prima condizione manifesta l’attenzione del Papa nei confronti di quanti sono alla ricerca del perdono e hanno il cuore aperto a ricevere la grazia di Dio e a riconciliarsi di nuovo con il Signore nonostante che, quei cinque peccati (profanazione dell’Eucaristia, assoluzione del complice, ordinazione episcopale di un vescovo senza il mandato del Papa, violazione del sigillo sacramentale, cioè far trapelare quanto ascoltato in confessione, e infine la violenza fisica contro il Pontefice, ndr) siano di una autentica gravità per la vita personale e per la vita della comunità cristiana. Ma non è solo questo il compito e il ministero, dei missionari. I quali hanno anche il compito di rendere vivo il volto della misericordia e quindi sono chiamati a essere animatori dei ritiri, a svolgere un’opera di formazione nei confronti dei sacerdoti, e a predicare. Quindi tutta un’attività complementare con quella del sacramento della Riconciliazione che vuole manifestare quanto la Chiesa sia madre di misericordia».

Visto che siamo nell’anno giubilare, le “24 ore per il Signore” avranno una loro peculiarità?

«Avevamo pensato in effetti ad un’iniziativa particolare con la presenza del Santo Padre, a cui ovviamente abbiamo dovuto rinunciare per rispettare la sua convalescenza. Ma resta l’invito che abbiamo rivolto a tutte le comunità ecclesiali del mondo di dare voce al motto di questa XII edizione di 24 Ore per il Signore: “Tu sei la mia speranza”. Il tema della speranza viene così inserito anche all’interno di questa celebrazione, che è una grande opportunità offerta in vista della quarta Domenica di Quaresima, dedicata a esprimere la misericordia e il perdono. Quindi ci auguriamo che l’iniziativa venga vissuta ancora di più da chi l’ha già sperimentata in passato e che sempre più comunità ecclesiali possano aprirsi a questa opportunità pastorale».

Quale bilancio possiamo trarre delle undici precedenti edizioni di “24 Ore per il Signore”?

«Ho notato che se qualche anno fa ancora si stentava a sapere in che cosa consistesse veramente l’iniziativa, adesso quando se ne parla, soprattutto con i vescovi che vengono in visita ad Limina, c’è conoscenza e apprezzamento. Dunque l’esperienza pastorale ha preso piede. Ma ha bisogno di diffondersi ancora perché, ribadisco, è un’opportunità da offrire a tante persone che in questo periodo sono alla ricerca di una vera spiritualità. E dove trovarla se non nell’incontro con il Signore che ti accoglie e ti perdona? C’è poi un’altra dimensione che sta crescendo in maniera veramente significativa: le richieste dei vescovi per avere dei missionari della misericordia. Soprattutto quest’anno tanti vescovi ci hanno chiesto missionari della misericordia tra i loro sacerdoti. È il frutto non solo dell’Anno giubilare, ma anche il risultato della predicazione del Santo Padre circa il sacramento della riconciliazione che diventa sempre più significativo nella vita della Chiesa».

La convalescenza del Papa, che non potrà essere presente a molte celebrazioni giubilari, come cambia il programma?

«La malattia del Santo Padre ha colpito tutti noi e siamo felici del suo ritorno a casa. Ma per quanto riguarda il programma nulla si è modificato. Posso assicurare che il Papa non solo ha deciso come dovevano essere portati avanti gli eventi giubilari, ma non ha fatto mai mancare la sua riflessione, la sua omelia. E questo credo che sia veramente importante. Domani noi avremmo dovuto avere l’incontro con lui dei missionari della Misericordia. Abbiamo pensato di andare alla grotta di Lourdes nei Giardini Vaticani e recitare il Rosario per il Papa. E già il 19 febbraio aveva pensato al messaggio da mandare ai missionari della Misericordia. Messaggio che io stesso leggerò al termine del Rosario».

Come procede l’afflusso dei pellegrini? Il cardinale Gambetti qualche giorno fa diceva che non ha notato flessioni.

«Confermo. I pellegrini non solo non sono diminuiti, ma aumentano. E ormai abbiamo, abbiamo superato i quattro milioni e mezzo di presenze a Roma. Questo è al momento il numero dei pellegrini che hanno già attraversato le Porte Sante delle quattro basiliche. Quindi devo dire che sono numeri quanto mai significativi. E aggiungo che le iscrizioni che abbiamo, sono continuamente in aumento».

Il programma del Giubileo dei Missionari della misericordia e delle «24 ore per il Signore»

Da oggi a domenica a Roma si terrà il sesto dei grandi eventi giubilari, quello riservato ai Missionari della misericordia. I partecipanti provengono da Paesi di tutti i continenti. Papa Francesco, che non potrà essere presente al Giubileo, invierà un suo messaggio scritto.

Il numero dei Missionari della misericordia, figura creata dal Papa nel 2015, è in costante aumento e oggi si contano, in tutto il mondo, 1258 sacerdoti istituiti. Ai Missionari è stata data la facoltà peculiare di perdonare anche i peccati che sono riservati alla Sede Apostolica.

Il Giubileo si aprirà oggi alle 10 con un momento di preghiera in Aula Paolo VI che aprirà il quarto Incontro mondiale dei Missionari. Il convegno internazionale a cura del Dicastero per l’Evangelizzazione, che si svolge ogni due anni, per questa edizione avrà come tema centrale «Il perdono come fonte di Speranza». Due le sessioni previste: la prima, di carattere teologico, sarà introdotta dall’arcivescovo Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione, mentre nella seconda sessione saranno proposte ai partecipanti alcune linee guida per la pastorale.

L’incontro continuerà alle 16 con la celebrazione della XII edizione della «24 Ore per il Signore» nella Basilica di Sant’Andrea della Valle, riservata ai Missionari. L’iniziativa quaresimale si celebrerà anche in tutte le diocesi del mondo, con il motto «Sei tu la mia speranza» (Sal 71,5). Sul sito del Dicastero per l’evangelizzazione è disponibile il sussidio per la celebrazione comunitaria delle «24 ore per il Signore» nelle comunità locali.

Domani mattina i Missionari vivranno il loro pellegrinaggio alla Porta Santa della Basilica di San Pietro. Si ritroveranno poi per la preghiera del Rosario presso la Grotta di Lourdes nei Giardini Vaticani.

L’evento giubilare si concluderà domenica con la celebrazione della Messa, presieduta da Fisichella, nella Basilica di Sant’Andrea della Valle alle 10.

Nel pomeriggio di domenica, infine, si terrà il quinto dei Concerti dell’Anno Santo per la Rassegna «Il Giubileo è cultura»: il concerto sinfonico gratuito «Missa Papae Francisci» in memoria di Ennio Morricone, eseguito dall’Orchestra Roma Sinfonietta, insieme al Nuovo Coro Lirico Sinfonico Romano e il Coro “Claudio Casini” dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata. L’esibizione, diretta dal Maestro Gabriele Bonolis, si terrà alle 16 presso la Chiesa dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso.





Giovedì, 27 Marzo 2025

Un uomo solo in una piazza deserta. Quell’uomo è vestito di bianco e sale sotto la pioggia i gradoni del sagrato più famoso del mondo. Una collinetta, quasi un Golgota, sul quale, infatti, c’è un Crocifisso e poco distante l’immagine di Maria. Intorno c’è un silenzio quasi irreale, rotto solamente dalle sirene delle ambulanze in lontananza. Mentre negli occhi di chi osserva, in televisione, scorrono le immagini tragiche dei camion militari carichi di bare.

È questa la fotografia che resta scolpita nei cuori e nella memoria di tutti di quel 27 marzo 2020, uno dei momenti più drammatici della pandemia da Covid, che l’Oms aveva dichiarato sedici giorni prima. La fotografia di un Papa, Francesco, solo ma non isolato dal mondo, anzi sostenuto dalla preghiera dei fedeli e non, che di quella preghiera nella Statio Orbis si fa primo interprete e, nel senso letterale del termine, pontefice. Sono passati cinque anni, la pandemia, grazie al Cielo, agli studi scientifici e ai vaccini, è alle spalle, ma quella immagine resta indelebile e va ricordata. È stata e sempre sarà uno dei momenti più iconici del pontificato di papa Bergoglio. Insieme con le parole pronunciate quel giorno dal Papa davanti al Crocifisso di San Marcello al Corso (miracoloso contro la peste nel 1522), dove egli stesso si era recato a pregare il 15 marzo, e alla Salus Populi Romani, l’icona mariana custodita a Santa Maria Maggiore, così cara al suo cuore, come abbiamo visto anche domenica scorsa, all’uscita dal Policlinico Gemelli dopo 38 giorni di degenza. Qualche minuto prima era stato proclamato il brano evangelico della tempesta sedata da Gesù risvegliato dagli apostoli impauriti mentre dorme nella barca.

«Da settimane sembra che sia scesa la sera – disse Francesco quel giorno –. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti».

È il momento di fare autocritica, sottolineò in sostanza il Papa. «Siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto». «Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, Signore, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”. 'Perché avete paura? Non avete ancora fede?'. Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te».
Ma è anche il momento di fare delle scelte, ammonì Francesco. «In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, "ritornate a me con tutto il cuore". Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni».

Parole che risuonano più che mai attuali oggi. Perché, se la pandemia da Covid è passata, un’altra e più spaventosa crisi pandemica, ammorba il mondo da qualche tempo. Quella della guerra divampata prima in Ucraina, poi a Gaza e in tante altre parti del mondo, che il Papa non si stanca di ricordare, chiedendo pace per tutti. Purtroppo, in questo caso, nessuno è ancora riuscito a inventare un vaccino che inibisca all’uso delle armi. E anche oggi, dopo cinque anni, è il tempo delle scelte. «Il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri», come disse quel giorno Papa Francesco sotto la pioggia, nel momento dell’adorazione e impartendo la benedizione Urbi et Orbi. Perché «non siamo autosufficienti, da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle».





Mercoledì, 26 Marzo 2025

Un gesto «chiaro, forte e concreto; un importante passo avanti in un percorso comune di consapevolezza che darà certamente speranza a tutte le vittime di abusi»: così Laura Sgrò, avvocata di cinque donne che hanno denunciato di aver subito abusi da parte dell’ex gesuita Marko Rupnik, ha definito la lettera inviata alle vittime da parte della Compagnia di Gesù, nella persona del delegato del Generale, padre Johan Verschueren.

In particolare nella missiva, recapitata non solo alle cinque vittime rappresentate dalla Sgrò ma anche ad altre possibili vittime dell’ex religioso - per un totale di venti persone -, la Compagnia dichiara di non sentirsi «a suo agio» per l’attuale situazione, consapevole che «alle violenze subite allora, si è aggiunta la sofferenza per la mancanza di ascolto e di giustizia per lunghi anni». I Gesuiti esprimono anche alle vittime di Rupnik «fiducia che un processo di guarigione e di riconciliazione interiore sia possibile, a condizione che ci sia anche da parte nostra un percorso di verità e di riconoscimento». Padre Verschueren, che si è occupato, assieme al team referente di questo dossier, ha espresso alle vittime il sentimento «di sorpresa, di dolore e di amarezza nell’assumerci non solo il peso e la fatica della violenza dei comportamenti di un ex-confratello, ma anche della cecità, dei silenzi, dei rifiuti ad ascoltare o ad agire da parte di altri confratelli». Nella lettera i gesuiti chiedono alle vittime di farsi avanti per dire di cosa hanno bisogno ora e come la Compagnia può andare al loro incontro. Non si tratta, quindi percorsi precostituiti ma di processi individuali da costruire assieme a ognuna delle vittime, un impegno che servirà per prevenire ogni forma di abuso in seno alla comunità dei gesuiti, come fanno sapere ad Avvenire dalla Compagnia.

I gesuiti, secondo il contenuto della lettera del Delegato riportato ieri dalle agenzie di stampa, avevano «offerto a Marko Rupnik la possibilità di farsi carico pubblicamente delle sue azioni, di pentirsi, di chiedere perdono e di cominciare un percorso di purificazione e di terapia. A seguito del suo pervicace rifiuto a sottomettersi a questa possibilità, il padre generale ha preso la decisione di dimetterlo».

Il processo a Rupnik vede conclusa la fase istruttoria e ora, ha fatto sapere nei giorni scorsi il prefetto del Dicastero per la Dottrina della fede, il cardinale Victor Manuel Fernández, si stanno «cercando i giudici che devono avere certe caratteristiche essendo un caso così mediatico». Giudici, che, a detta dello stesso porporato, saranno «persone esterne al Dicastero». Secondo quanto riportato ancora dalle agenzie, Fernandez avrebbe fatto intendere che alcuni profili sono stati individuati e si attende ora la disponibilità di questi possibili giudici, ma «poi i tempi dipenderanno da loro».

«Ringraziamo sentitamente padre Johan Verschueren e la Compagnia di Gesù – afferma l’avvocata Sgrò – che, con grande coraggio e umiltà, riconoscendo gli errori sin qui commessi, hanno finalmente accolto e abbracciato le vittime di Marko Rupnik, offrendo loro il sostegno che finora era mancato. È improrogabile, a questo punto – aggiunge la legale –, che il Dicastero per la Dottrina della fede processi quanto prima Marko Rupnik, restituendo dignità alle vittime. Adesso non si può proprio più indugiare, si deve solo fare giustizia».





Mercoledì, 26 Marzo 2025

A un mese dalla canonizzazione di Carlo Acutis, su internet sono state messe in vendita alcune reliquie attribuite al beato. In particolare, un annuncio “ex capillis con certificato” nei giorni scorsi ha raggiunto all’asta un valore di 2.110 euro, con 17 offerte. A confermare la notizia è il vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, Domenico Sorrentino, che ieri, appresa e accertata la compravendita di reliquie, ha immediatamente chiamato la Polizia per sporgere denuncia contro ignoti. Sul caso sta indagando la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone.

Al momento, l’annuncio che offriva all’asta i capelli di Carlo Acutis non si trova più online. «Ne abbiamo chiesto il sequestro», commenta Sorrentino. Che assicura che nessuna reliquia è stata mai affidata a privati e che, per ora, a causa dell’anonimato di chi ha avviato le aste online (sui siti compaiono solo alcuni nickname), nessun nome può essere iscritto nel registro degli indagati. «Non sappiamo se le reliquie siano vere o false – aggiunge il vescovo – ma se fosse anche tutto inventato, se ci fosse l’inganno, saremmo in presenza, oltre che di una truffa, anche di una ingiuria al sentimento religioso».

Dopo le verifiche di ieri, il vescovo ha assicurato che le reliquie all’asta non appartenevano solo a Carlo Acutis, ma anche ad altri santi legati all’Umbria. «Su internet – spiega il presule – c’è un mercatino di reliquie che riguarda vari santi, come il nostro Francesco, con tanto di prezziario. Una cosa impossibile da accettare». Quelle del beato milanese – il cui corpo è custodito proprio ad Assisi, nel Santuario della Spogliazione – erano, però, le reliquie più richieste, forse anche a causa dell’imminente canonizzazione, prevista per domenica 27 aprile a Roma in occasione del Giubileo degli adolescenti.

Il corpo di Carlo Acutis fu donato dalla famiglia alla diocesi di Assisi oltre quindici anni fa e – commenta ancora Sorrentino – «le reliquie vengono date attraverso i vescovi gratuitamente. Al massimo si fanno offerte al santuario dal quale provengono. È una prassi che risale ai primi secoli della nostra storia».

La dura reazione del presule è giustificata dalla severità con cui la Chiesa oggi proibisce il commercio delle reliquie, vietato dal canone 1190 del Codice di diritto canonico. Nel dicembre 2017, poi, la Congregazione delle cause dei santi, con l’Istruzione dal titolo «Le reliquie nella Chiesa», ha introdotto nuove regole per la custodia, il trasporto e l’autentificazione delle reliquie che ribadiscono come siano «assolutamente proibiti il commercio e la vendita delle reliquie, nonché la loro esposizione in luoghi profani o non autorizzati». Anche su internet.





Mercoledì, 26 Marzo 2025

È morto oggi a Ostuni, all'età di 100 anni, Settimio Todisco: era il vescovo più anziano d'Italia.

Nato a Brindisi il 10 maggio 1924, aveva studiato presso il seminario diocesano di Ostuni e poi nel Pontificio Seminario Regionale Pugliese "Pio XI" di Molfetta. Era stato ordinato sacerdote il 27 luglio 1947, nella cattedrale di Ostuni, dall'arcivescovo metropolita di Brindisi Francesco De Filippis.

Il suo ministero sacerdotale era iniziato come coadiutore nella parrocchia della cattedrale di Ostuni. Allo stesso tempo era stato anche docente e vice rettore nel seminario di Ostuni, oltre a insegnante di religione al Ginnasio.

Tornò a Brindisi nel 1950, dopo la nomina a rettore del seminario. In quegli anni collaborava anche con la Fuci e l'Istituto Magistrale di Brindisi.

Fu poi l'arcivescovo Nicola Margiotta, nel giugno 1957, a richiamarlo a Ostuni nominandolo canonico teologo, prefetto di curia, delegato vescovile per l'Azione Cattolica e assistente del Movimento Laureati. Cinque anni dopo era vicario generale e nel 1963 fu insignito del titolo di protonotario apostolico. Seguirono gli incarichi di arciprete del capitolo cattedrale, insegnante di religione nel Liceo classico e membro della Consulta dell'Istituto pastorale pugliese.

Il 15 dicembre 1969 venne scelto come amministratore apostolico delle diocesi di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi, ricevendo la nomina a vescovo titolare di Bigastro. Due mesi dopo, il 15 febbraio 1970, fu ordinato ordinato vescovo nella cattedrale di Ostuni dal cardinale Corrado Ursi.

Il 24 maggio 1975 venne poi nominato arcivescovo di Brindisi e, durante il suo episcopato, la diocesi viene unita a quella di Ostuni. Il 5 febbraio 2000, per raggiunti limiti di età, rassegnò le dimissioni. Dal 16 luglio 2023 era il vescovo italiano più anziano.

Carica di affetto è la nota della Conferenza episcopale pugliese (Cep) diramata oggi per la scomparsa di Todisco. «I vescovi pugliesi lo ricordano come un pastore esemplare - si legge nel testo - che ha saputo testimoniare con dedizione e umiltà il Vangelo, contribuendo in modo significativo alla crescita spirituale e sociale del territorio pugliese».

La salma di monsignor Todisco è stata composta presso la chiesa di Villa Specchia, dove resterà fino alle 10 di venerdì. Successivamente, verrà traslata nella Concattedrale di Ostuni, dove alle 15.30 si svolgeranno i funerali.





Mercoledì, 26 Marzo 2025

La comunicazione non si improvvisa. Soprattutto se si vuole diventare content creator e social media ambassador delle iniziative della Chiesa cattolica. Il progetto #ShinetoShare, lanciato dai Servizi nazionali per la pastorale giovanile e per la promozione del sostegno economico, offre ai giovani, dai 18 ai 35 anni, che vogliono creare contenuti digitali di qualità la possibilità di acquisire – con un corso online e uno residenziale - competenze nell’ambito comunicativo, della produzione, dell’uso delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale. A usufruirne saranno i cento finalisti del contest, selezionati tra quanti, entro il 6 aprile, caricheranno sul sito del concorso un video di 40/60 secondi che racconti un evento o un’esperienza di fede e servizio vissuta in oratorio, in parrocchia o in un’associazione cattolica.

Se l’indemoniato di Geràsa, guarito da Gesù, fosse un giovane di oggi, probabilmente sfrutterebbe le potenzialità di un video e dei social per dare seguito alla consegna ricevuta: «Va’ e racconta quello che il Signore ti ha fatto».

Il racconto, del resto, ha sempre avuto un ruolo chiave nella trasmissione della fede, a partire dal narrare la fecondità dell’incontro personale con il Signore della vita che ha generato un’esistenza rinnovata.

Questa narrazione oggi si esprime in modo particolare nei social media, dove i giovani danno voce al loro desiderio di relazione: «Il video è diventato uno strumento privilegiato per raccontarsi: è immediato, autentico, coinvolgente - nota don Luca Fossati, collaboratore dell’Ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Milano -. Raccontarsi in video non è solo esibizione, ma spesso ricerca di senso, desiderio di essere ascoltati, riconosciuti, accolti. Anche sui social, dove l’apparenza sembra dominare, tanti giovani provano a condividere qualcosa di vero, di profondo come esperienze, domande, ferite e sogni».

Il progetto #ShinetoShare per diventare content creator della Chiesa cattolica chiede di raccontare il bene e la fede che attraversa le proprie esistenze: «Un po’ come quando ci innamoriamo o viviamo un momento imperdibile ed esclusivo e non vediamo l’ora di dirlo a tutti - spiega don Diego Goso, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali di Ventimiglia-Sanremo -. Se una cosa ci fa stare bene, vogliamo che anche altri lo sappiano».

La brevità dei video che possono partecipare al concorso Cei, dai 40 ai 60 secondi, non deve però ingannare. Perché la qualità di un messaggio non si misura dalla durata, ma dalla sua profondità. E dalla libertà «di esprimere senza filtri i propri desideri di futuro - commenta suor Naike Monique Borgo, dell’Ufficio stampa della diocesi di Vicenza -. Sui social i giovani trovano la possibilità di essere protagonisti, sono loro a dettare tendenze e a poter insegnare, senza adulti che li guardano top-down».

Occorrono adulti, infatti, che diano spazio e che accompagnino a leggere le domande di senso. Come a Bologna, dove l’Ufficio comunicazioni sociali ha intrapreso un percorso formativo con diversi universitari in tirocinio: «Non conoscono più il linguaggio della Chiesa - osserva Alessandro Rondoni, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali di Bologna - ma sono aperti, curiosi e non hanno pregiudizi. Sono innamorati della parola artistica in poesia e in canzone. Hanno bisogno di incontrare un adulto che accenda il loro entusiasmo». Anche i liceali del Segrè di San Cipriano d’Aversa hanno avuto l’opportunità di confrontarsi sulle potenzialità di social e video «per mettere a tema la custodia del Creato, l’inquinamento ambientale e il desiderio di ritornare a prendersi cura del territorio, così da essere protagonisti nel riscatto e diffondere speranza», racconta don Francesco Riccio, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali di Aversa.

Una condivisione di esperienze che grazie alla Rete può raggiungere anche chi non è coinvolto in percorsi ecclesiali: «I social media possono diventare un luogo di incontro reale, dove il Vangelo viene annunciato con lo stile di Gesù attraverso la relazione e il racconto di esperienze concrete» dice don Domenico Bruno, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali di Trani-Barletta-Bisceglie, che qualche anno fa ha lanciato l’iniziativa Annunciate dai tetti. «Lo storytelling pastorale diventa una forma di catechesi incarnata - continua don Bruno -. Non si tratta solo di trasmettere contenuti dottrinali, ma di condividere storie che parlano della presenza viva di Cristo nella vita quotidiana».

Certo, aggiunge don Fossati, «raccontare il bene non è autocelebrazione, ma testimonianza: è dire che il bene esiste, che vale la pena cercarlo, che anche oggi si può vivere per qualcosa di più grande. I giovani che lo fanno, spesso in modo spontaneo, diventano così testimoni digitali: non perfetti, ma veri. Questa è già una rivoluzione».

E così l’esperienza di ciascuno, sottolinea don Goso, «può diventare la scintilla necessaria a qualcun altro per intraprendere il proprio cammino, per trovare risposte, per non sentirsi solo».





Mercoledì, 26 Marzo 2025

Videtur quod sembra che, è l’inizio della quaestio nella Summa Theologiae di san Tommaso: si comincia con una serie di obiezioni o argomenti contrari alla tesi da commentare teologicamente. Per approfondire – ed eccitare – il dibattito sulla proposta di “teologia rapida” di padre Antonio Spadaro, metto volentieri a fuoco alcune possibili obiezioni critiche, in parte già latenti negli articoli di chi è intervenuto sulle pagine di Avvenire, avvertendo sui “rischi” della superficialità e dell’effimero e, dunque, della mancanza di profondità riflessiva.

La rapidità nella risposta potrebbe compromettere la qualità e la complessità delle analisi teologiche, garantite invece dalla teologia scientifica che procede per metodo con uno studio approfondito e lento. Rispondere rapidamente sembrerebbe indurre a errori o a interpretazioni affrettate, mettendo a rischio la precisione teologica e la coerenza dottrinale. La “fatica del concetto” (Hegel) è propria di una teologia che sa trascendere le pressioni del tempo contemporaneo, fornendo risposte “alla prova del tempo”. Una teologia rapida sembrerebbe allora troppo contingente e non duratura, portando a risposte inadeguate o incomplete, senza un’attenta considerazione del contesto storico, culturale e scritturale. La teologia rapida sembrerebbe allora reattiva piuttosto che proattiva, rispondendo solo alle domande emergenti, senza anticipare o guidare riflessioni future.

Padre Spadaro è sicuramente in grado di istruire tutti sui Sed contra con i doverosi Respondeo ad primum, ad secundum, etc., ma credo si sia preventivamente immunizzato da critiche del genere con la spiegazione del significato dell’aggettivo “rapida” per qualificare questa teologia di cui necessitiamo oggi, hic et nunc (espressione latina che indica l’impossibilità di ritardare l’attuazione). Così è scritto: «“Rapidus” è invece non ciò che corre, ma ciò che rapisce, trascina, travolge. Ed è pure capace di coinvolgere atteggiamenti, stili di vita, comprensioni della realtà, della politica». Da qui, l’incoraggiamento ad avere il coraggio di affrontare le paure e di adattarsi alle nuove realtà, attraversando il “mare” delle sfide contemporanee, specialmente quelle dei nuovi linguaggi. La teologia a venire dovrà cercare e trovare nuovi modi di esprimere la fede, utilizzando strumenti moderni per comunicare in modo efficace. Sarà viva e aperta, senza essere intrappolata in gabbie culturali che impediscono di intercettare nuove domande e bisogni, dialogando con le conquiste della scienza (si pensi agli sviluppi della meccanica quantistica) e le nuove visioni del mondo, evitando sia il concordismo che lo spirito apologetico.

I dispositivi tecnologici hanno cambiato il modo di pensare e anche l’esercizio critico della ragione. Molto più di un tempo, tutto è sospettato e messo in discussione, criticato e gettato via per un nonnulla. Un’ora di catechismo, qualora fosse fatta bene, serve a poco nella comunicazione della fede. I suoi contenuti vengono spazzati via da un minuto di televisione o da trenta secondi di tablet. Si tratta allora di trasformare il modo di porgere e di comunicare, investendo di più nel ragionamento convincente (il logos di sempre), sapendo però che la via migliore non è solo quella “concettuale” del pensiero cogitante, ma anche quella dell’emozione e dell’intuizione e del simbolo: l’intelligenza umana è anche emotiva, potentemente simbolica e creativamente immaginativa.

Così la proposta di una teologia rapida è piuttosto quella di un “teologare rapido”, di un pensare rapidamente, in grado di rispondere prontamente alle domande e ai bisogni emergenti “senza lamentarsi della mancanza di tempo per riflettere o pianificare”. Si tratta allora di educare l’intuito teologico di ogni credente per una fede adulta anche perché pensata, in linea con la tradizione di un Agostino – con fides nisi cogitaturnulla est (la fede che non si pensa è nulla) – o di un Anselmo d’Aosta – con fides quaerens intellectum –, ma anche con i vescovi italiani che si inventarono anni orsono il Progetto culturale della Chiesa italiana, per avviare un processo di formazione teologica della coscienza credente di tutti, perché ciascuno fosse abilitato a un “teologare rapido” ovvero, alla «capacità di avvertire, discernere e valutare con rapidità una situazione nel suo divenire», come sostiene Spadaro riferendosi alla “memoria ecclesiale” che dovrebbe tramutare l’istinto in intuito (teologico).

Sic stantibus rebus, la sfida posta da Spadaro alla teologia accademica, con la sua necessaria lentezza, è quello di un impegno educativo ad ampio raggio che porti il ricercatore-professore di teologia a trasformarsi finalmente in un vero evangelizzatore, coltivando quella “teologia sapienziale” invocata da papa Francesco in Ad Theologiam promovendam che ne esalta il “timbro pastorale”, privilegiando il sapere del senso comune della gente come “luogo teologico”: così «la teologia si pone al servizio della evangelizzazione della Chiesa e della trasmissione della fede, perché la fede diventi cultura, cioè ethos sapiente del popolo di Dio, proposta di bellezza umana e umanizzante per tutti». Nella Prefazione a Ripensare il pensiero, papa Francesco ha insistito sulla necessità di una “teologia incarnata” che corrisponda a una fede come “sapienza spirituale”: «Abbiamo bisogno di recuperare la via di una teologia incarnata, che non nasce da idee astratte concepite a tavolino, ma sgorga dai travagli della storia concreta, dalla vita dei popoli, dai simboli delle culture, dalle domande nascoste e dal grido che si leva dalla carne sofferente dei poveri. Una teologia generata da Dio, che porta annunci di liberazione al mondo; […] una teologia che da “sapere accademico” diventa “sapore del cuore”, per suscitare divine inquietudini e incoraggiare il desiderio umano ad affacciarsi ai bordi del Mistero di Dio».

La teologia sapienziale è la via maestra del “teologare rapido” proposto da Spadaro. È quanto si sta progettando con la Pop-Theology che, attraverso i “Cenacoli teologici”, è impegnata ad aiutare i credenti a un “pensiero teologico rapido”.

E a chi paventa la superficialità o il carattere effimero del tentativo, si ammetterà che è certo un “rischio”, ma sarà meglio dell’assoluta inutilità a cui si auto relega la ricerca della teologia accademica, secondo Lonergan, il teologo che ha scoperto, da scienziato, il “metodo trascendentale” e lo ha applicato alla teologia. Nel Manifesto in 10 punti della Pop-Theology, intesa come “carità intellettuale a servizio della gioia del Vangelo”, c’è infatti scritto al n. 4: la «Pop-Theology occupa lo spazio dell’ottava specializzazione funzionale del metodo trascendentale di Bernard Lonergan, la comunicazione: è lo spazio senza il quale tutto il lavoro dei teologi di professione è praticamente inutile».

C’è bisogno di osare di più. Il teologo è un esploratore: abita spesso sentieri impervi e sale talvolta su tetti insicuri. Vale però la pena correre tutti i rischi e non disertare la propria missione per pavidità, peggio per pigrizia. Osando con coraggio e senza timore – come chiede Spadaro con la sua proposta –, il teologo si assume la grande responsabilità etica di ricercare scientificamente e di traslocare in un linguaggio accessibile a tutti i guadagni veritativi delle sue esplorazioni critiche, a servizio della Verità e dell’annuncio del Vangelo. Lo faccia subito, per “carità intellettuale” (A. Rosmini).

vescovo e presidente della Pontificia Accademia di Teologia






Mercoledì, 26 Marzo 2025

L’Anno Santo 2025, con il suo invito a farsi “pellegrini di speranza”, trova ospitalità alla Fondazione Sacra Famiglia, che – dal 1896 – è “Casa della speranza” per tanti bambini, adulti e anziani “fragili”. Così avviene, in virtù del decreto dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini che ha inserito la chiesa della sede storica della Fondazione, a Cesano Boscone (Milano), fra le “chiese giubilari” dell’arcidiocesi ambrosiana: e mentre gli altri luoghi di culto designati nelle sette Zone pastorali sono, tutti, santuari e basiliche, questo è l’unico collocato all’interno di una struttura dedicata alla cura e all’assistenza sanitaria e socio-sanitaria.

Ebbene: domenica 30 marzo, nella chiesa giubilare di Cesano Boscone, su iniziativa della Fondazione, si terrà il “Giubileo degli operatori sanitari e socio-sanitari” della Zona pastorale VI. Ma, ovviamente, nessuno è escluso (per partecipare gli organizzatori chiedono di iscriversi a https://bit.ly/giubileo-30-marzo). La celebrazione della Messa, presieduta dal vicario episcopale di Zona VI, don Marco Bove, avrà inizio alle 10,30 e sarà seguita da un momento di preghiera e condivisione.

«La Fondazione Sacra Famiglia, assiste ogni anno oltre quindicimila persone nelle sue ventidue sedi fra Lombardia, Piemonte e Liguria grazie al lavoro di duemila operatori. Accogliamo, assistiamo, curiamo e accompagniamo persone che soffrono di complesse o gravi disabilità e fragilità fisiche, psichiche e sociali. Non siamo un semplice “luogo di passaggio”, come può essere un ospedale che ti tiene per il tempo di una degenza magari breve: siamo un luogo di vita – abbiamo ospiti che stanno in Sacra Famiglia da 50 o 60 anni – dove persone fragili e non fragili camminano insieme e imparano, insieme, le cose della vita che contano davvero», spiega monsignor Bruno Marinoni, presidente della Fondazione oltre che vicario episcopale per gli Affari economici della diocesi di Milano. Essere “chiesa giubilare” è un riconoscimento della missione e vocazione della Sacra Famiglia, del suo radicamento nel territorio e nelle comunità, e nel contempo una responsabilità, sottolinea il presidente: «La speranza, il messaggio centrale di questo Anno Santo, in Sacra Famiglia si fa incontro nel cammino condiviso di persone fragili e non fragili. Insieme impariamo l’essenziale, cosa dà senso al presente, cosa apre al futuro. Che, per noi cristiani, è la porta al pieno compimento della nostra vita in comunione con Dio. Insieme viviamo segni di speranza che dicono la presenza di Dio fra noi».

Per tante persone fragili, il primo grande segno di speranza abita nella quotidiana dedizione degli operatori socio-sanitari e socio-assistenziali e dei volontari. «È il loro volto, è la loro presenza, ciò che le persone assistite e i loro familiari attendono, conoscono, apprezzano. Professionalità e competenze sono necessarie e vanno sempre coltivate, certo, ma il loro servizio va oltre l’esercizio di una prestazione per diventare accoglienza, cura, “presa in carico” di una persona, non solo di una patologia», sottolinea il presidente. La celebrazione giubilare di domenica 30 marzo si offre, dunque, «come occasione per rigenerare le motivazioni, le prospettive e lo spirito di quanti si dedicano alla cura degli altri, e per aiutarli, nella fatica, a rinnovare la speranza». La Messa delle 10,30 «è la nostra Messa ordinaria, animata ogni domenica dai nostri ospiti con disabilità. Che in questo modo vogliono dare il benvenuto e accogliere in questa loro casa, che è “casa della speranza”, gli operatori socio-sanitari della nostra zona pastorale».

Ci sono modi molteplici per vivere il Giubileo e ottenere l’indulgenza. Fra questi: compiere opere di misericordia. Com’è possibile fare in Sacra Famiglia. «Nella chiesa abbiamo allestito una mostra e un video che aiutano a conoscere meglio la nostra realtà – riprende Marinoni –. Articolati in un percorso, sono inoltre proposti i cinque “segni giubilari” suggeriti dalla Cei – il segno della croce con l’acqua santa, l’adorazione dell’Eucaristia, l’ascolto della Parola, la preghiera davanti al Crocifisso, il gesto di carità». Il pellegrinaggio giubilare alla Sacra Famiglia non si conclude infatti in chiesa. Ma chiama a “farsi prossimo”. Visitando persone fragili come gli ospiti di Sacra Famiglia. E «sostenendo una delle nostre strutture, intitolata a Santa Maria Bambina, l’unica della Fondazione dedicata a minori con disturbi gravi e gravissimi del comportamento, una realtà attiva nella sede di Cesano e che vorremmo rinnovare e ampliare», aggiunge il presidente.

Per essere accolti e accompagnati nella visita alla chiesa giubilare, ricorda ancora Marinoni, è possibile contattare per tempo i frati cappuccini e le suore che prestano servizio in Sacra Famiglia. Per tutti, ad aprire l’esperienza spirituale, un video – proiettato, come detto, nella chiesa – che presenta la Fondazione come “Casa della speranza”. E come scuola di quella “pazienza” che «non è un atto passivo, ma un impegno attivo, una virtù decisiva per fare spazio all’incontro con l’altro nell’accoglienza dei tempi e dei ritmi del più debole e del più fragile», scandisce Marinoni. Ma Sacra Famiglia è anche casa e scuola di preghiera. E quanto si è pregato per papa Francesco, che oggi lascia il Policlinico Gemelli per tornare a Santa Marta: «I nostri fragili lo hanno sentito e lo sentono particolarmente vicino. A me – perché prete, come se avessi un “filo diretto” – quante volte hanno chiesto: come sta? Quando esce? Sì, ci sentiamo in profonda sintonia con lui. E la nostra preghiera lo esprime».






Mercoledì, 26 Marzo 2025

Anche in Italia sono sempre di più gli uomini e le donne che si sottopongono a interventi chirurgici o ricorrono a infiltrazioni, pomate, medicine per migliorare il loro aspetto fisico e provare a fermare la corsa del tempo. La Chiesa cattolica come si pone di fronte a questa tendenza? E il cristiano può a sua volta cercare di trovare il modo per migliorare il suo aspetto fisico o deve accettarsi così com’è, in ossequio alla Scrittura che vuole l’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio? Sono le domande cui risponde il nuovo episodio del podcast Taccuino celeste, a partire dai documenti magisteriali e dall’insegnamento pubblico dei Papi. Tra gli spunti di approfondimento anche l’indubbio sfruttamento commerciale cui è sottoposto il corpo femminile e il dovere di distinguere tra la chirurgia “di bellezza” e gli interventi di ricostruzione di un organo danneggiato da un incidente o una malattia. La Cartolina da Camaldoli, curata dai monaci benedettini della comunità toscana affronta questo tema anche alla luce della testimonianza dei padri del deserto.

Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di cremazione sì o no?, della figura di san Giuseppe, del digiuno cristiano, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo.

Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it






Martedì, 25 Marzo 2025

I 220 ispettori e delegati salesiani riuniti nella storica casa madre di Valdocco a Torino per il 29° capitolo generale della congregazione, al termine di un intenso cammino di discernimento hanno eletto don Fabio Attard rettor maggiore per il sessennio 2025-2031, e in quanto tale undicesimo successore di san Giovanni Bosco. Con 66 anni d’età e 45 di vita salesiana, si tratta del primo maltese che ricopre questo ruolo (un altro maltese è l’attuale presidente della Confederazione mondiale degli ex-allievi e amici di Don Bosco, Bryan Magro, amico del nuovo rettore maggiore da oltre 40 anni).

Don Attard, come dettaglia l’agenzia di informazione salesiana InfoAns, è nato il 23 marzo 1959 a Gozo, Malta, ma è cresciuto a Victoria, dove ha frequentato le scuole primarie e secondarie pubbliche. La sua vocazione ha iniziato a prendere forma durante gli anni trascorsi al seminario maggiore di Gozo (1975-1978). Successivamente ha intrapreso l’aspirantato salesiano presso il Savio College di Dingli, Malta, per poi prepararsi al noviziato a Dublino. L’8 settembre 1980, ha fatto la professione religiosa a Maynooth, Irlanda.

Ha conseguito una laurea in Teologia presso l’Università Pontificia Salesiana e una licenza in Teologia morale presso la Pontificia Accademia Alfonsiana di Roma. Ordinato sacerdote il 4 luglio 1987, ha poi completato un dottorato di ricerca sul tema della coscienza nei sermoni anglicani di John Henry Newman presso il Milltown Institute for Philosophy and Theology.

Tra i vari incarichi ricoperti e le iniziative realizzate, negli anni ‘80 ha fatto parte del gruppo di salesiani che hanno avviato la nuova presenza della congregazione in Tunisia; ha rafforzato i programmi di volontariato missionario e consolidato l’istruzione tecnica e professionale attraverso iniziative come Don Bosco Tech Africa e Don Bosco Tech Asean, rappresentando i Salesiani in importanti forum internazionali; nel 2005 ha fondato e diretto l’Istituto di Formazione Pastorale a Malta; nel 2018 è stato nominato Consultore del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita.

Come rettor maggiore, don Fabio Attard guiderà una congregazione composta da 13.750 consacrati, organizzati in 92 ispettorie e presenti in 136 nazioni.

Uno dei primi a congratularsi con don Attard è stato il cardinale Ángel Fernández Artime, attualmente pro-prefetto del Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, che ha guidato la congregazione salesiana per oltre 10 anni, fino al 2024.






Martedì, 25 Marzo 2025

25 marzo, solennità dell'Annunciazione del Signore, quando nella città di Nazareth l’angelo del Signore diede l’annuncio a Maria: «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo» e Maria rispondendo disse: «Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola».

Scott Hahn, docente di teologia biblica alla Franciscan University di Steubenville, in Ohio, studioso di fama e divulgatore dal grande seguito nel cattolicesimo di lingua inglese e non solo, ricorda che «l'Annunciazione è uno di quei pochi misteri della vita di Gesù che molti cattolici celebrano ogni singolo giorno. Lo ricordiamo quando recitiamo l'Ave Maria, che è tratta dal racconto dell'evento in San Luca».

Continua Hahn, in un commento scritto per la festa di oggi sul settimanale dell’arcidiocesi di Los Angeles, che si chiama appunto Angelus: «Possiamo ricordarlo (il mistero dell’Annunciazione ndr) anche in una preghiera leggermente più lunga, l'Angelus, che i cattolici tradizionalmente recitano a mezzogiorno. Se non recitate già l'Angelus ogni giorno, pensate di provarci. Ci sono così tante buone ragioni per farlo».

Una ragione è questa: «Probabilmente è la spinta di cui avete bisogno a mezzogiorno. Pensateci. Ricordate la scena in cui Mosè era molto vecchio e Israele stava combattendo contro gli Amalechiti? Mosè osservava la battaglia da una collina lì vicino. “Ogni volta che Mosè alzava la mano” – in un gesto di umile preghiera – “Israele prevaleva; e ogni volta che abbassava la mano, prevaleva Amalek” (Esodo 17,11). A metà della battaglia, le braccia di Mosè si stancarono e iniziarono a cadere. Così suo fratello Aaronne e l'amico Hur lo affiancarono e sostennero le sue mani, in modo che fossero salde fino alla fine della battaglia. Israele fu, ovviamente, vittorioso».

«Noi che non abbiamo la grandezza di Mosè – dice Hahn – possiamo anche stancarci a metà delle nostre lotte quotidiane. Ecco perché preghiamo l'Angelus».

Angelus è l’inizio della preghiera nella sua versione latina, «Angelus Domini nuntiavit Mariae…», che risulta familiare ancora a tanti per via dell’Angelus recitato pubblicamente dal Papa alla domenica a mezzogiorno.

«I suoi versetti e le sue risposte sono scritturali – spiega sempre il biblista americano – tratti dalla storia del concepimento di Gesù, come raccontato nei Vangeli di Luca (1,26-28 e 1,38) e Giovanni (1,14). Così, nel punto di svolta delle nostre giornate, ricordiamo il punto di svolta della storia umana: il momento in cui un angelo apparve a una giovane donna di nome Maria e le raccontò il piano di Dio di inviare il Messia al mondo come suo figlio. Tutta la storia successiva, e tutta la creazione, si basarono sul suo consenso. I cristiani hanno sempre fatto una pausa per pregare all'ora di mezzogiorno. Nei tempi apostolici, era chiamata preghiera della “sesta ora”, contando dal sorgere del sole. San Pietro stava pregando le preghiere di mezzogiorno quando ricevette una rivelazione dal Signore (Atti 10,9). Fu anche all'ora sesta che Gesù fu crocifisso (Luca 23,44), con le braccia tese come quelle di Mosè, sopra un altro colle. Nella preghiera perseverò e prevalse, persino sulla morte. I primi cristiani ricordavano questi eventi e antecedenti biblici quando recitavano le consuete preghiere di mezzogiorno, che Tertulliano registrava già nel II secolo».

Conclude Hahn: «Se ci sentiamo deboli o stanchi a mezzogiorno, o irritabili con i nostri colleghi o familiari, se siamo scoraggiati perché le probabilità sono contro di noi, possiamo guardare a Maria e sapere che anche noi possiamo contare sull'aiuto degli angeli e sulla provvidenza di Dio, che ha un piano per noi. Come Mosè, possiamo rinnovare la nostra preghiera, con un aiuto soprannaturale, e testimoniare la vittoria di Dio nei nostri cuori per il resto della giornata».

Qui la preghiera dell’Angelus in italiano e in latino





Martedì, 25 Marzo 2025

L'impegno della Chiesa nella prevenzione degli abusi sui minori e sulle persone fragili «non è una coperta da stendere sulle emergenze, ma una delle fondamenta su cui edificare comunità fedeli al Vangelo». Il monito viene da papa Francesco, che oggi ha inviato un messaggio ai partecipanti all’Assemblea plenaria della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, in programma da ieri e fino a venerdì in Vaticano.

L'impegno della Commissione, afferma il Pontefice, «è come “ossigeno” per le Chiese locali e le comunità religiose, perché dove c’è un bambino o una persona vulnerabile al sicuro, lì si serve e si onora Cristo». Un lavoro che porta con sé una carica profetica, secondo Francesco, «soprattutto negli ambiti più disagiati», e che non si riduce, appunto a una «coperta» che serve a rispondere ai casi critici ma alla costruzione di un vero e proprio fondamento per la comunità dei credenti.

E tutta questa opera, spiega ancora il Papa, «non si riduce a protocolli da applicare, ma promuove presidi di protezione: una formazione che educa, dei controlli che prevengono, un ascolto che restituisce dignità. Quando impiantate pratiche di prevenzione, persino nelle comunità più remote, state scrivendo una promessa: che ogni bambino, ogni persona vulnerabile, troverà nella comunità ecclesiale un ambiente sicuro - sottolinea ancora Francesco -. Questo è il motore di quella che dovrebbe essere per noi una conversione integrale».

Il Papa, poi, chiede tre impegni precisi alla Commissione: il primo compito è «crescere nel lavoro comune con i Dicasteri della Curia romana». Poi il mandato a «offrire alle vittime e ai sopravvissuti ospitalità e cura per le ferite dell’anima, nello stile del buon samaritano. Ascoltare con l’orecchio del cuore, così che ogni testimonianza trovi non registri da compilare, ma viscere di misericordia da cui rinascere». Infine il lavoro per «costruire alleanze con realtà extra-ecclesiali – autorità civili, esperti, associazioni –, perché la tutela diventi linguaggio universale».

La Commissione, prosegue Francesco, in 10 anni di lavoro ha fatto «crescere nella Chiesa una rete di sicurezza». Proprio a partire da questo prezioso risultato il Papa lancia il suo invito: «Andate avanti! Continuate a essere sentinelle che vegliano mentre il mondo dorme. Che lo Spirito Santo, maestro della memoria viva, ci preservi dalla tentazione di archiviare il dolore invece di sanarlo».





Martedì, 25 Marzo 2025

La salvezza e la santificazione della classe popolare femminile è il carisma che nel 1907 Giovanna Meneghini ricevette come intuizione da Dio per la famiglia religiosa che stava fondando. Un dono specifico, ma non così tanto perché la Chiesa riconoscesse velocemente le suore Orsoline del Sacro Cuore di Maria.

Gli inizi di questa realtà fondata a Breganze, nell’alto vicentino, furono infatti piuttosto tribolati e la prematura morte della fondatrice certamente non contribuì ad aiutare il piccolo nucleo di sorelle sorto attorno a lei. Tuttavia, la traduzione in vita che la Meneghini fece della grazia ricevuta fu sufficiente perché le sorelle si adoperassero continuamente per le donne più emarginate.

Inizialmente furono le “giovanette”, specialmente le orfanelle, ma presto, insieme ai consueti impegni pastorali, arrivarono anche le scuole materne, le cooperative… di volta in volta, a seconda della propensione personale, ma soprattutto delle necessità intravviste dalle diverse generazioni di orsoline, vennero tentate strade nuove, così da attualizzare continuamente il carisma della fondatrice. Non solo. Le prime sorelle insegnarono con la vita a quelle che entravano in istituto la necessità di pregare per ottenere la grazia del riconoscimento della Chiesa.

L’approvazione diocesana giunse l’8 settembre 1941, dopo un decennio particolarmente difficile nel quale venne vietato accogliere nuove giovani in formazione. La difficoltà era proprio la comprensione di un carisma tanto ampio quanto specifico, ma che per i primi decenni del XX secolo era inutile: c’erano le suore catechiste, le suore infermiere e quindi le orsoline del Sacro Cuore di Maria a cosa sarebbero servite attuando la salvezza e la santificazione della classe popolare femminile? A guardare indietro oggi si potrebbe dire che invece serviva a molto, vista l’attualità di tale carisma.

Con coraggio e caparbietà, oltre che tanta fede, le prime orsoline SCM continuarono a prodigarsi per il riconoscimento pontificio che, finalmente, arrivò il 25 marzo 1950. Esattamente 75 anni fa.

Essere riconosciute dal Vaticano significava avere una conferma all’intuizione della venerabile Giovanna Meneghini, ma anche essere in qualche modo viste dalla Chiesa in modo nuovo, con l’autorevolezza conquistata attraverso molte tribolazioni, anche per causa di alcuni sacerdoti che proprio non comprendevano l’originalità di quel dono.

Una vera impresa per una congregazione religiosa che è sempre stata composta da poco più di 100 sorelle, sparse in Italia, soprattutto nel nord, ma anche in Brasile (Volta Redonda nello stato di Rio de Janeiro e Boa Vista nello stato di Roraima) e Mozambico (a Beira e Dondo). Oggi l’impegno della fondatrice viene declinato negli ambiti pastorale e sociale, oltre che in quelli educativo e missionario.

Da 25 anni inoltre c’è un impegno a livello culturale, anche grazie all’Associazione Presenza Donna che promuove incontri perché si crei un dialogo autentico a livello sociale tra il maschile ed il femminile. Un’intuizione oggi più che mai necessaria, non solo in Italia, per dare dignità alle donne, ma anche agli uomini che hanno bisogno di ritrovare la propria identità più profonda in una continua dialettica costruttiva.

Per celebrare questi 75 anni di riconoscimento pontificio le Orsoline SCM sabato scorso hanno partecipato a Monte Berico alla Messa presieduta dal vescovo di Vicenza, Giuliano Brugnotto, e concelebrata da Beniamino Pizziol, vescovo emerito di Vicenza, e da Adriano Tessarollo, vescovo emerito della diocesi di Chioggia. «Rendiamo grazie al Padre per la Parola che le Suore Orsoline stanno ascoltando anche dalla cultura odierna - ha detto Brugnotto nell'omelia - che necessita uno sguardo più coraggioso nella promozione della donna con la passione per il femminile in ambito pedagogico, filosofico, sociologico e teologico, vera profezia del nostro tempo».





Martedì, 25 Marzo 2025

La macchina dell’accoglienza si è già messa in moto. È quella del progetto “È più bello insieme” che anche questa estate porterà nelle diocesi della Penisola i bambini ucraini. «Saranno più di 600. E per loro tornerà l’ospitalità nelle famiglie», annuncia il direttore di Caritas Italiana, don Marco Pagniello. Oltre 1.300 i ragazzi che nei tre anni di guerra hanno vissuto l’esperienza delle vacanze solidali in Italia. «Si tratta di un periodo di riposo e rigenerazione», prosegue il direttore. Con una novità per il 2025. «Abbiamo incontrato l’ambasciatore dell’Ucraina presso la Santa Sede, Andrii Yurash - racconta don Pagniello -. Vorremmo che fra i piccoli attesi nelle nostre Chiese particolari ci fossero anche i bambini rientrati dalla Russia». Sono i giovanissimi che Kiev sostiene siano stati deportati dai territori occupati e che sono uno dei due ambiti della missione di pace affidata da papa Francesco al presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi. Insieme con i prigionieri di guerra, sono proprio i bambini contesi al centro del negoziato umanitario alimentato dalla Santa Sede, fra i pochi canali che fanno dialogare direttamente Kiev e Mosca.

«Quanto accade in Ucraina ci conferma che sono i ragazzi a pagare un prezzo altissimo nei conflitti. Un’intera generazione sta crescendo sotto le bombe, fra i lutti e la distruzione, in mezzo al rancore. Ecco perché il futuro si costruisce partendo dalle relazioni e dall’amicizia sociale. Soprattutto fra i giovani», chiarisce don Pagniello. Fin dall’inizio dell’invasione russa, Caritas Italiana è accanto alla gente dell’Ucraina. «A nome della Chiesa italiana», dice il direttore. Una vicinanza che adesso si fa anche appello a non dimenticare la popolazione aggredita. «Si rischia di abbandonare il Paese dal punto di vista umanitario. L’attenzione internazionale si concentra sul versante politico o militare, ma non si guarda ai bisogni sempre più rilevanti», afferma Ettore Fusaro. È uno dei quattro operatori di Caritas Italiana che si trovano in Ucraina. E da Kiev lancia l’allarme sul taglio dei fondi per la cooperazione. «È già pesante l’impatto dello stop decretato da Trump e dall’amministrazione statunitense. Però anche i governi europei vanno nella stessa direzione: meno 12 miliardi di euro di aiuti umanitari all’Ucraina da parte del nostro continente». Da qui il monito di don Pagniello: «Le annunciate spese per il riarmo sono un controsenso rispetto alla storia dell’Unione Europea. Serve una difesa comune, ma la pace non si raggiunge solo con le armi».

?Lo sa bene il gruppo di lavoro di Caritas Italiana che in Ucraina scommette sulla «solidarietà come via di rinascita» e che vede la Chiesa italiana a fianco delle due Caritas nazionali: Caritas Spes, espressione della Chiesa cattolica di rito latino, e Caritas Ucraina, organismo della Chiesa greco-cattolica. «Insieme rappresentano il primo attore umanitario presente nel Paese», riferisce Ettore. Emergenza e sviluppo sono oggi le due direttrici Caritas in quella che resta la «più grave crisi umanitaria degli ultimi decenni in Europa» e che «sta crescendo in modo esponenziale». A contribuire all’escalation sono gli «effetti che tre anni di conflitto producono sulla società: l’impoverimento del Paese, la disoccupazione, gli sfollati di guerra da integrare, il collasso del sistema socio-sanitario, il disagio mentale». Con il supporto dell’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo del ministero degli Esteri, sono stati promossi due progetti di supporto e risposta integrata alla popolazione. Compresa quella che resta lungo la linea del fronte. «Fra Kharkiv, Poltava, Dnipro garantiamo nei villaggi dove sono venuti meno i servizi essenziali non solo i kit di sopravvivenza, ma anche la presenza di cliniche mobili, la telemedicina, i percorsi di salute mentale», dice Ettore.

Poi c’è l’altro grande capitolo targato Caritas Italiana: quello della cura e dell’inclusione dei disabili. «Disabili intesi come persone che devono la loro disabilità al conflitto e che hanno urgenza di riabilitazione fisica e mentale. Il loro recupero psico-motorio sarà una delle maggiori sfide nel dopo-guerra. Perché le cifre di chi ha subito traumi sono enormi». Una pausa. «Ciò di cui ha bisogno l’Ucraina non è solo la ricostruzione delle infrastrutture, ma del suo tessuto sociale», sottolinea Ettore. E don Pagniello conclude: «Caritas Italiana accompagnerà la ricostruzione e sta già lavorando per rafforzare le due Caritas nazionali in vista di quella fase nuova che speriamo arrivi al più presto».





Martedì, 25 Marzo 2025

«Nella malattia capisci ancora meglio e davvero che non siamo i padroni di noi stessi. Nell’esperienza della fragilità, della debolezza estrema, della malattia grave che mette a rischio la tua vita, per non cadere nello smarrimento sei chiamato a crescere nella pazienza, nell’umiltà, nella fiducia in Colui che guida le nostre esistenze. Quella fiducia è l’anima della nostra fede. Con quella fiducia, come pastore chiamato a servire la Chiesa, metti a disposizione la tua vita per il tempo che il Signore vorrà. E fu un invito a vivere la prova con fiducia e speranza quello che mi fece papa Francesco quando, il 16 ottobre 2022, mi chiamò al telefono, a quasi tre mesi dal trapianto del midollo osseo che avevo ricevuto il 20 luglio all’ospedale San Gerardo di Monza, reso necessario per l’aggravarsi di una patologia, la fibrosi del midollo, che mi affliggeva da tempo. Fu una telefonata inattesa: mi fece molto piacere, la ricordo con profonda riconoscenza». Così il vescovo di Brescia, Pierantonio Tremolada, rievoca il cammino vissuto in questi ultimi anni, segnati dalla malattia, da un trapianto, quindi da un percorso di guarigione che l’ha riportato – nel gennaio 2023 – in diocesi, per riprendere a tutti gli effetti il suo ministero. Un cammino che, oggi, può aiutare a leggere ciò che sta affrontando e attende un altro vescovo – il Vescovo di Roma – anch’egli nella prova della malattia.

Che cosa significa vivere l’esperienza di una malattia grave? E cosa significa viverla da vescovo?

«Ho capito una grande verità: come pastori siamo chiamati a mettere a disposizione la nostra vita per il tempo che il Signore vorrà. Il nostro servizio – vale per il Papa come per il vescovo e ogni altra persona che abbia responsabilità nella Chiesa – ha sempre un limite temporale. Questo lo capisci meglio quando hai consapevolezza che quel tempo potrebbe concludersi presto. E questo ti dà pace. Ti ricorda che non siamo indispensabili, ma solo servitori inutili: consapevoli che quello che diamo e offriamo si colloca in una prospettiva di grazia più grande».

Quando seppe della malattia, eccellenza, come reagì? Che cosa provò? E come la affronto?

«La malattia ti mette di fronte a due momenti distinti. Il primo, il più scioccante, è quando ne ricevi notizia e prendi coscienza che ti attende una situazione grave, con conseguenze serie, e un cammino dall’esito incerto. Il secondo momento è quando cominci a “vivere” la malattia e il suo aggravarsi – nel mio caso, con il ricovero al San Gerardo, il trapianto preceduto dalla chemioterapia per abbattere il midollo osseo malato… Qui entra in gioco il dolore fisico, la difficoltà a sopportarlo, la percezione del corpo sempre più debilitato, senza energie… E al dolore si affianca l’esperienza della fragilità e della debolezza: non puoi più fare le cose di prima e disporre di te in autonomia. Devi affidarti. Imparare a vivere il limite, che è la regola della nostra esistenza. E sei chiamato a crescere nella pazienza, nell’umiltà, nella fiducia. Contro la malattia si deve lottare: e questo riguarda sia il corpo sia lo spirito».

Che cosa l’ha aiutata in questa lotta? In chi e in cosa ha trovato sostegno?

«Nell’Angelus preparato per domenica scorsa – quella della sua dimissione dal Gemelli – il Papa ha parlato della “pazienza del Signore”, che nel tempo del ricovero ha sperimentato “nella premura instancabile dei medici e degli operatori sanitari, così come nelle attenzioni e nelle speranze dei familiari degli ammalati”. Ecco: posso dirlo anch’io. Nella fragilità e nella debolezza, comprendi ancora meglio il valore delle persone che hai intorno, a partire da quelle più vicine: come i medici e gli infermieri del San Gerardo, straordinari per professionalità e umanità. Ma hai anche la percezione interiore della presenza e della vicinanza di tutte quelle persone a te ignote, fisicamente lontane, ma che ti pensano, pregano per te… Anche questo fa bene al malato. E che gioia, al rientro in diocesi, incontrare persone sconosciute che mi dicono: “Abbiamo pregato per lei!”».

La domenica di papa Francesco ci consegna anche due gesti: il suo grazie alla signora dei fiori gialli e la sosta a Santa Maria Maggiore…

«Il Papa ha voluto presentarsi al balcone del Gemelli nella sua fragilità. E il suo saluto a quella donna, individuata in mezzo alla folla, testimonia quella tenerezza di cui tante volte ci ha parlato. Riguardo a Santa Maria Maggiore, anch’io ho sentito il bisogno di dire “grazie” a Maria, per la sua vicinanza che non è mai mancata. E, quando mi è stato possibile, sono andato in pellegrinaggio a Pompei».

Ha altri “grazie” da condividere?

«Sono infinitamente riconoscente al donatore del midollo osseo, del quale non potrò mai sapere il nome e il volto. Mi resterà per sempre sconosciuto. Nessuno dei miei familiari era compatibile: perciò ci siamo dovuti rivolgere al database mondiale per trovare un donatore adatto. Nell’attesa di una risposta positiva, vivi come sospeso, nella trepidazione che arrivi un “lieto annuncio”. Lo stesso è avvenuto dopo il trapianto, quando incombeva il rischio del rigetto e si trattava di capire se avrebbe dato l’esito sperato. Lì capisci com’è vero che non siamo padroni di noi stessi. E come è difficile vivere nella prova, nella sofferenza e nell’attesa del “lieto annuncio” senza imparare quell’umile fiducia che è l’anima della nostra fede. Guardi al cammino fatto, cerchi il senso di quello che hai vissuto, e capisci come ogni passaggio è stato importante, anzi: provvidenziale».

Com’è stato il rientro in diocesi?

«Ho avuto la percezione che tutti fossero contenti della mia presenza: ma nel contempo, all’inizio, mi raccomandavano di non eccedere negli impegni, di custodire le energie, di non preoccuparmi troppo per quello che dovevo o potevo fare davvero. È come se mi avessero detto: “Siamo felici non per quello che fai, ma perché ci sei, perché sei nuovamente qui con noi”. E ne sono stato felice anch’io».

E ora come sta, eccellenza?

«Bene, ringraziando il Signore. I controlli vanno bene, le energie ci sono. E posso tornare a Roma dove in questi giorni si svolge il pellegrinaggio diocesano del Giubileo, a poco più di una settimana dal pellegrinaggio degli adolescenti che abbiamo vissuto con duemila ragazzi».






Lunedì, 24 Marzo 2025

Milano è fatta così: sta seduta su uno scrigno dentro il quale ci sono bellezze sorprendenti e inosservate, ma preferisce non esibirle. Paradosso, per la città che ha incubato l’alta moda, eccessiva ed esibizionista per definizione. Ma forse proprio un gusto profondo e riservato per l’armonia forma il gusto a saperla cogliere e coltivare, dandole qualunque forma.

Ogni tanto capita, ai milanesi, di sorprendersi di fronte ad angoli della metropoli di una bellezza che può togliere il fiato, scoprendoli perché altri, da fuori, glieli additano come capolavori. Sta accadendo in questi giorni di debutto della primavera in un posto che è noto a chi ci abita o lavora nei paraggi ma che per molti è solo un luogo sulla mappa urbana per orientarsi, tra Santa Maria delle Grazie e l’ex Fiera, fermata Conciliazione. Piazza Tommaseo è nota perché ci si affacciano la storica scuola delle Marcelline e la chiesa di Santa Maria Segreta. Tra le due facciate, un giardino che per quasi tutto l’anno è solo un posto quieto e appartato, ma che ora esplode del rosa e del bianco regalato da migliaia di fiori sui rami delle magnolie che sono state piantumate anni fa, scegliendole di una specie dalle dimensioni assai contenute e con foglie caduche, ma capaci di regalare una fioritura spettacolare. Perché andare in Giappone a cercare l’incanto dei ciliegi se a Milano abbiamo una meraviglia così?

Ma quel che colpisce anche di più chi già conosce questo luogo del cuore è la folla di persone ora intente a fotografarsi a vicenda, a scattare selfie, a mettersi in pose che si ritengono poetiche sotto le chiome che, insieme, vanno a formare una commovente galleria floreale. Si fa la coda per cogliere un certo angolo con gli alberi e la facciata austera della scuola dai sobri mattoni rossi. La tipologia di scatto che si coglie nella folla di fotografi improvvisati non lascia dubbi: piazza Tommaseo è diventata “virale” grazie a Instagram, si viene qui avendo visto foto altrui, e si vuole fare altrettanto. E che la gran parte di chi sgomita per portarsi via un’immagine da postare sia con tutta evidenza di turisti rafforza l’ipotesi che di celebrità digitale si tratti.

A noi, incantati dal duplice spettacolo, sale immediato un pensiero: su queste panchine, in questa scuola, dentro questa chiesa, maturò l’esperienza di vita e di fede di Carlo Acutis, che abitava proprio qui, e che di questa piazza conosceva anche i sassi. Se ne sarà portato in cielo il profumo e i colori (questi alberi in particolare sono arrivati dopo la sua morte, ma il giardino c’è sempre stato). Tutto qui parla di Carlo, in questi – pochi – giorni di gloriosa infiorata anche la natura, a piena voce. «Posto sugli altari – ha detto l’arcivescovo Mario Delpini parlando di Acutis santo il prossimo 27 aprile – potrà continuare a dire quanto ha detto in questi anni con la sua straordinaria popolarità. Ha detto infatti che tutti siamo chiamati alla santità: non solo i poveri, ma anche i ricchi, non solo le personalità straordinarie, ma anche le persone qualsiasi, non solo i fondatori di ordini religiosi, ma anche gli ammiratori dei consacrati e delle consacrate, non solo i sani, ma anche i malati, non solo gli adulti, ma anche gli adolescenti».

Ecco, proprio i ragazzi sono i più numerosi nella piazza a fiori: «Forse – sono ancora parole di Delpini – lo ascolteranno e saranno chiamati fuori di casa, fuori dalle loro tristezze, dai loro complessi, dalla loro rabbia, dalla loro inconcludenza. Forse ascolteranno la voce che viene dal cielo per loro e troveranno la gioia di vivere, il coraggio di amare, la fortezza nel soffrire. Troveranno forse la via della santità giovane, seguendo la pista percorsa da san Carlo Acutis». E chissà che l’incanto e la grazia delle proporzioni e della pace che si respirano nella “sua” piazza Tommaseo in primavera non l’abbiano ispirato nella ricerca dell’assoluto dentro il quotidiano. Dalla bellezza non può che nascere altra bellezza. Può succedere anche postando un selfie: e in fondo, non si vuole fare di Carlo, ormai prossimo santo, il patrono del mondo digitale? E allora sì, è proprio vero: nella piazza più milanese che c’è, così bella e discreta, c’è un riflesso del suo sorriso.





Lunedì, 24 Marzo 2025

In tutte le diocesi italiane, ogni 24 marzo, viene celebrata la Giornata dei missionari martiri, durante la quale si ricordano coloro che hanno donato la vita al servizio del Vangelo e del prossimo. L’iniziativa nasce nel 1992 dall’intuizione del Movimento giovanile missionario delle Pontificie Opere Missionarie italiane, che era rimasto fortemente colpito dall’esempio dell’arcivescovo salvadoregno Oscar Arnulfo Romero, oggi santo. Il prelato venne assassinato il 24 marzo 1980 durante la celebrazione della Messa. La figura di Romero, proclamato santo nel 2018, ucciso perché denunciava le violenze della giunta militare al potere in El Salvador, affascina ancora oggi noi giovani. «Pensavano di mettere a tacere una voce scomoda – ha scritto don Giuseppe Pizzoli, direttore della Fondazione Missio, nella riflessione di quest’anno – e invece lui è diventato simbolo duraturo di lotta per ideali più grandi di giustizia e solidarietà con i più poveri, ispirando molte altre persone, gruppi e movimenti nell’impegno per la giustizia e la libertà». In quest’occasione Missio Giovani vuole ricordare da una parte i missionari caduti nel loro impegno a servizio delle comunità, e dall’altra guardare alle loro storie come esempio di vita vissuta alla luce del Vangelo. Quello che rende la testimonianza vera e valida ai nostri occhi, agli occhi dei giovani, in effetti, è la piena e assoluta credibilità delle loro azioni. Si tratta di una fede vissuta non solo a parole, ma con la vita concreta. Per questo le storie dei testimoni sono di ispirazione per chi come noi è alla ricerca di verità e coerenza, e di un modello che possa far riflettere sulle nostre scelte per il futuro. Conoscendo le storie di questi uomini e donne, quello che ci colpisce profondamente è riconoscere lo Spirito Santo in azione. In particolare, nelle vite di quanti si dedicano agli “ultimi” in missione.

Il tema della Giornata dei missionari martiri quest’anno è “Andate e invitate”, in riferimento alla parabola evangelica di Matteo che richiama ciascuno a riscoprire la propria vocazione battesimale come discepolo-missionario nella propria realtà quotidiana. In particolare, la sottolineatura dei due verbi “andate” e “invitate” ci ricorda che «la missione è un andare instancabile verso tutta l’umanità per invitarla all’incontro e alla comunione con Dio. Instancabile!» (dal Messaggio di papa Francesco per la Giornata missionaria mondiale 2024). Don Giuseppe Pizzoli sottolinea ancora che «mantenere viva la Speranza è il principio vitale che sorregge la missione dei discepoli, anche nei momenti più bui e nelle situazioni di più aspre avversità, temprando il loro carattere e rendendo efficace la loro testimonianza». Il martire, «mosso dalla speranza, non si limita a subire la morte, ma la trasforma in una testimonianza potente», dice don Pizzoli. Il martirio perciò non è un fine in sé, o una fine, ma un mezzo attraverso il quale la speranza si rafforza e si manifesta.

Anno dopo anno questa Giornata è sempre più vissuta e sentita dai giovani e dalle comunità come un’occasione per ricordare i missionari uccisi o morti durante il loro apostolato e per rinnovare l’impegno di ciascuno nel rendere il Vangelo vita concreta e quotidiana. E questo, non fuori dal mondo, ma dentro il mondo: sul posto di lavoro, nella scuola, nelle università, durante le attività extra, con gli amici e i familiari. Insomma all’interno della nostra società. Sono molteplici le iniziative che i giovani propongono durante la Giornata, prendendo spunto anche dal materiale fornito ogni anno da Missio Giovani (vedi box). I momenti di preghiera si alternano alle veglie, alle riflessioni e alle testimonianze dal campo. Ma anche ad occasioni di confronto attraverso il cineforum o il teatro. Con creatività i giovani si fanno loro stessi missionari nella realtà locali: nella diocesi di Chiavari, ad esempio, si trovano per le strade della città, animando una serata di spiritualità e testimonianza. Si esce dalle chiese per incontrare le persone!

Segretaria nazionale di Missio Giovani





Lunedì, 24 Marzo 2025

Alla domanda su cosa si vorrebbe avere nella vita, tantissime persone, insieme alla salute, risponderebbero: la serenità. Che, nella rappresentazione comune significa leggerezza o, meglio, poter affrontare il presente senza particolari preoccupazioni. Nella visione cristiana però lo stesso concetto va considerato in maniera differente. Nel credente, infatti, la pace del cuore e della mente non dipende dall’assenza di disagi e difficoltà, condizione peraltro impossibile, ma dal confidare in Dio, nella certezza di averlo sempre al proprio fianco. La persona serena, quindi, è anche un uomo o una donna umile, perché sa di non potere bastare a sé stesso né di poter risolvere da solo ogni problema. Anzi ci sono situazioni che non solo non siamo in grado di modificare ma che dovremmo lasciare come sono. Lo evidenzia in modo semplice ma profondo la preghiera pubblicata qui sotto, la cui origine non è chiarissima, anche se la maggior parte degli studiosi la attribuisce al teologo protestante statunitense Reinhold Niebuhr (1892-1971). Il testo ha avuto una certa diffusione perché inserito nel cosiddetto programma dei dodici passi, percorso che aiuta chi ha vissuto la dipendenza dall’alcol a liberarsene. Riassumendo, la serenità del credente non viene tanto dalla fiducia nelle proprie forze ma dal sapere che il Padre ama ciascuno dei suoi figli e che tutti vuole portare alla vera felicità.

«Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare;
la forza ed il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare;
e la saggezza di conoscerne la differenza.
Vivendo un giorno alla volta;
godendo di un momento alla volta;
accettando le avversità come la via alla pace.
Prendendo, come egli stesso ha fatto,
questo mondo di peccati com'è, e non come lo vorrei io.
Fidandomi che egli farà tutto giusto se mi arrendo alla sua volontà.
Che io sia ragionevolmente felice in questa vita
e supremamente felice con lui per sempre nella prossima».





Sabato, 22 Marzo 2025

Angelo Palmisano, con la marcia intitolata «Elegia dei martiri» ha vinto la prima edizione del Concorso internazionale di composizione di marce per la Settimana Santa, organizzato dalla Confraternita della Santissima Addolorata e San Domenico di Taranto. Si tratta di composizioni che le bande suonano nelle processioni del Giovedì e Venerdì Santo, i giorni dei Riti di Taranto.

Spesso pensate per ricordare la dipartita di un parente o di un amico, queste marce con i fiati e le percussioni accompagnano i confratelli con i Simboli, lungo i vicoli o le vie del borgo cittadino, in un ritmo lento e cadenzato. È la Pasqua popolare, patrimonio devozionale prezioso. Musiche diffuse in tutto il Mezzogiorno e adesso apprezzate anche al Nord e all’estero.

La selezione, tra 29 composizioni arrivate anche dall’estero, è stata effettuata negli scorsi giorni sulla base di idea melodica, struttura armonica, impiego degli strumenti, originalità ed eseguibilità. Solo cinque i brani finalisti che si sono esibiti questa sera, 22 marzo.

«Nella Settimana Santa tarantina – spiega il padre spirituale della confraternita, monsignor Emanuele Ferro – c’è una grande attenzione all’accompagnamento musicale che scandisce le processioni. Le marce funebri sono il corredo di un rituale collettivo curato, sentito, un patrimonio importante dal punto di vista musicale, colonna sonora ma anche sostegno dei confratelli che portano i sacri simboli. Hanno anche una valenza affettiva, accompagnano ricordi, sentimenti e progressi della fede. È un patrimonio vivo che racconta pure di ricerca, innovazione e creatività».

Composizioni sono giunte anche da Grecia e Malta. A decretare il vincitore, una giuria di cinque musicisti presieduta dal maestro Ermir Krantja. Al primo classificato il Trofeo Città di Taranto e un premio da 1.500 euro.

Le bande, nel Mezzogiorno, non sono amatoriali ma danno lavoro a giovani professionisti che spesso mentre terminano il Conservatorio animano la vita dei paesi con le processioni. «Un concorso che ho voluto fortemente insieme a tutto il consiglio - racconta il priore della Confraternita dell’Addolorata e san Domenico, Giancarlo Roberti - e per cui ci siamo avvalsi della direzione artistica del maestro Giuseppe Gregucci, che guida l’Orchestra di Fiati Santi Cecilia. Ci teniamo molto alle attività culturali della confraternita. Per noi è anche un modo di crescere e per questo lavoriamo, perché ci possa essere una seconda edizione. Intanto complimenti ai vincitori. La giuria di questa sera non era solo tecnica ma anche popolare, composta da confratelli, perché le marce non sono solo composizioni musicali ma devono toccare le corde del cuore».

Nel corso della serata è stato anche assegnato un premio Speciale della tradizione tarantina, intitolato a "Monsignor Cosimo Quaranta”. L'evento ha visto anche la presenza di un ospite d'onore, il Maestro colonnello Vincenzo Borgia, già direttore della banda dell’Arma, che ha ricevuto il premio alla carriera da parte della confraternita.





Domenica, 23 Marzo 2025

Descrive la scelta di papa Francesco di volersi affacciare stamani dal decimo piano del Policlinico Gemelli come un «atto in cui il Papa ci mostra, nonostante il peso degli anni e il ricovero, la sua normalità. E ora vuole essere presente come può, ossia esponendosi anche con la sua fragilità». È la prima impressione che affiora dal ragionamento del ?gesuita siciliano Antonio Spadaro?, già direttore de La Civiltà Cattolica per dodici anni (2011-2023) e oggi sottosegretario del Dicastero vaticano per la cultura e l’educazione, sulla decisione del suo “confratello” Jorge Mario Bergoglio di ritornare visibile dal vivo «al popolo di Dio dopo tanto tempo».

Il religioso ha seguito ed è stato al fianco di Francesco per tutti i suoi 47 viaggi apostolici. E gioisce alla notizia che oggi il Vescovo di Roma sarà dimesso dal Gemelli e tornerà a Casa Santa Marta come un «paziente normale». «La stessa “normalità” che abbiamo sperimentato in fondo nel giorno della sua elezione a Pontefice, il 13 marzo 2013 – spiega il gesuita – quando si affacciò dalla loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro. Ora come allora si vuole presentare come una persona normale, anche in precarie condizioni di salute».

Un Papa insomma che si mostra così com’è, un malato qualunque...

«Non deve sorprendere il suo stile di non nascondersi mai. Mi ha sempre impressionato che nella sua prima intervista che mi concesse nel 2013 per La Civiltà Cattolica tenne a ribadirmi un’intuizione che è, a mio giudizio, il dna della sua cifra pastorale: “Bisogna sempre essere persone normali”. E questo suo approccio di “normalità” lo ha confermato in questi giorni quando ha inviato l’audio con la sua voce flebile e non adulterata per il Rosario il 6 marzo scorso in piazza San Pietro. E ancora quando ha voluto telefonare al parroco di Gaza in Terra Santa per manifestare la sua vicinanza a questo angolo del Medioriente. O quando si è mostrato in preghiera con una semplice foto dalla cappella del Gemelli. In fondo dalla sua stanza del Policlinico romano ci ha voluto manifestare il suo essere pastore di sempre, anche nella nuova condizione di vita che si trova ad affrontare a causa della malattia. I suoi 38 giorni al Gemelli sono stati in fondo una cattedra di Pietro, in un momento particolare della sua esistenza».

Francesco ha chiesto limpidezza attorno al suo quadro clinico. Quali insegnamenti ci sta dando?

«Quello che ci sta dicendo è che la malattia va vissuta come tale e bisogna trattarla come tale. Ora come un “comune” paziente sta facendo quello che riesce a fare; però sempre con il suo sguardo vigile verso tutti. La sua scelta di essere così trasparente come degente rappresenta anche la sua voglia di non coprire il suo reale stato di salute proprio perché si sente il pastore di tutti. E come nel 2013, a inizio del suo inizio di pontificato, sta chiedendo a tutti la stessa cosa di allora: “Pregate per me”».

Oggi il Papa sarà dimesso dal Gemelli. I medici hanno però avvertito che dovrà trascorrere un periodo di convalescenza di due mesi. Come la Chiesa vivrà questo momento?

«Penso che a sostenere il Papa che ritorna a casa saranno soprattutto la forza della preghiera e i messaggi che continuano ad arrivare da ogni angolo del pianeta. Mi vengono in mente i tanti non credenti che hanno voluto mostrare la loro vicinanza al Vescovo di Roma. E ora nel periodo di riabilitazione che dovrà affrontare a Santa Marta troverà, come è successo durante il ricovero al Gemelli, l’affetto della gente semplice come dei lontani. Lui, in questo mese e mezzo, ha unito tutta la Chiesa con la preghiera. Tutti si sono uniti, come lui direbbe, con le “buone onde” ».

Continuano le illazioni o le fake news sul Papa. A suo giudizio, come frenare le derive mediatiche?

«Non c’è modo di arginare questa dinamica. L’unico modo per “disciplinare” l’impatto delle fake news è quello di affidarsi alle vere notizie sulla salute del Papa scegliendo fonti certificate, attendibili e credibili. Proprio come è stato il caso della conferenza stampa di ieri pomeriggio al Gemelli in cui i medici hanno raccontato la verità su come sta realmente il Papa».

Padre Spadaro, come saranno questi due mesi di convalescenza a Santa Marta per Francesco?

«Difficile dirlo. Certamente Francesco, come hanno indicato e suggerito i medici, si dovrà risparmiare e sarà tenuto a contenere gli impegni pubblici. Tuttavia c’è un gregge che attende e vuole il ritorno del suo pastore, con tutte le cautele possibili, pienamente in forze. In momenti difficili come questi per l’umanità, anche sul piano geopolitico e internazionale, papa Bergoglio è l’unica voce ascoltata e rispettata da tutti. Francesco oggi, in un mondo dilaniato da guerre e particolarismi, è una straordinaria figura morale e globale riconosciuta ovunque. Perciò tutti noi tifiamo per il suo ritorno in forze e in piena salute, con le dovute prudenze mediche del caso, perché sia ancora lui a guidarci come successore di Pietro».





Sabato, 22 Marzo 2025

«Saluto voi e i vostri vescovi in occasione dei pellegrinaggi giubilari diocesani che state compiendo. In essi si esprime l'unità che vi raccoglie come comunità attorno ai vostri Pastori e al Vescovo di Roma, nonché l’impegno ad abbracciare l’invito di Gesù ad entrare “per la porta stretta” (Mt 7,13)». Così si legge nel messaggio di papa Francesco inviato «ai partecipanti al pellegrinaggio giubilare dell'arcidiocesi di Napoli e di altre diocesi» diffuso oggi. «L’amore è così – continua il Pontefice – unisce e fa crescere insieme. Per questo, pur con cammini diversi, vi ha portati qui insieme presso la tomba di Pietro, da cui potrete ripartire ancora più forti nella fede e più uniti nella carità. In questi giorni ho sentito tanto il sostegno di questa vostra vicinanza, soprattutto attraverso le preghiere con cui mi avete accompagnato. Perciò, anche se non posso essere fisicamente presente in mezzo a voi, vi esprimo la mia grande gioia nel sapervi uniti a me e tra di voi nel Signore Gesù, come Chiesa. Vi benedico e prego per voi».

«Caro papa Francesco – ha risposto in un altro, lungo messaggio il cardinale Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli – qui, da questa Piazza (San Pietro ndr) in cui speravamo di incontrarti, ti salutiamo con affetto e gratitudine, nella consapevolezza che esistono degli incontri che vanno ben oltre la presenza fisica, perché si realizzano nel mistero di quello Spirito d'Amore che tutti unisce, che riduce le distanze e che rende presente alla vista del cuore anche chi non riesce ad esserlo a quella degli occhi. Oggi qui, in questa Piazza, c'è una porzione del tuo gregge, ci siamo noi, Chiesa di Napoli, pellegrina nel Giubileo, con il passo dei poveri e lo sguardo grato di chi sa di essere amato da un padre saggio, tenero e forte come Te. Oggi siamo come qui come popolo che Tu confermi nella fede, come gregge che sente nella tua voce la voce del Cristo pastore e che, oggi più che mai, Ti vuole bene».

«In questi giorni stiamo pregando per Te – si legge in un altro passaggio del messaggio del porporato – e lo stiamo facendo con la fiducia di chi sa che la preghiera è un abbraccio, un ponte tra la terra e il cielo, una carezza che arriva anche quando si è soli in una stanza d’ospedale. Ti stiamo portando nei nostri cuori, nelle nostre celebrazioni eucaristiche, nei nostri incontri con i poveri, perché sappiamo che lì è il Tuo cuore, lì è la Tua Chiesa, lì è il Vangelo vissuto. Ci stai insegnando che l’amore non è solo parole, ma è attesa, è pazienza, è affidarsi. Ci stai insegnando che la fraternità non è uno slogan, ma è la strada indicata dal Vangelo, da percorrere anche quando è scomoda, anche quando rende necessario l'abbattimento dei muri che la nostra paura ha costruito, e l'edificazione di ponti che vanno nella direzione opposta a quella di un mondo che vorrebbe renderci sempre più soli e individualisti, sempre più diffidenti gli uni degli altri».





Venerdì, 21 Marzo 2025

Scout e con una vita spesa per gli altri, a cominciare dagli scartati e dai dimenticati: in particolare i bambini malati di Aids a Bucarest. È la storia singolare di Lorenzo Cuneo (1970-1998 ), giovane romano e volontario della Caritas che perse la vita travolto da un camion mentre cercava di prestare soccorso a un automobilista in difficoltà sull’autostrada A1. Adesso è servo di Dio. Lo scorso 14 gennaio la Conferenza episcopale laziale ha dato parere favorevole all’apertura della causa di beatificazione. Il 24 gennaio successivo è stato promulgato l’editto da parte del cardinale Baldassarre Reina, vicario di papa Francesco per la diocesi di Roma.

Era il 23 ottobre 1998 quando Lorenzo, 28 anni, laico della diocesi di Roma, fu vittima del drammatico incidente. E Cuneo è ricordato ancora oggi – a quasi 27 anni dalla sua morte – come il classico bravo ragazzo del quartiere “La Caffarella” a Roma, capace con i suoi gesti di carità nascosta e spesso “anonima” di farsi amare da tutti e di combattere il degrado anche urbano del suo pezzo di città. Lorenzo nella sua breve ma intensa vita s’era infatti impegnato nella Caritas diocesana, aveva istituito il “giro del giovedì” nelle stazioni ferroviarie per dar conforto ai senzatetto, aveva raggiunto come volontario i profughi della Bosnia, i poveri dell’Ucraina e la gente della Romania per promuovere, in quest’ultimo caso, la ristrutturazione di un ospedale per bambini malati di Aids; nondimeno, si muoveva sempre in difesa delle aree verdi della sua città. Ancora oggi è ricordato come protagonista di molte battaglie e azioni di solidarietà. Inoltre custodiva la virtù di ascoltare e farsi carico delle storie dei più poveri della sua città, in particolare di quelli che “abitavano” la stazione ferroviaria di Termini. Lorenzo , con un taccuino e una biro, segnava tutto nel tentativo di aiutare e salvare dalla miseria e dalla disperazione gli ultimi.

Il 3 novembre 1998, a soli undici giorni dalla sua morte, veniva fondata, per volontà dei genitori Dora e Claudio e di tutti i suoi cari, l’Associazione Lorenzo Cuneo Onlus, un organismo che vuole portare avanti la testimonianza cristiana del giovane ragazzo di quartiere. Nel marzo 2024 il Comune di Roma ha voluto dedicare al ragazzo “controcorrente” nel parco della Caffarella una statua che simbolicamente rievocasse la storia di un testimone del Vangelo. Dal cuore d’oro.





Venerdì, 21 Marzo 2025

«Nulla anteporre all’amore…, tutto sia comune a tutti…, chiunque tu sia…, ascolta… e arriverai, se desideri essere felice». Sono solo alcuni passaggi di un testo che ha 1.700 anni di storia e che sotto l’aspetto valoriale – l’attenzione al dettaglio, l’accoglienza, il senso della misura, il valore della discrezione, la prudenza, l’umiltà, la dignità del lavoro – può mettere d’accordo chi, in nome dell’Europa, sa convergere senza soffocare le diversità, come in una grande orchestra. È la Regola di san Benedetto, uomo che profeticamente anticipò con saggezza e lungimiranza quanto di buono e di bello in Europa siamo stati capaci di mettere al centro del dibattito sociale, culturale, politico ed economico. Mentre la società che aveva intorno era ancora basata sulla disparità sociale, politica ed economica, eliminò la differenza tra schiavi e liberi e il divario culturale tra i membri della sua comunità: infatti tutti potevano avere accesso alla cultura, alla lettura, tutti con diritto di parola, a partire dal più “piccolo”, non di età anagrafica, ma di età monastica.

Sembra quasi assurdo dover ribadire dopo 1.700 anni, oggi nel 2025, che tutto questo non è scontato, che forse ancora non ci è tutto del tutto chiaro, che il tempo passa, che la storia si ripete, e che non è mai scontato che ne abbiamo fatto tesoro e che ci abbiamo capito qualcosa, che è così importante a volte, manifestare, come una nuova epifania, cosa non siamo disposti a rinunciare come uomini e donne di questo tempo.

«Messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà», basterebbero queste tre definizioni con le quali Paolo VI iniziò la lettera apostolica Pacis Nuntius, il giorno della proclamazione di san Benedetto come patrono d’Europa nel 1964, per affermare quanto siano profonde e dimenticate le radici di quanto oggi abbiamo necessità di riaffermare. Essere messaggeri di pace non è forse la grande responsabilità che ciascuno di noi oggi ha, lì dove è chiamato a vivere, a lavorare, a pensare, studiare, gioire, camminare, sostare? Essere messaggeri di pace, stiamo sperimentando essere qualcosa di non acquisito una volta per sempre, ma qualcosa che va costantemente rinnovato, secondo quanto la storia ci sta consegnando. «Realizzatore di unione», perché l’unità non è un dato di fatto, ma la si costruisce, e tutti abbiamo la responsabilità del nostro tassello, l’unità rappresentata dalle 12 stelle sulla bandiera europea, stelle che hanno ribaltato la loro posizione e che dal cielo sono scese in terra. «Maestro di civiltà», perché se oggi possiamo ancora sfogliare Platone, Aristotele, Seneca, e perché qualcuno nel suo scrittorium, ha cominciato a copiare e a conservare.

Ed oggi? Quale può essere il mio contributo a a questa riflessione, a questo momento storico? Questa è la domanda che mi ha interrogato profondamente e alla quale forse è prematuro trovare una risposta definita e definibile, ma quello che sento di poter offrire è forse un criterio, che da sempre ha caratterizzato la vita monastica, il criterio profetico della comunità, del senso comune, che non è privato e non è pubblico, come direbbe la teologa Stella Morra. Il criterio del comune come luogo in cui privato e pubblico, si incontrano e negoziano, contrattano, come in una grande piazza, luogo di movimento, di percorsi, che abilita al riconoscimento dell’altro, come altro, di equilibrio e misura tra il particolare e l’universale. Nel comune l’ascolto genera il dialogo, la riflessione, il pensiero critico, affinché si creino ponti e non muri o fili spinati, affinché l’altro possa essere riconosciuto come fratello e non nemico, perché non mi sta togliendo niente, anzi è una opportunità da convocare, nel senso etimologico della parola, “vocare con”, chiamare insieme, perché il comune, la comunità non ha confini rigidi, ma flessibili, così come ogni monastero ha la sua forestiera, in cui ospitare il pellegrino «che non mancano mai» come dice Benedetto.

Monaca del monastero benedettino di Sant’Anna a Bastia Umbra

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Venerdì, 21 Marzo 2025

Il 21 marzo ricordiamo il Transito di san Benedetto, cioè il suo passaggio pasquale da questa terra al cielo di Dio. La riforma liturgica scaturita dal Vaticano II ha trasferito per il calendario universale la solennità di san Benedetto, patrono d’Europa, all’11 luglio, ma a Montecassino manteniamo la data odierna come festa principale perché proprio qui Benedetto è morto ed è sepolto. San Gregorio Magno narra così gli ultimi istanti della sua vita: “dopo aver ricevuto l’Eucaristia, Benedetto muore mentre è in preghiera, sostenuto dai suoi discepoli”. La scena evoca il passo dell’Esodo in cui Mosè intercede per il suo popolo con le mani alzate al cielo, grazie al sostegno di Cur e di Aronne. Anche Benedetto muore pregando, non solo per sé, ma per il mondo degli uomini e la loro storia, sempre tribolata. Oggi più che mai l’Europa, che è tornata a essere dilaniata dalla guerra, ma anche da una crisi di identità e di quei valori che ne hanno guidato il processo di unificazione, sembra aver bisogno dell’intercessione del santo che, proprio qui a Montecassino, poco più di sessanta anni fa san Paolo VI proclamava patrono d’Europa, il 24 ottobre 1964, mentre era in corso una sessione di quel Concilio che avrebbe dato la freschezza della speranza a tutta la Chiesa.

Ogni anno la comunità di Montecassino, insieme a quelle di Norcia e di Subiaco, propone, in prossimità del 21 marzo, un messaggio di pace, che affida al pellegrinaggio della fiaccola pro pace et Europa una. Nel messaggio di quest’anno ricordiamo come il papa del Concilio in quell’occasione abbia affermato che il monachesimo benedettino ha contribuito a edificare la civiltà europea attraverso tre strumenti: la croce, il libro, l’aratro. Sono tre segni che anche ai nostri giorni conservano la loro attualità. Guardiamo alla croce come segno di riconciliazione e di perdono perché, come più volte hanno ricordato i Papi in questi ultimi decenni, non c’è pace senza perdono. Il libro impegna tutte le nostre facoltà nello studio e nella ricerca di vie possibili di incontro, anche attraverso la riflessione, il dialogo, l’ascolto, la reciproca comprensione. L’aratro, infine, ci sollecita non solo a dissodare la terra perché possa accogliere una nuova seminagione, ma ad aprire solchi nella storia affinché il seme della pace, anche quando pare gettato ingenuamente e senza speranza, possa trovare accoglienza e produrre un raccolto sorprendente.

Quando il 24 ottobre 1964 Paolo VI è salito a Montecassino per consacrare la ricostruita basilica dopo lo scempio infertole dalla Seconda guerra mondiale, usava tre verbi che ancora oggi ci parlano: «Qui la pace troviamo… qui la pace rechiamo… qui la pace celebriamo». Occorre celebrare la pace, perché essa non è solo conquista del pur doveroso sforzo umano, ma è dono che scende dall’alto, dal cielo di Dio. Occorre recare la pace, giacché il dono va comunque accolto e fatto fruttificare grazie all’impegno della libertà umana. Occorre infine trovare la pace, ricercandola in ogni luogo, tempo, spazio dove cresce e matura, incontrando realtà e persone probabilmente qualificate da fedi e visioni diverse, ma ugualmente desiderose di pace. La pace diviene allora un collante che unisce laddove altre dinamiche o falsi valori tentano di dividere e gettare discordia.

San Benedetto è giunto a Montecassino in un’epoca di grandi trasformazioni; oggi anche noi attraversiamo un cambiamento epocale, che con l’attuale Giubileo papa Francesco ci invita a vivere nel segno di una fattiva speranza, che sa mettersi in cammino con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. A Montecassino ci incamminiamo a celebrare fra quattro anni, nel 2029, i 1500 anni dall’arrivo di san Benedetto e dalla fondazione di questo monastero. Vorremmo vivere questo tratto di strada come occasione per riflettere, insieme a tanti altri che desiderino farlo con noi, su come i valori tipici della tradizione benedettina possano continuare a dare un volto e soprattutto un’anima all’Europa e al suo desiderio di pace.

Abate di Montecassino

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Venerdì, 21 Marzo 2025

Si potrebbe pensare che l’Europa odierna abbia poco o nulla a che spartire con Benedetto da Norcia di cui oggi le diverse comunità benedettine celebrano la ricorrenza della morte avvenuta il 21 marzo 547. Eppure, se l’idea stessa di un’identità europea ha ancora una qualche consistenza, lo si deve anche a quel monaco che, all’inizio del VI secolo, decise di rifugiarsi tra i monti per costruire non un impero, ma un modello. Lo fece con un motto – Ora et labora – che ancora oggi ci suona insieme familiare e misterioso. La Regola benedettina, vero e proprio pilastro della civiltà monastica occidentale, era tutto fuorché un manifesto spirituale astratto. Era una guida pratica, un manuale per fondare comunità autosufficienti, disciplinate e resilienti. Benedetto sapeva che non si costruisce nulla senza ordine e misura, senza una struttura capace di trasformare la precarietà in solidità. In questo, fu più stratega che mistico: seppe dare una forma durevole alla vita religiosa, fondò biblioteche, bonificò terre incolte e fornì alle generazioni future un metodo per attraversare il caos. E il caos non mancava.

Erano i tempi del tramonto della pars Occidentis dell’Impero, della disgregazione delle istituzioni romane, della vittoria del barbaricum. In questo scenario, la sua risposta non fu la nostalgia – com’era stato per il pagano Rutilio Namaziano, qualche decennio prima di lui – né la reazione, ma la costruzione. I suoi monasteri non furono dei rifugi, ma avamposti di un ordine possibile, in cui il tempo veniva restituito al lavoro e alla preghiera, dove la cultura si salvava perché considerata necessaria, e dove l’uomo trovava una misura che non fosse il puro arbitrio. Non male per un uomo mai spostatosi dall’Italia centrale. Eppure, la sua Regola si diffuse spontaneamente, fornendo un collante spirituale e culturale destinato a durare nei secoli.

Oggi, l’Europa non vive, certo, una situazione paragonabile, ma non è immune da smarrimenti. Si dibatte tra spinte divergenti, in bilico tra vecchie alleanze e nuove pretese di autonomia, tra la tentazione del ripiegamento e l’urgenza di costruire un’identità condivisa. Fatica a riconoscersi in un’unica voce, oscillando tra il richiamo delle proprie radici e la necessità di adattarsi a un mondo sempre più imprevedibile. L’ordine faticosamente costruito nel secondo dopoguerra mostra crepe evidenti, mentre lo spettro della forza – della forza militare, intendo – torna a insinuarsi laddove si pensava che il dialogo e la diplomazia fossero l’unico linguaggio possibile. Benedetto, con la sua ostinata fiducia nella stabilità delle istituzioni e nella necessità di un metodo, parrebbe, oggi, più inattuale che mai. Eppure, la sua lezione sopravvive nella sua essenza più concreta: l’idea che nel disordine si possa ancora edificare. Il suo orizzonte non era costruito sulla coercizione, ma sulla persuasione. Non imponeva: convinceva. Il monastero benedettino non era una caserma, ma un laboratorio in cui il tempo era scandito non dal clangore delle armi, ma dall’alternanza tra lavoro, preghiera e riflessione. Non era un rifugio per isolarsi dal mondo, ma un presidio che lo trasformava con il solo atto di esserci. Non vi si insegnava il potere, ma la responsabilità. È un pensiero che stride con la retorica contemporanea che confonde talvolta la sicurezza con la minaccia, l’unità con l’omologazione, la stabilità con la rigidità.

Il tempo di Benedetto fu un tempo di transizione, d’incertezza, di fine e d’inizio al tempo stesso. Un’epoca in cui nulla poteva essere dato per scontato, in cui le istituzioni vacillavano e le fedeltà si ridefinivano, le certezze si sgretolavano e le mappe del potere si ridisegnavano, in un alternarsi di crolli e rinascite. Se il suo esempio ha ancora qualcosa da dire, è proprio in questo: nella capacità di dare forma a ciò che altrimenti resterebbe in balia delle circostanze, di resistere alla tentazione della resa o della sopraffazione. Non si tratta di riprodurre un modello del passato, ma di riscoprire un metodo: quello di chi, davanti alla dissoluzione di un mondo, scelse di costruire senza lasciarsi sedurre né dalla violenza né dall’inerzia. Forse, allora, il vero testamento di Benedetto è un invito a rifiutare sia la tentazione della chiusura che quella dell’imposizione. A ripensare l’ordine non come rigidità, ma come equilibrio. A riscoprire il valore del tempo, necessario per pensare, per comprendere, per costruire. Perché anche oggi, come nel VI secolo, il problema non è se il mondo cambierà, ma quale impronta vogliamo lasciarvi.

C’è un altro aspetto della lezione benedettina che vale la pena sottolineare: il suo senso del limite. L’Europa moderna si dibatte tra la volontà di ritrovare il proprio ruolo e la necessità di proteggere ciò che ha costruito, tra la ricerca di una nuova centralità e il timore di una progressiva marginalizzazione. Benedetto insegna che non è la grandezza a determinare la solidità di un progetto, ma la sua capacità di radicarsi. I monasteri non nacquero come fortezze espansionistiche, ma come centri in cui la vita poteva scorrere con una sua armonia interna, fondata sul lavoro, sul sapere, sulla condivisione. Fu questa capacità di costruire nella misura, senza eccessi, a renderli longevi. In un mondo che sembra oscillare tra la frenesia dell’accumulo e la paura della perdita, il suo modello offre un’alternativa: né l’isolamento né la conquista, ma la cura dell’essenziale.

Non è un caso se la Regola benedettina parli poco di grandi ambizioni e molto di dettagli quotidiani. Non offre proclami, ma prescrizioni su come distribuire il lavoro, su come alternare la lettura al riposo, su come amministrare le risorse senza spreco. È un codice che diffida delle improvvisazioni e delle decisioni prese sull’onda dell’emergenza. Chissà che cosa direbbe oggi Benedetto, osservando un’Europa che sembra correre costantemente dietro agli eventi, senza riuscire davvero a governarli. Forse, ripeterebbe ciò che scrisse ai suoi monaci: fermatevi, ascoltate, costruite con pazienza. Perché non sarà la velocità a salvarci, ma la capacità di dare forma al tempo che abbiamo.





Giovedì, 20 Marzo 2025

Aumentano i cattolici nel mondo. Di poco ma aumentano. Si tratta di una percentuale dell’1,15% rispetto al biennio precedente, che fa passare il numero complessivo dei credenti in comunione piena con Roma da circa 1.390 a 1.406 milioni. Questo per quanto riguarda il biennio 2022-2023. La distribuzione dei cattolici battezzati, in accordo con il differente peso demografico dei continenti, è diverso nelle varie aree geografiche. L’Africa raccoglie il 20% dei cattolici dell’intero pianeta e si caratterizza per una diffusione della Chiesa Cattolica assai dinamica: il numero dei cattolici passa da 272 milioni nel 2022 a 281 milioni nel 2023, con una variazione relativa pari a +3,31%. Tra i paesi del continente africano, in particolare la Repubblica Democratica del Congo si conferma al primo posto per numero di cattolici battezzati con quasi 55 milioni di unità, seguita dalla Nigeria con 35 milioni; anche Uganda, Tanzania e Kenya registrano cifre di tutto rispetto.

Con una crescita di 0,9%, nel biennio, l’America consolida la sua posizione quale continente a cui appartiene il 47,8% dei cattolici del mondo. Di questi, il 27,4% risiede nell’America del Sud (dove il Brasile, con 182 milioni, rappresenta il 13% del totale mondiale e continua a essere il paese con la più alta consistenza di cattolici), il 6,6% nell’America del Nord e il restante 13,8% nell’America Centrale.

Il continente asiatico registra una crescita dei cattolici di 0,6% nel biennio, il suo peso nel 2023 è attorno all’11% nel mondo cattolico. Il 76,7% dei cattolici del Sud Est Asiatico nel 2023 si concentra nelle Filippine con 93 milioni e in India, con 23 milioni di unità.

L’Europa, pur ospitando il 20,4% della comunità cattolica mondiale, si conferma l’area meno dinamica, con una crescita del numero dei cattolici nel biennio pari ad appena 0,2%. Questa variazione, d’altra parte, a fronte di una quasi stagnazione della dinamica demografica, si traduce in un lieve miglioramento della presenza sul territorio che raggiunge nel 2023 quasi il 39,6%. Italia, Polonia e Spagna vantano un’incidenza dei cattolici superiore al 90% della popolazione presente. I cattolici dell’Oceania sono pari, nel 2023, a poco più di 11 milioni superiori dell’1,9% rispetto a quelli del 2022.

I dati sono contenuti nell’Annuario Pontificio 2025, appena pubblicato, e nell’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2023, la cui redazione è stata curata dall’Ufficio Centrale di Statistica della Chiesa della Segreteria di Stato.

Alla fine del 2023 sono presenti nelle 3.041 circoscrizioni ecclesiastiche nel mondo cattolico 406.996 sacerdoti, con una flessione di 734 unità rispetto al 2022, pari a -0,2%. In sostanza il dato è rimasto pressoché stabile. In buon aumento invece i diaconi permanenti. Nel 2023 il loro numero ha raggiunto le 51.433 unità rispetto ai 50.150 registrati nel 2022, con un incremento del 2,6%. Diminuiscono invece le religiose professe, passando da da 599.228 nel 2022 a 589.423 nel 2023, con una variazione relativa di -1,6%. E anche i candidati al sacerdozio sono passati nel pianeta da 108.481 unità nel 2022 al 106.495 nel 2023, con una variazione di -1,8%. Il calo interessa tutti i continenti, con l’eccezione dell’Africa, dove i seminaristi aumentano dell’1,1% (da 34.541 a 34.924 unità).





Giovedì, 20 Marzo 2025





Giovedì, 20 Marzo 2025

«Le icone parlano, non sono solo delle immagini; introducono ad una realtà di mistero che la comprensione umana non può racchiudere. La Sindone è un segno importante, potente. Perché la Risurrezione umanamente non si comprende, nei Vangeli non c’è la descrizione della Risurrezione, c’è l’incontro con il Risorto e con i segni della risurrezione: il sepolcro vuoto e i teli». È un passo dell’intervista al cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, raccolta in vista del progetto “Avvolti” che dal 28 aprile al 5 maggio prossimi, nell’ambito del Giubileo 2025, vedrà allestita in piazza Castello, nel cuore di Torino, una grande tenda nella quale sarà ospitata una riproduzione digitale della Sindone. Questa intervista – pubblicata anche sul settimanale diocesano torinese “La voce e il tempo”, mentre il video integrale è visibile sul sito www.avvolti.org – nasce da un incontro e da una visita. Nella festa liturgica della Sindone del 2024 l’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, custode pontificio del Sacro Telo, aveva infatti invitato Pizzaballa nel capoluogo piemontese. In quell’occasione si celebrava anche il centenario dell’Opera diocesana pellegrinaggi, che del viaggio in Terra Santa ha sempre fatto il principale obiettivo del proprio servizio.

Giovanni Paolo II ha definito questa immagine misteriosa «sfida dell’intelligenza e specchio del Vangelo». Per lei che cosa significa?

«Per me è un’icona ma anche un segno. Le icone introducono ad una realtà di mistero che la comprensione umana non può racchiudere. La Risurrezione umanamente non si comprende, nei Vangeli non c’è la descrizione della Risurrezione. Quando c’è stata la risurrezione di Lazzaro, Lazzaro è uscito dalla tomba ma era ancora legato dai teli perché era ancora sotto il potere della morte. I teli del Santo Sepolcro erano ripiegati vicino alla tomba, lontani da un corpo che non era più lì. Dunque sono segni che nello Spirito Santo Dio ha sconfitto la morte. Abbiamo bisogno di quei segni? Ecco il telo, la Sindone; ecco il segno».

Quell’immagine, come tutte le immagini, rende presente l’assente. Cioè: il Cristo è presente, ma non nei termini che noi possiamo percepire coi sensi.

«Noi siamo fatti di carne e di ossa, abbiamo bisogno di fare esperienza, di toccare, di vedere, di sentire. Il cristianesimo non è spiritualità, è mistica. Mistica vuol dire fare esperienza, toccare. Ecco, la Sindone è un po’ come i Sacramenti, una sorta di Sacramento. I Sacramenti sono segno di un’esperienza, di un incontro con Cristo. E così è anche per la Sindone. La Sindone innanzitutto ti riporta immediatamente, con la sua immagine, con la sua realtà, a duemila anni fa; e poi ti introduce dentro quella esperienza di risurrezione e di incontro con il Risorto: il Risorto che è presente. Solo che hai bisogno di sentirla, questa presenza, di toccarla, e la Sindone ti introduce a questa esperienza».

Oggi tutti noi, su Internet e non solo, consumiamo una quantità enorme di immagini. Le immagini stanno sostituendo anche le parole scritte. Questa immagine della Sindone come si colloca?

«Le immagini dei media di oggi non hanno storia. Sì, oggi si vive tutto nell’immediato, nel presente. Non solo oggi queste immagini sostituiscono la parola, ma anche i nuovi social sostituiscono il linguaggio, la relazione e così via. Ecco, la Sindone non ha nulla a che fare con tutto questo. La Sindone ha una storia e dietro la Sindone non c’è un sentimento ma un evento che è all’origine della cultura, della formazione, della fede di miliardi di persone nel mondo. Quindi già di per sé introduce una prospettiva completamente diversa, che porta fuori dall’attimo presente e conduce invece dentro la storia. E poi la Sindone richiama l’immagine di Cristo. Quindi non è un’immagine come le altre. Qualunque sia la tua fede, qualunque sia la tua relazione con Gesù, non c’è alcun dubbio che quell’immagine ti mette di fronte a Lui, quindi ha una storia e una potenza totalmente diversa».

Ma come avvicinarsi a un’immagine che dia senso, che sia «pesante» nella vita?

«È un’esperienza di fede, innanzitutto. Voglio dire, per chi non ha fede la Sindone è un qualcosa che può anche essere interessante dal punto di vista storico e culturale. Ma finisce lì. Per chi ha fede non è così. Per un credente la Sindone solleva tutte le domande su Gesù. E questi due aspetti – l’immagine e il significato – credo sia importante che non vengano mai separati».

La Chiesa di Torino qualche anno fa donò alla Custodia di Terra Santa una copia della Sindone, che venne custodita per un certo tempo in una cappella del Santo Sepolcro e che ora si trova al convento del Salvatore. Vista da Gerusalemme, cos’è la Sindone? E cos’è la risurrezione?

«La Chiesa, la comunità cristiana, ha sempre avuto bisogno di custodire i segni della Risurrezione. I racconti della sepoltura di Gesù sono precisi e non a caso, perché per noi oggi parlare di risurrezione è normale, siamo in un certo senso nati cristiani, e abbiamo sempre sentito dire che Gesù nasce, muore e risorge. Ma se torniamo indietro di 2000 anni, parlare di risurrezione dei morti è una cosa assolutamente inconcepibile: oggi si direbbe una fake news. Dunque, c’era bisogno di vedere. Si sapeva bene dov’era il Sepolcro, sono le donne che sono andate al Sepolcro. Poi c’erano Pietro e Giovanni che sono andati, hanno visto i teli, e così via. Il corpo era avvolto nel telo, dicono ancora i Vangeli… Sono tutti dettagli molto importanti che parlano di quell’evento. Dunque il luogo del Santo Sepolcro non è secondario. Senza il luogo non c’è l’evento! E i segni, e veniamo alla Sindone, sono in continuità. La Sindone è un segno potentissimo perché come il Sepolcro si ricollega direttamente a quell’evento. La Risurrezione non si spiega, non si può spiegare. Però puoi incontrare il Risorto. Oggi puoi fare esperienza di risurrezione guardando il Sepolcro, guardando la Sindone, incontrando realtà di vita, di risurrezione nelle persone, nelle comunità…».

Quindi facendo pellegrinaggio?

«Il pellegrinaggio è molto importante. Innanzitutto significa partire, uscire da sé. Significa cercare, fare domande, interrogarsi, incontrare. In passato il pellegrinaggio era un viaggio con molte tappe di avvicinamento, ognuna ricca di esperienze, di incontri. E poi soprattutto il pellegrinaggio in Terra Santa o alla Sindone significa venire a incontrare, come le donne del Vangelo, il Risorto».

Nel Vangelo, Simeone profetizza Gesù come segno di contraddizione. Oggi però tutta Gerusalemme, tutta la Terra Santa è segno di contraddizione.

«È vero, Gerusalemme è segno di contraddizione. Ma trovatemi un posto nel mondo dove tutto è chiaro e risolto. L’essere irrisolto, essere segno e contraddizione, è un po’ inevitabile, soprattutto per una città come Gerusalemme, che ha una vocazione così importante alla pace, all’incontro, alla vita, all’amore, al dono. Essere segno di contraddizione, di paradossi, di contrapposizione… fa parte della vita. A Gerusalemme questa realtà diventa così visibile, così dolorosa proprio perché la città è il cuore della nostra storia. Però in questo c’è anche la vocazione: dentro a quella contraddizione, essere la luce. Dentro quella paura di morte, essere la vita. E questo, sapendo che non è mai dato una volta per tutte. Non vedrai mai l’esito della tua attività, della tua azione, del tuo desiderio, ma sarai mosso non dall’esito, ma dal desiderio. Desiderio che nasce proprio dall’incontro con la Risurrezione».

Il Talmud dice che su Gerusalemme sono calate nove misure di bellezza e nove misure di dolore, sulle dieci assegnate al mondo intero. Questi «doni» vengono vissuti con una passione che diventa anche violenza.

«Dobbiamo indirizzare questa passione nel senso buono, nel senso giusto. Non dobbiamo avere paura della violenza, dei tradimenti; dobbiamo sapere che ci sono. Non essere naïf, ecco».

Torniamo ancora sulla Sindone. Quando ci sono le grandi ostensioni pubbliche arrivano persone di ogni genere. Molti vengono solo per la curiosità di vedere. Molti arrivano perché, come Filippo, vogliono vedere il Signore. L’esperienza propria della fede, come si rapporta con i segni, con la terra, con lo scandalo della guerra, delle divisioni?

«La sfida che abbiamo sempre tutti è fare unità tra fede e vita. Io credo che la fede, e in particolare la fede cristiana, è un’esperienza di salvezza, di perdono, di una vita ritrovata che non cambia nulla nella tua vita, ma cambia il modo in cui la vivi. Ecco, questa è la fede, secondo me. La fede non capisce tutto ma ha trovato quella serenità, quella chiave. Ha trovato un senso a ciò che si sta vivendo».





Giovedì, 20 Marzo 2025

La telecamera inquadra l’Eucaristia nell’ostensorio, in primo piano, mentre una voce recita l’atto di adorazione alla Santissima Trinità e la supplica ai santi angeli, in particolare agli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Sette minuti di invocazioni al termine dei quali l’inquadratura si allarga ed entra nel campo visivo un religioso, abito color caffè e testa rasata, che passa a enumerare le intenzioni di preghiera: per il Papa, per i vescovi, per la santificazione del clero e via di seguito allargandosi alla situazione del Brasile e del mondo, per altri sette minuti. Fino all’incipit del Rosario: « Avé Maria, cheia de graça, o Senhor é convosco, bendita sois vós entre as mulheres e bendito é o fruto do vosso ventre, Jesus…».

La scena si svolge a partire dalle 4 di mattina, ogni mattina, in una cappella della parrocchia di Nostra Signora del Carmelo, nella periferia sud di San Paolo, Brasile, diocesi di Santo Amaro. È il Rosario per la quaresima guidato da frei (fra) Gilson, al secolo Gilson da Silva Puppo Azevedo, 39 anni, frate dei Carmelitani Messaggeri dello Spirito Santo. Ha preso il via il Mercoledì delle Ceneri e viene trasmesso su principali social network, nei canali di frei Gilson. Chiamarlo Rosario è però riduttivo, perché la diretta streaming dura ben quattro ore e comprende alla preghiera mariana, canti, momenti di adorazione, meditazioni, letture bibliche e infine la Messa: una vera immersione in Dio prima di iniziare la giornata, prima di recarsi al lavoro o a scuola, affidando a Lui le proprie aspirazioni e le proprie preoccupazioni. Ma anche detta così sembrerebbe una lodevole iniziativa spirituale come ce ne sono tante sul web, anche se non molte di tale durata. La singolarità sta nel fatto che mercoledì 5 marzo più quattro di milioni di persone hanno seguito la trasmissione di frei Gilson, tutta o in parte, alcuni l’hanno vista in differita al pomeriggio o alla sera. Nei giorni successivi i numeri sono scesi, ma si contano sempre tra i due e tre milioni di persone che ogni giorno si radunano online e pregano insieme.


«Ero evangelico e ci sono giorni in cui la mia anima arde dal desiderio di tornare alla Chiesa cattolica», «Prego per la conversione della mia famiglia e la guarigione dalle dipendenze di mia madre e del mio ragazzo», «Non sono cattolico, ma seguo il Rosario e mi dà la pace che cerco», « Oggi è il mio 18esimo compleanno, niente di meglio che svegliarmi e ringraziare Dio per un altro anno di vita», «Chiedo la vita del mio bambino, sono incinta di 2 mesi, il medico ha detto che potrei aver avuto un aborto spontaneo, ho molto sanguinamento e coliche da sabato, chiedo a Dio e a tutti i santi di salvare il mio bambino e di non portarmelo via. Credo che Gesù Cristo farà questo miracolo per me, oggi farò l’ecografia per sapere cosa è successo». Questo è il tenore dei commenti sulla pagina YouTube del Rosario, oltre tremila ogni giorno, un profluvio di lacrime, ringraziamenti e lodi, uno scorcio suggestivo sulla fede pulsante di un popolo.

L’entità della partecipazione a questo appuntamento ha fatto notizia sui media nazionali, ma non è una reale sorpresa per chi segue la vita ecclesiale. Frei Gilson è un personaggio da 8,2 milioni di follower su Instagram, 6,3 milioni su YouTube, 2,4 milioni su Facebook. Cammina su una strada aperta negli ultimi 20 anni da sacerdoti come Marcelo Rossi (anche lui della diocesi di Santo Amaro), Fábio de Melo (dehoniano) o Reginaldo Manzotti, popolarissimi in Brasile, predicatori e cantanti insieme, capaci di appassionare masse di fedeli seguendo lo stile del rinnovamento carismatico cattolico – musica moderna, curata e di impatto, devozioni della tradizione, culto eucaristico e anelito missionario – e che hanno mostrato come la Chiesa possa tenere il passo del mondo evangelico-pentecostale, la cui avanzata in Brasile è stata epocale: nel 1994 i brasiliani che si identificano come cattolici erano il 75% della popolazione, nel 2022 erano il 51% secondo uno dei rilevamenti recenti più attendibili. Il vescovo di Santo Amaro, l’italiano Giuseppe Negri, missionario del Pime, ha preso parte alla preghiera di Frei Gilson giovedì scorso ribadendogli l’appoggio suo e dei vertici ecclesiali.

Se il suo successo non è una reale sorpresa, anche il Rosario alle 4 di mattina non è una vera novità, frei Gilson lo guida ogni venerdì durante l’anno e c’è già stata un’altra esperienza di 40 giorni consecutivi, quella per la quaresima in onore di san Michele, tra il 15 agosto e il 29 settembre, quaresima che era cara anche san Francesco d’Assisi e durante la quale ricevette le stimmate. L’idea di un orario così impegnativo per pregare viene invece da una debolezza personale del religioso paulista, come ha raccontato più volte: entrato in convento, uno degli aspetti che più gli pesavano della nuova vita era alzarsi presto la mattina, così un giorno chiese e ottenne dal direttore spirituale, come penitenza quaresimale, il permesso di svegliarsi per recitare il Rosario nel cuore della notte. Da lì tutto è partito.

La fioritura di questo apostolato rimanda infine alla vitalità della giovane congregazione a cui appartiene frei Gilson. A fondarla è stata da Madre Maria Giuseppe dello Spirito Santo (Eudette Rodrigues Santana), oggi 84enne, già carmelitana scalza a Rio de Janeiro, che da suora di clausura sentì la chiamata a dare vita una famiglia religiosa che declinasse il carisma contemplativo del Carmelo in una vita missionaria. Nel 1984 nacque il ramo femminile, che oggi conta circa 200 suore, nel 1994 il ramo maschile, con attualmente circa 70 religiosi. Sono presenti anche in Italia, i frati in provincia di Perugia (a Nocera Umbra e nelle frazioni di Nocera Scalo e Case Basse), le suore a San Giovanni La Punta (Catania), Squillace (Catanzaro), Vitulazio (Caserta), Antrodoco (Rieti) Roma e Assisi. E dove vanno portano il calore del cattolicesimo verde oro.






Mercoledì, 19 Marzo 2025

L’immagine di Babele è un rovello. La sfida drammatica di Genesi 11 ci insegue, ma continuiamo a non rispondere, perché – forse – non lo capiamo. I linguaggi non hanno più trasparenza, sono cecità di significato contro i valori di senso. E determinano, alla fine, parole di odio. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, l’allora prefetto della Biblioteca Ambrosiana Gianfranco Ravasi partiva da qui, dalla Bibbia, per esortare a una “Pentecoste della comunicazione”. Adesso, in pieno villaggio digitale, il francescano Paolo Benanti ci ammonisce sul “crollo di Babele”: il progetto umano ipertecnologico che vuole unire l’umanità in un’unica opera, cultura e lingua, collassa, disperde i popoli e li rende incapaci di intendersi.

È l’urgenza di riprendere tra mano i codici originari che sembrano smarriti. È la centralità della relazione, ci ricordano le Scritture, a fondare la comunicazione. Siamo iperconnessi, ma viviamo relazioni malate, spesso tossiche: in famiglia; nella vita di coppia; sul lavoro; spesso e volentieri anche nella comunità ecclesiale. Il linguaggio si sta erodendo, non è nitido, ma ambiguo; preferiamo non ascoltare, con il risultato che si moltiplica l’incapacità di gestire rapporti adulti. Il cardinale Martini amava l’espressione “folla delle solitudini”. «Fools said I you do not know, silence like a cancer grows». Ho riascoltato recentemente The sound of silence di Paul Simon e Art Garfunkel, lanciata nel lontano 1966. Per me, inesorabile boomer, una melodia emozionante. Nell’ossimoro del titolo, il suono del silenzio, c’è il tema, attualissimo, dell’incomunicabilità, del timore-tremore di restare soli con noi stessi.

Nella Bibbia – e in particolare nella vita dell’errante Rabbi galileo – troviamo invece la declinazione di quei verbi su cui potremmo intraprendere una rigenerante logopedia esistenziale. Come cittadini, come operatori della comunicazione, specie in Santa Romana Chiesa: parlare, con tutti i termini e i vocaboli che indicano la parola; e poi udire, ascoltare, vedere. Il Cantico dei cantici, nella bellezza descrittiva dell’unione tra uomo e donna, suggerisce anche la generatività della comunicazione. Tutto il contrario della deriva che stiamo vivendo in più ambiti per effetto del “marketing dell’ignoranza” – da poco descritto da un efficacissimo saggio dell’economista Paolo Guenzi, docente alla Bocconi – con le distorsioni provocate dalla “massificazione dell’eccentricità” e dalla “amazonizzazione delle aspettative”.

«Niente nostro che sei nel niente/ Niente sia il tuo nome/ Niente sia il tuo Regno/ Niente la tua volontà…».

Questa parafrasi del Padre Nostro, la più aspra che mai abbia osato la letteratura è pronunciata dal cameriere di un bar nel racconto di Ernest Hemingway «Un posto pulito e illuminato bene». Lo fa a tarda notte, dopo che con un collega più giovane si era trovato a gestire un avventore anziano, reduce dal tentativo di un suicidio, che aveva ingollato un brandy dopo l’altro. Siamo tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta del secolo scorso. Hemingway scrisse il racconto quando Hitler saliva al potere. Il nulla stava avanzando impetuoso. Oriana Fallaci, nel 1969, riprese il tema dopo i suoi reportage dal Vietnam con il libro «Niente. E così sia». Il desiderio di luce e di pulizia di quel cameriere – un posto pulito e illuminato bene – era il residuo di speranza che rimaneva. E rimane ancora oggi, in questa prima parte di millennio dove instabilità e inatteso stanno diventando elementi strutturali delle nostre vite (guerre, pandemie, crisi economiche).

Siamo nell’Anno giubilare della speranza, che papa Francesco basa sui testi paolini. Spes non confundit, la speranza non delude. Comunicarlo, in modo convincente, diventa anche una preziosa virtù civica: un imperativo categorico, un ingrediente deontologico. Ho contribuito alla mostra itinerante “Comunicare la speranza. Un’altra informazione è possibile” promossa dalla Società San Paolo e dalla Figlie di San Paolo e inaugurata in Vaticano proprio durante il Giubileo della comunicazione. L’impegno per una comunicazione di speranza – questo è il ragionamento che ha guidato me e il collega Gerolamo Fazzini con cui ho lavorato ai testi – è una passione che supera il confine tra credenti e non credenti. È passione civica per la ricerca della verità, per la difesa convinta della democrazia.

Mi preme ancora un aspetto: “il registro” della comunicazione. Siamo chiamati a vivere questo tempo presente e a volergli bene, rendendo ragione di ciò in cui crediamo, soprattutto della “speranza che è in noi” (1Pt 3,15). Ma come? Senza sentirci cittadella assediata e pronti a graffiare. Un allora giovane teologo subalpino, Roberto Repole, nel 2010 aveva opportunamente parlato di via humilitatis, la via dell’umiltà. Sì, perché la comunicazione, ci insegna la Bibbia, è una postura autorevole che affonda le radici in una buona relazione con l’altro.

giornalista e saggista






Mercoledì, 19 Marzo 2025

La Bibbia è un libro – o meglio, un libro di libri – che dice qualcosa sul diritto, cioè sulla regolamentazione della vita sociale. Ed è fin troppo evidente: la storia del popolo dell’Alleanza – come la storia di ogni popolo – può essere interpretata nei termini di un’esperienza giuridica, vale a dire di un diritto vissuto, sperimentato, trasmesso dalle donne e dagli uomini, in tempi e in luoghi tra i più lontani e diversi. La Bibbia può aiutare a comprendere il funzionamento del diritto meglio di uno dei tradizionali manuali in circolazione per gli studi giuridici. Il motivo è semplice: i manuali parlano solo del diritto senza toccare la vita, la Bibbia parla del diritto attraverso la vita.

Certo, ciascuna e ciascuno di noi, ieri come oggi, può strumentalizzare i diversi libri, capitoli e versetti della Bibbia, piegandoli alle proprie sensibilità intellettuali e culturali: ci si ritrova facilmente il Dio che è, al contempo, legislatore supremo e giudice; un Dio che alle volte punisce, e pure in maniera spietata e vendicativa, alle volte usa misericordia. Violenza e amore, castigo e compassione, guerra e pace, in questo contesto persino la concezione retributiva della pena («occhio per occhio, dente per dente») convive una visione riparativa del danno inflitto. Insomma, molteplici teorie sul diritto e sulla giustizia trovano senza troppe difficoltà una fonte di ispirazione a partire dal dato biblico.

Può sembrare che la babele del linguaggio corrisponda alla babele del diritto; o meglio, dei diritti. In realtà, in questa contraddizione c’è tutta l’umanità: si può partire dalle pagine sacre per comparare diversi modelli di giustizia, valutare i pregi e i difetti, e così esercitarsi al pluralismo dei valori e delle idee. Non è questa, forse, una vera e propria palestra di democrazia?

Eppure, tra le tante visioni tra di loro in competizione, una può essere considerata comune: è la visione antropologica che si dà sul diritto e sulla giustizia. Nella Bibbia le regole, in quanto tali, sono funzionali alla vita sociale. Una società non può essere data senza regole e le regole non si possono dare senza una società. Questa lettura (già nota ai romani, e che oggi definiremmo “istituzionalistica”) riconduce le norme ad un contesto di giustificazione “relazionale”. Con parole semplici: le norme nascono dall’incontro con l’Altro e con l’altro; dalla proiezione dell’Ulteriorità assoluta nell’alterità interpersonale. È facile cogliere la natura del diritto quale incontro, dialogo, momento di un necessario decentramento da sé stessi. Il diritto non può essere espressione di egoismi e di individualismi. Per questo motivo, la memoria degli orrori nazisti e fascisti conduce ad interpretare la legge in senso egualitario, nel riconoscimento dei diritti a tutte e a tutti, senza discriminazioni, alla luce della dignità della persona umana. La tragedia della Seconda guerra mondiale ha ricordato che c’è una legge naturale che iscrive la stessa volontà del Dio biblico in un ordine di giustizia.

I diritti umani nascono da questa consapevolezza ed esprimono la dimensione relazionale delle donne e degli uomini. Il diritto si definisce a partire da tale relazione e, in una virtuosa circolarità, provoca, custodisce, cura, ricompone la relazione.

Pur se interpretato come un prodotto della volontà di Dio, il diritto biblico, in fin dei conti, rimane esperienza per davvero “umana” nel suo presentarsi contraddittoria e frammentata. Non deve sorprendere ciò: la creatura partecipa attivamente all’opera del Creatore, anche per quanto riguarda il processo di produzione della norma. Ne consegue che le donne e gli uomini non sono tanto destinatari di una regola che proviene dall’alto, quanto soggetti che producono diritto, perché a immagine e somiglianza del Legislatore. Probabilmente, nei nostri ordinamenti confessionali – come il diritto canonico - potremmo pensare di iniziare a fare a meno della nozione di diritto divino, che blocca i processi di riforma delle istituzioni.

Più che una volontà immutabile, il diritto biblico appare in continua evoluzione. Il salto da una giustizia che punisce ad una giustizia che trasforma, persino in termini escatologici, è facilmente rintracciabile nel passaggio dal Primo al Secondo Testamento, in una linea di continuità giuridica mantenuta: Gesù non ha intenzione di modificare la legge ebraica, ma offre ad essa una nuova interpretazione alla luce della legge della carità. Persino la parola “perdono” acquisisce un significato inedito, che nella relazionalità giuridica ha a che fare con la misericordia, con l’amore, con la fiducia, con la speranza, con il futuro. Questi ultimi sono i lemmi di un vocabolario giuridico troppo spesso dimenticato, anche nelle nostre aule di Giurisprudenza, a favore di una cultura del diritto definita “tecnica”, che spacchetta in quattro i commi delle leggi, ma si dimentica delle esigenze che maturano nei contesti esistenziali e sociali. La Bibbia, al contrario, parte dalla multiforme e incoerente realtà della vita umana per presentarci le coordinate di una giustizia trasformativa, capace di convertire le spade in aratri e le lance in falci (Isaia 2,4). Un diritto di pace.

docente di Diritto e religione nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa






Mercoledì, 19 Marzo 2025

In occasione della Solennità di san Giuseppe la Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, a nome dei vescovi italiani diffonde il Messaggio per la festa dei lavoratori che si celebra il Primo Maggio. Il tema di quest'anno è "Il Lavoro, un'alleanza sociale generatrice di speranza". Un messaggio che affronta le sfide che il mondo del lavoro deve risolvere: dal lavoro da remoto, alla disoccupazione, dai lavori poveri ai problemi di conciliabilità tra lavoro e vita familiare. Di seguito il testo del Messaggio

Il lavoro, un'alleanza sociale generatrice di speranza.

La Festa dei Lavoratori, in questo Anno giubilare, vuole offrire orizzonti di speranza agli uomini e alle donne del nostro tempo, consapevoli «che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo» (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 3). La tutela, la difesa e l’impegno per la creazione di un lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, costituisce uno dei segni tangibili di speranza per i nostri fratelli, come Papa Francesco ci ha indicato nella Bolla di indizione dell’Anno giubilare (cf. Francesco, Spes non confundit, 12).

L’esperienza della pandemia ci ha consegnato un modo di lavorare nel quale è possibile coniugare in molte circostanze lavoro in presenza e a distanza, aumentando la nostra capacità di conciliare vita di lavoro e vita di relazioni soprattutto nel cosiddetto smart-working, ma rischiando anche di impoverire i rapporti umani tra i lavoratori e le stesse relazioni familiari. Un effetto strutturale e fondamentale lo sta esercitando la grave crisi demografica, per la quale vedremo nei prossimi anni uscire dal mercato del lavoro la generazione più consistente, sostituita progressivamente da un numero sempre più ridotto di giovani. Allo stesso tempo, accade qualcosa di paradossale, ossia lo sfruttamento di fratelli immigrati, dimenticando che la loro presenza può costituire un motivo di speranza per la nostra economia, ma solo se verranno integrati secondo parametri di giustizia. Inoltre, oggi, con quello che viene chiamato mismatch, ossia il disallineamento tra domanda e offerta, assistiamo contemporaneamente al fenomeno di posti di lavoro vacanti, che non trovano personale con le necessarie competenze, e giovani disoccupati che non hanno i requisiti adatti. Resta sullo sfondo, infine, la dura «legge di gravità» della competizione globale per la quale le imprese cercano di localizzarsi laddove i costi (quello del lavoro incluso) sono più bassi. E questo alimenta una spirale al ribasso su costo e dignità del lavoro.

Se il dato statistico sulla disoccupazione, in forte calo, potrebbe spingere all’ottimismo, sappiamo invece che dietro persone formalmente occupate c’è un lavoro povero. Occorre, infine, considerare la situazione delle donne, che in alcuni ambiti vengono penalizzate non solo con una minore retribuzione, ma anche con l’assenza di garanzie nei tempi della gravidanza e della maternità. Non ci sarà piena giustizia, infine, senza sicurezza sul lavoro, la cui mancanza fa ancora tante vittime. Per dare speranza occorre invertire queste tendenze: sarà uno dei segni più rilevanti del Giubileo.

Esistono tuttavia segni di speranza da alimentare per essere generativi e per far nascere e promuovere lavoro degno ma, come sempre, essi richiedono la nostra partecipazione attiva per proseguire l’opera della Creazione. Un segno di speranza è il riconoscimento nei contratti di lavoro nazionali dell’importanza della formazione permanente e della riqualificazione durante gli anni di lavoro. È necessario valorizzare, inoltre, lo strumento degli stessi contratti per impiegare le risorse a disposizione anche in forme di welfare e di assicurazione attenti alle emergenze sanitarie e familiari. È segno di speranza la creazione di relazioni virtuose tra datori di lavoro e lavoratori, dove il dialogo, la riconoscenza, i meccanismi di partecipazione, alimentano fiducia e cooperazione mettendo in moto le motivazioni più profonde della persona e facendo crescere la forza dell’impresa e la qualità del lavoro.

Come Chiesa abbiamo sentito, in questi anni, la responsabilità di impegnarci su questo fronte, non solo assicurando vicinanza e conforto a chi è in difficoltà, ma contribuendo a creare «un’alleanza sociale per la speranza che sia inclusiva e non ideologica» (Spes non confundit, 9). Lo abbiamo fatto anche con visioni che donano prospettive di speranza, come quelle dell’economia civile, e investendo in interventi generativi, volti alla creazione di una cultura del lavoro e di opportunità, come il Progetto Policoro, con il quale da trent’anni la Chiesa in Italia investe su giovani animatori di comunità formati per impegnarsi nelle loro diocesi. Negli ultimi anni essi hanno operato nel solco dell’ecologia integrale, che guarda alla sostenibilità e all’interdipendenza tra dimensione sociale ed ecosistema. Dal Progetto Policoro sono nati frutti significativi e imprese capaci di stare sul mercato e di promuovere lavoro degno anche nelle aree del Paese più disagiate.

Non ultimo, appare opportuno un appello alla responsabilità di tutti noi. L’economia e le leggi di mercato non devono passare sopra le nostre teste lasciandoci impotenti. Il mercato siamo noi: sia quando siamo imprenditori e lavoratori, sia quando promuoviamo e viviamo un consumo critico. La responsabilità sociale d’impresa è oggi un filone sempre più consolidato grazie anche agli interventi regolamentari che impongono alle aziende un bilancio sociale e prendono le distanze da comportamenti furbeschi volti solo alla speculazione. I credenti e tutti i cittadini di buona volontà sono chiamati in questo contesto propizio a stimolare le aziende a gareggiare tra loro anche sulla dignità del lavoro e a usare l’informazione sui loro comportamenti come criterio per le scelte di consumo e di risparmio.

La «mano invisibile» del mercato non è sufficiente a risolvere i gravi problemi oggi sul tappeto. È la nostra mano visibile che deve completare l’opera di con-creazione di una società equa e solidale e continuare a seminare speranza. Infatti, «i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza» (Spes non confundit, 7).

Roma, 19 marzo 2025 Solennità di san Giuseppe

La Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace





Mercoledì, 19 Marzo 2025

Nel Vangelo bastano pochi tocchi, o meglio è sufficiente un unico aggettivo per definire san Giuseppe: egli è l’uomo “giusto”. Ma quale fondamento ha questa virtù, dove si trovano le sue radici? Risponde il nuovo episodio del podcast Taccuino celeste che si sofferma anche sul significativo del termine padre “putativo” e sul ruolo che hanno i sogni nella vita del falegname di Nazareth, cioè veri e propri messaggi divini che lo rendono partecipe del piano di salvezza di Dio. E poi spazio ad altre domande: quanti anni aveva san Giuseppe quando nacque Gesù? È vero che nei Vangeli non parla mai? Quali Papi in particolare gli sono stati devoti? La Cartolina da Camaldoli, affidata ai monaci benedettini della comunità toscana riflette sul modello di vita illuminata dalla grazia offerto da san Giuseppe e sulla sua attualità.

Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di cosa pensa la Chiesa della cremazione, del digiuno cristiano, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo.

Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it





Martedì, 18 Marzo 2025

Immergersi nella bellezza della basilica di San Pietro, scoprendone la storia e le curiosità, magari cimentandosi anche in un’esperienza interattiva di restauro. Sono solo alcune delle possibilità attraverso cui i ragazzi di tutto il mondo potranno conoscere la basilica vaticana con l’utilizzo del gioco e della intelligenza artificiale. E questo grazie a “Peter Is Here”, una nuova esperienza di apprendimento interattivo all’interno della piattaforma Minecraft Education, in collaborazione con La basilica di San Pietro, Città del Vaticano e Microsoft. Capitalizzando l’esperienza del progetto presentato a novembre “La Basilica di San Pietro: AI-Enhanced Experience”, Peter Is Here invita gli studenti a esplorare la storia della basilica attraverso gli avvenimenti chiave, «combinando innovazione e tradizione a vantaggio degli studenti», le parole con cui ha aperto la conferenza stampa di presentazione ieri a Roma Padre Enzo Fortunato, presidente del Pontificio comitato per la Giornata mondiale dei bambini, che lancia l’idea che questo «possa essere il gioco ufficiale per la seconda Giornata mondiale dei bambini nel settembre 2026».

Avvicinare la tecnologia alla persona, in più imparando mentre ci si diverte, «armando i cuori di fraternità e bellezza si può, sotto il patrocinio di San Giuseppe, lui che è stato l’educatore per eccellenza». Il cardinale Mauro Gambetti, arciprete della basilica di San Pietro, vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano, e presidente della Fabbrica di San Pietro vede in «bellezza, creatività e fraternità» le tre parole chiave del progetto, che consente «con il gioco di avvicinarsi gli uni agli altri, avvicinandosi in questo modo anche a Dio». Ma anche unendo virtualmente tutti i ragazzi del mondo alla cultura, aggiunge in un messaggio video Brad Smith, vice chairman e presidente di Microsoft, secondo cui si è riusciti «a consegnare la cultura, la religione e il patrimonio di questa meravigliosa istituzione nelle mani dei bambini di ogni paese del mondo».

Peter is Here è disponibile per tutti gli utenti con licenza nella library di lezioni di Minecraft Education. Studenti e insegnanti possono accedere infatti gratuitamente a una versione prova di Minecraft Education scaricando l’applicazione e accedendo con il proprio account Office 365 o Microsoft 365 Education. «Il gioco può essere un potente strumento educativo – conferma monsignor Carlo Maria Polvani, segretario del dicastero per la Cultura e l’Educazione – perché attraverso l’aspetto ludico diventa uno strumento di cultura che permetterà a tutti gli studenti del mondo di conoscere uno dei luoghi maggiormente carico di storia».

Le scuole cattoliche di tutto il mondo (attraverso Fidae) e le scuole in tutta Italia saranno tra le prime a integrare l’esperienza di Minecraft Education nei loro programmi scolastici. A confermarlo Mauro Antonelli, capo della segreteria Tecnica del ministero dell’Istruzione e del Merito, che ha parlato di «connubio vincente tra il gaming, spesso visto con accezzione negativa e alienante, e la cultura. Tanto che per la sua inclusività e trasversalità stiamo pensando ad un modo per inserirlo nel Giubileo del mondo educativo a novembre». Ad entrare nel dettaglio del videogioco Allison Matthews responsabile di Mincraft Education di Microsoft, spiegando come il giocatore avvicinandosi ad ogni angolo della basilica avrà molte possibilità di conoscenza e definendo “Peter is Here” come «esperienza di preservazione culturale».





Martedì, 18 Marzo 2025

Il 19 gennaio 2025, in un articolo su Avvenire, Antonio Spadaro, gesuita e sottosegretario del Dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione, ha evidenziato la necessità per la Chiesa di non limitarsi a «porti sicuri», ma di abitare «luoghi esposti a venti e burrasche», sviluppando una teologia capace di rispondere dinamicamente ai rapidi cambiamenti della società. Ha quindi proposto il concetto di teologia rapida, un pensiero teologico che, senza rinchiudersi in spazi di sicurezza, abita il flusso accelerato della contemporaneità e reagisce alle rapide della storia.

Questa esigenza ha radici profonde nel mondo della cultura. Già Ezra Pound, con il suo Vortex, vedeva l’arte come un centro energetico in cui idee, immagini e influenze si scontrano e si fondono, generando qualcosa di nuovo. Il poeta non è un semplice osservatore, ma un attore attivo, capace di anticipare le trasformazioni del suo tempo. Questo concetto si ritrova nel Vorticismo, movimento artistico modernista influenzato dal Futurismo e dal Cubismo, dove l’arte non è contemplazione, ma un campo di forze in continuo mutamento. Negli anni ’60 del XX secolo Marshall McLuhan sviluppa la Dew Line - Distant Early Warning Line, ispirata al sistema radar della Guerra Fredda, per descrivere il ruolo dell’artista nella società. Per McLuhan gli artisti sono sensori anticipatori, in grado di intercettare e decodificare i segnali del cambiamento prima che diventino evidenti alla massa. Vortex e Dew Line condividono una visione comune: arte e letteratura sono strumenti di percezione avanzata. Analogamente, Spadaro propone che la teologia adotti questa stessa logica, trasformandosi in un’intelligenza attiva che abita il presente. Non più semplice archivio di saperi, ma un dispositivo capace di leggere e interpretare il contemporaneo.

Tuttavia, come per Pound e McLuhan, esiste un rischio: la sovraesposizione alla velocità e al flusso delle informazioni potrebbe compromettere il discernimento della teologia, riducendola a una reazione immediata, priva di radicamento. La sfida è dunque trovare un equilibrio tra riflessione profonda e reattività al tempo presente.

Se Pound vedeva il poeta come un canale dell’energia culturale e McLuhan l’artista come radar del futuro, la teologia rapida può essere intesa come un’ermeneutica del presente, capace di interrogare i cambiamenti e offrirne una lettura significativa. Il suo obiettivo non è solo inseguire l’accelerazione della storia, ma orientarla, dando senso alla complessità contemporanea.

Una teologia rapida, quindi, non può limitarsi a essere una cronaca del presente, ma deve mantenere una capacità di lettura profonda, evitando di diventare un semplice specchio delle mode culturali. Questo significa abitare il tempo senza esserne risucchiati, distinguere ciò che è contingente da ciò che è essenziale, riconoscere nei fenomeni culturali quei segni che indicano una direzione, piuttosto che limitarsi a registrarne le oscillazioni. In questa prospettiva, la teologia rapida non sarebbe affatto una teologia superficiale, ma un’intelligenza capace di discernere il nuovo senza perdere il legame con la profondità del sacro. Il suo compito, infatti, non è solo quello di seguire le dinamiche del mondo, ma di orientarle, offrendo alla cultura contemporanea un punto di riferimento che sappia rispondere alla complessità senza rinunciare alla verità.

In questo scenario, Gillo Dorfles, con il concetto di Horror pleni, mette in guardia contro la saturazione comunicativa, che invece di generare significato produce dispersione e caos. Se la teologia si limitasse a reagire in modo istintivo, rischierebbe di perdere il suo radicamento esegetico e critico, adattandosi alle logiche del consumo culturale anziché elaborare risposte strutturate e significative.

Per evitare questa deriva, la teologia rapida potrebbe ispirarsi alla noosfera di Pierre Teilhard de Chardin. Il gesuita e paleoantropologo francese vede l’umanità come un processo evolutivo in cui la conoscenza e le interconnessioni portano a una coscienza globale orientata verso un punto Omega, un compimento spirituale che unifica esperienza, sapere e trascendenza. Teilhard, anticipando l’era digitale, distingue tra accumulo di dati e conoscenza orientata. Se l’horror pleni rappresenta il caos informativo, la noosfera offre una prospettiva di sintesi e discernimento, distinguendo ciò che porta crescita spirituale da ciò che è solo rumore. In questo contesto, la teologia rapida può evitare la superficialità se non si limita a adattarsi passivamente alle dinamiche culturali, ma sviluppa una capacità di discernere i segnali autentici da quelli effimeri, riconoscendo nei fenomeni contemporanei non solo il cambiamento, ma la direzione verso cui esso conduce. Teilhard de Chardin ci insegna che l’evoluzione non è solo biologica, ma anche spirituale. Se la teologia rapida saprà ispirarsi a questa visione, potrà diventare un’intelligenza vivente, capace di intercettare il cambiamento senza perdere il legame con la tradizione. Potrà essere reattiva ma consapevole, dinamica ma solida, in grado di rispondere alle sfide della contemporaneità senza sacrificare la profondità della riflessione.

In definitiva la teologia rapida, assumendo il ruolo dell’artista-intellettuale come sensore delle dinamiche culturali, ha il potenziale di trasformarsi: così come l’arte è in grado di cogliere le mutazioni del linguaggio prima ancora che diventino evidenti, la teologia deve affinare la propria capacità di ascoltare, interpretare e rispondere alle sfide del presente.

Tuttavia, questa agilità non deve tradursi in un’adesione acritica alla velocità del mondo. Se la teologia aspira a mantenere la sua funzione orientativa, deve riappropriarsi del discernimento, evitando sia l’inerzia accademica sia il rischio di una deriva populista. Teilhard de Chardin offre una chiave di lettura essenziale: la coscienza umana è in evoluzione verso una sintesi superiore.

La teologia rapida, allora, non dovrebbe essere solo una risposta alle urgenze del presente, ma un metodo per orientare il futuro. Se riuscirà in questo compito, allora potrà davvero diventare non solo un sapere in dialogo con il presente, ma una teologia capace di illuminare il futuro per una Chiesa che non subisce il tempo, ma lo guida.

docente e pedagogista

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Lunedì, 17 Marzo 2025

«Servo di tutti». Usa queste parole nell’omelia il nuovo vescovo di Cesena-Sarsina, Antonio Giuseppe Caiazzo, per fare intendere con quale stile intende porsi verso la porzione di Chiesa a lui affidata. L’ingresso in diocesi si è tenuto domenica scorsa - 16 marzo - in una Cattedrale, a Cesena, che non contiene i tantissimi fedeli presenti. In prima fila ci sono da una parte autorità civili e militari guidate dal prefetto di Forlì-Cesena, Rinaldo Argentieri e dal sindaco di Cesena, Enzo Lattuca, che poco prima l’ha accolto in piazza del popolo assieme ai sindaci del territorio e gli ha donato una bicicletta. Dall’altra la foltissima schiera di familiari e amici giunti da ogni parte d’Italia. Davanti a loro, trovano posto diverse persone disabili che il nuovo presule abbraccia a uno a uno prima dell’inizio della liturgia. Concelebrano 15 vescovi con il presidente della Conferenza episcopale dell’Emilia Romagna, l’arcivescovo di Reggio Emilia-Guastalla Giacomo Morandi, e oltre cento sacerdoti. Sull’altare anche una cinquantina di diaconi.

L'arcivescovo Caiazzo, che arriva a Cesena dopo nove anni trascorsi nella diocesi di Matera-Irsina e due anche in quella di Tricarico unita in persona episcopi, succede al vescovo Douglas Regattieri che ha guidato Cesena-Sarsina per 14 anni e ha lasciato per raggiunti limiti di età. «Si aprono davanti a te le porte dei cuori del territorio – dice il vescovo emerito rivolto al confratello, prima del passaggio di pastorale – che pulsa di vitalità imprenditoriale, di freschezza, di creatività, di gioiosità tipica della gente romagnola».

Al suo mare, in particolare a quello di Steccato di Cutro, nel cuore della Calabria, l'arcivescovo Caiazzo fa riferimento spiegando quale croce ha voluto baciare all’arrivo, in Cattedrale. Qualche mese, dopo la tragedia che si consumò nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, «raccolsi su quella spiaggia due pezzi di legno di quella barca e li inchiodai a forma di croce. Oggi ho voluto baciare quella Croce per ricordare i tanti crocifissi innocenti in tutto il mondo». Poi aggiunge, «mi inginocchio davanti alla sofferenza presente nei tanti calvari degli ospedali, delle cliniche e delle case di riposo, e nelle famiglie» e rivolge un saluto e un augurio anche a papa Francesco «perché possa tornare presto a guidare la Chiesa di Gesù Cristo nel pieno delle sue forze».

«Il mio compito – descrive la sua missione Caiazzo – è stare con il gregge che il Signore mi affida, che oggi si chiama Cesena-Sarsina, comunità che diventa la mia terra e il mio popolo, che già amo e che mi impegno a servire», con il desiderio di «camminare insieme», a cominciare dal pellegrinaggio diocesano a Roma di sabato prossimo in programma da tempo. Il vescovo viene per condividere un tratto di strada e «la storia di questa terra di Romagna – dice il nuovo pastore – che ha affrontato tante prove soprattutto negli ultimi anni a causa di alluvioni, ma continua a brillare». Rivolto ai laici, specifica, che sono chiamati a portare la testimonianza cristiana «come lievito che fermenta la pasta», per costruire «ponti di fraternità, seminando pace nei solchi della nostra storia».

Prima di consegnarsi alla protezione della Madonna del Popolo, patrona della diocesi, monsignor Caiazzo ricorda i giovani incontrati il giorno precedente all’abbazia benedettina del Monte. «A voi che mi avete confortato ieri sera, dico: voglio attingere alla vostra forza e vivere con voi come viandante di speranza»Poi aggiunge, fuori testo, «non avrei mai immaginato di incontrare tanti giovani (oltre mille, ndr). Sappiate che io ci sono».





Lunedì, 17 Marzo 2025

Erano i primi anni ’70 quando Guglielmo Motolese, l'allora arcivescovo di Taranto, nell’imponente Cattedrale Gran Madre di Dio, progettata da Gio Ponti, inaugurò la prima Settimana della Fede per garantire alla comunità jonica formazione umana, sociale e spirituale durante la Quaresima.

Quest’anno la 53ª edizione, che vede ogni sera relatori diversi, ha per filo conduttore “la cultura dell’incontro”. Una scelta non casuale. L’ascolto dell’altro come antidoto alle guerre, quelle nel mondo e quelle del quotidiano.

Un appuntamento, quello di quest’anno, che vuole inserirsi anche nel solco del Giubileo. Abbiamo bisogno di formarci e camminare insieme come pellegrini di speranza. "Il messaggio stavolta – ha detto durante la presentazione in episcopio l’arcivescovo della diocesi ionica, Ciro Miniero - è quello di poter cogliere quali sono i dinamismi che stanno alla base di tensioni che stanno rendendo difficile la vita del mondo intero. Le tensioni sono normali nella vita, ci indicano diversità di vedute ma il problema è se dalle diversità si arrivi a vivere uno contro l’altro. E allora bisogna riflettere su questo, per cercare invece i motivi dell’incontro e non dello scontro”.

Si parte oggi - 17 marzo - alle 19 con don Filippo Belli, docente di Sacra Scrittura alla Facoltà teologica dell’Italia centrale di Firenze che incentrerà il suo intervento su cosa sia l’incontro e quanto sia essenziale nel rapporto tra società e comunità, alla luce della Parola. Martedì 18 marzo toccherà al rettore della Lumsa, Francesco Bonini, soffermarsi sulla necessità di favorire l’incontro in tre ambiti: cultura, economia e politica.

Mercoledì 19 marzo sarà ospite a Taranto il vice presidente della Comunità di sant’Egidio, Cesare Zucconi. Attraverso la sua testimonianza, racconterà della Chiesa promotrice dell’incontro con l’altro.

Giovedì 20 marzo il format cambia, con una serata di testimonianze. Cristina Castronovi, parlerà della sua esperienza di volontaria di “Operazione Colomba”, corpo non violento di pace della “Comunità Papa Giovanni XXIII”, poi l’intervista a Gennaro Giudetti, operatore umanitario già impegnato nei soccorsi in mare e in scenari di guerra, che attualmente si trova Gaza e racconterà anche dell’emergenza in corso e infine le parole di Stefano Capogna, luogotenente della Guardia di Finanza, che ha svolto il suo incarico a Lampedusa, Pantelleria, La Maddalena, Pesaro e Genova, pluripremiato per il valore e il merito. La serata sarà l’occasione per rende noti i contenuti della campagna "Figli di Haiti" di Fondazione Avvenire.

La Settimana della Fede si concluderà come di consueto venerdì 21 marzo, con la celebrazione eucaristica presieduta dall’arcivescovo di Taranto, Ciro Miniero.





Lunedì, 17 Marzo 2025

Nelle prove, nelle difficoltà siamo costretti a confrontarci con ciò che è davvero importante. Un insuccesso, una malattia ci chiamano a fare i conti con l’essenziale della nostra vita. Accantonato il superfluo, restano le domande profonde: chi siamo, dove stiamo andando, con chi e per chi siamo in cammino? Il tempo di Quaresima in questo senso è un periodo privilegiato perché, invitandoci alla preghiera più intensa, alla carità e al sacrificio ci sollecita all’educazione della volontà. Classico esempio è il digiuno cristiano che non comporta solo la rinuncia al cibo ma da ogni cosa appesantisca l’anima impedendole di prendere il volo: l’orgoglio, la brama di successo, il culto di sé. Il sacrificio come palestra spirituale verrebbe voglia di dire, per liberarci dalla zavorra delle cattive abitudini, degli atteggiamenti superbi, dei progetti sbagliati che ci tengono ancorati alla terra. Lo evidenzia in questa preghiera il gesuita belga Jean Galot (1919-2008) che chiede al Signore aiuto per imparare a far digiunare le passioni, la fama di piacere, la lingua che giudica e divide.

«Fa' digiunare il nostro cuore:
che sappia rinunciare a tutto quello che l'allontana
dal tuo amore, Signore, e che si unisca a te
più esclusivamente e più sinceramente.
Fa' digiunare il nostro orgoglio,
tutte le nostre pretese, le nostre rivendicazioni,
rendendoci più umili e infondendo in noi
come unica ambizione, quella di servirti.
Fa' digiunare le nostre passioni,
la nostra fame di piacere,
la nostra sete di ricchezza,
il possesso avido e l'azione violenta;
che nostro solo desiderio sia di piacerti in tutto.
Fa' digiunare il nostro io,
troppo centrato su sé stesso, egoista indurito,
che vuol trarre solo il suo vantaggio:
che sappia dimenticarsi, nascondersi, donarsi.
Fa' digiunare la nostra lingua,
spesso troppo agitata, troppo rapida nelle sue repliche,
severa nei giudizi, offensiva o sprezzante:
fa' che esprima solo stima e bontà.
Che il digiuno dell'anima,
con tutti i nostri sforzi per migliorarci,
possa salire verso di te come offerta gradita,
meritarci una gioia più pura, più profonda».






Domenica, 16 Marzo 2025

La «memoria che inquina, fa ammalare e dà la morte», quella che non dimentica «inadempienze e cattiverie» degli altri e anche le nostre, dove «il passato diventa una discarica» per ricordi di ingiustizie subite e di parole mancate. E, invece, la memoria purificata che apre alla speranza e può ispirare il futuro.

A richiamare la possibilità di vivere il Giubileo come tempo di grazia, «proprio perché la memoria malata possa guarire e ci si possa finalmente sentire liberi e leggeri», è stato l’arcivescovo Mario Delpini che sta guidando i 3000 fedeli che hanno raggiunto Roma per il pellegrinaggio diocesano del Giubileo. Entrato nel vivo, per gli ambrosiani, con il passaggio della Porta Santa della basilica di San Paolo fuori le Mura, fin dalla prima mattina, con lo stesso Delpini in coda come gli altri, prima della Messa da lui presieduta e concelebrata da un centinaio di sacerdoti e 5 vescovi, impegnati, per oltre un’ora, a confessare i pellegrini.

Dopo il benvenuto dell’abate di “San Paolo”, dom Donato Ogliari, i 12 Kyrie hanno sottolineato la solennità della celebrazione officiata in rito ambrosiano, presso l’altare papale della Basilica che sorge sul luogo dove, secondo la tradizione, fu sepolto l’apostolo Paolo. Meta ininterrotta di pellegrinaggi, fin dal 1300 quando, in occasione del primo Anno santo, entrò subito a far parte dei percorsi giubilari e vi si aprì la Porta santa. Attraversata con un gesto simile a quello dei pellegrini del terzo millennio che, tuttavia, devono andare oltre il momento simbolico per una vera conversione del cuore, come ha suggerito Delpini.

«La memoria invece che essere malata di malessere e risentimento può essere guarita diventando un patrimonio per alimentare la riconoscenza, disponibili all’opera di Dio, e ispirando il futuro», ha sottolineato, infatti, il presule, indicando 3 frutti di questo nuovo atteggiamento. «Un primo tratto della vita nuova è la magnanimità, la generosa sollecitudine verso i poveri che diventa il criterio per gestire le nostre risorse, i nostri soldi. Le opere di misericordia corporali sono per tutti un “programma di quaresima” e il digiuno che Dio preferisce: prendersi cura e non girare lo sguardo di fronte alle povertà di oggi».

Poi, «la liberazione dal formalismo della relazione con Dio e della pratica della legge che riduce la vita virtuosa a precetti, regole, comandamenti in base ai quali giudicare gli altri». Magari senza nessun amore. Infine, la “lezione” paolina. «Quando la memoria è guarita tutto si unifica intorno al Signore, il bene e il male, il quotidiano e lo straordinario, la serietà e la dolcezza, la regola e la libertà. Non che scompaiano i problemi, non che tutto sia facile, ma tutto trova senso nel Signore. Chiediamo la grazia che in questi giorni, e in questo anno, la nostra memoria possa guarire per chiedere perdono e vivere con saggezza». Questa la conclusione dell’arcivescovo che, al termine della Messa con i vescovi e i vicari episcopali è sceso per una preghiera alla tomba di san Paolo.





Sabato, 15 Marzo 2025

“La Chiesa italiana sta accompagnando il Papa con la preghiera e con l’affetto”, in questo periodo di infermità. E la malattia, anziché togliere autorevolezza al Papa, “ha dato più credibilità e ancora più autorità al ministero di Pietro”. Francesco, infatti, ha scelto di condividere con noi “anche la sua fragilità”. Lo afferma il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, in un’intervista al quotidiano Avvenire che sarà pubblicata nell’edizione di domenica 16 marzo. A proposito delle condizioni di salute del Pontefice, oggetto in questo mese di degenza, di varie fake news, il porporato afferma: “Siamo così poco abituati alla trasparenza che dobbiamo comunque renderla opaca. Come se ci fosse chissà cosa dietro. Il Papa ha voluto un’informazione assolutamente non adattata. Abituiamoci alla trasparenza. Il Papa non nasconde nulla. E liberiamoci da tante fake news”.

L’invito di Zuppi è a sostenere il Papa anche con una maggiore responsabilità di ognuno. “L’importanza del suo ministero risalta ancora di più e nella fragilità non perde nulla della sua efficacia, ma ci chiama a quello che lui ha sempre chiesto. Cioè di vivere la responsabilità nella comunione e non nella divisione o nell’affermazione di una parte sull’altra. Quindi un protagonismo che non sia mai divisivo, ma che aiuti la comunione”.

Il presidente della Cei ha descritto il rapporto tra il Papa e la Chiesa italiana nei 12 anni di pontificato come “diretto, franco, che si è espresso in due modi: tanti contatti e tanta conoscenza diretta, anche tramite le visite ad alcuni luoghi simbolo, e poi il dialogo assembleare con i vescovi”. Francesco “è il Papa del Vangelo sine glossa, del Vangelo per tutti”. E tutti “devono trovare nella Chiesa una casa e non un albergo”.

Sul cammino sinodale della Chiesa italiana, infine, il cardinale Zuppi ricorda che “la spinta del Papa è stata determinante”. E sulla prossima assemblea sinodale: “È il momento delle decisioni perché il camminare insieme trovi anche delle risposte. Tutto il cammino sinodale ha come fine non il fissare nuove regole per stare tra di noi, ma vedere come essere cristiani e comunità oggi nel nostro Paese” per annunciare il Vangelo.





Sabato, 15 Marzo 2025

Era nell'aria: il confronto dei vescovi sulla sinodalità, cioè sullo stile fondamentale che la Chiesa sta cercando di fare proprio per rispondere alle richieste che vengono dal mondo di oggi e riuscire a portare il Vangelo nella vita delle persone nel nostro tempo, non poteva considerarsi concluso con le due assemblee dell'ottobre 2023 e 2024. E, infatti, ora riparte, anzi prosegue su spinta dello stesso papa Francesco, che al termine dei lavori sinodali aveva dato disposizione perché il Documento finale fosse considerato alla stregua di un documento magisteriale, scegliendo così di non scrivere un'esortazione post-sinodale, come era avvenuto nei precedenti Sinodi.

Proprio a partire da quel documento, ora il Papa ha approvato un cammino che permetta alle comunità locali di tradurre nella pratica tutto ciò che è emerso nel lungo percorso dell'Assemblea del Sinodo dei vescovi dedicata al tema della sinodalità. Un itinerario che culminerà in un'Assemblea ecclesiale che si terrà nell'ottobre 2028 in Vaticano e che sarà scandito da alcune precise tappe. Tra queste anche un nuovo appuntamento nel calendario dei grandi eventi dell'Anno Santo: il Giubileo delle équipe sinodali e degli organismi di partecipazione in programma tra il 24 e il 26 ottobre prossimi.

L'annuncio è stato affidato a una lettera firmata dal segretario generale della Segreteria del Sinodo dei vescovi, il cardinale Mario Grech, e inviata oggi a tutte le Chiese del mondo. E tutto il processo ripartirà "dal basso", cioè coinvolgendo proprio quelle persone e quei gruppi che avevano lavorato alla grande fase di ascolto che aveva preceduto le fasi assembleari del Sinodo. «La fase attuativa del Sinodo va intesa non come una semplice “applicazione” di direttive provenienti dall’alto, ma piuttosto come un processo di “recezione” degli orientamenti espressi dal Documento finale in maniera adeguata alle culture locali e ai bisogni delle comunità - si legge nella lettera di Grech -. Al contempo, è necessario procedere insieme come Chiesa tutta, armonizzando la recezione nei diversi contesti ecclesiali. Questo è il motivo del processo di accompagnamento e valutazione, che nulla toglie alla responsabilità di ogni Chiesa».

La "valutazione" (cioè la verifica comune e condivisa di come le indicazioni del Sinodo avranno trovato applicazione nelle comunità locali) cui fa riferimento il testo è di fatto la seconda parte dell'intero processo di attuazione e avverrà su tre livelli dimensioni: nelle diocesi, a livello intermedio di raggruppamento degli enti diocesani (conferenze episcopali o simili) e a livello continentale.

Si partirà a maggio, quindi, con la pubblicazione del Documento di sostegno per la fase attuativa con le indicazioni per il suo svolgimento. Poi tra giugno 2025 e dicembre 2026 prenderanno forma i percorsi di attuazione nelle Chiese locali. Per tutto il 2027 e la prima parte del 2028, poi, ci saranno le assemblee di valutazione: nel primo semestre 2027 a livello locale, nel secondo semestre dello stesso anno a livello di Conferenze episcopali e nei primi sei mesi del 2028 a livello continentale.

Da tutto questo lavoro, a giugno 2028, uscirà l'Instrumentum laboris, che sarà il documento di base sui ci si confronterà durante la grande Assemblea ecclesiale dell'ottobre 2028.

«È di fondamentale importanza assicurare che la fase attuativa sia l’occasione per coinvolgere nuovamente le persone che hanno dato il loro contributo e restituire i frutti dell’ascolto di tutte le Chiese e del discernimento dei Pastori nell’Assemblea sinodale: proseguirà così il dialogo già avviato nella fase dell’ascolto», scrive ancora Grech nella sua lettera, ricordando quindi che questa fase è profondamente connessa con l'intero lavoro svolto fin dall'inizio.

Il percorso è lungo e articolato, quindi, e di fatto al termine l'intero processo sarà durato sette anni: dal 2021, quando si è dato avvio alla preparazione all'Assemblea sinodale, fino al 2028. Un confronto che, per volere di Francesco, ha messo al centro non tanto singoli temi, quando la questione del metodo e dello stile della Chiesa ai nostri giorni. E il dibattito ha riguardato numerosissimi ambiti, tenuti insieme dal filo rosso della "sinodalità", che non è un semplice concetto legato alla "partecipazione allargata" alle decisioni riguardanti la vita della Chiesa, ma che ha a che fare con il modo in cui si vive la fede dentro e fuori la comunità cristiana. Nell'intero processo, ovviamente, si sono toccati anche temi specifici, alcuni dei quali affidati a specifici gruppi di studio il cui lavoro è andato avanti dopo il Sinodo. Di certo i nodi principali, quelli che hanno ricevuto più attenzione anche fuori dalla Chiesa, sono la questione del ruolo delle donne nella vita della Chiesa, la necessità di trasparenza nella gestione della vita delle comunità e l'atteggiamento di responsabilità da cui nessuno, pastori e fedeli, oggi può più sottrarsi se si vuole dare credibilità a ogni azione della Chiesa nel mondo.





Sabato, 15 Marzo 2025

«Tre sono i peccati tipici del giorno d’oggi: lo stupore estinto, il realismo sfiduciato, l’impotenza rassegnata, ma noi siamo qui per ricevere la grazia di una vita nuova. Attraverseremo la Porta Santa, che è aperta, e otterremo le grazie del Giubileo, ma è aperta la porta del tuo cuore, la tua porta si apre al Signore che bussa? Noi siamo qui, non per uno sforzo in più per diventare migliori, ma per un’apertura alla docilità, perché il Signore possa farci la grazia in questi giorni e sempre».

È stata questa la consegna che l’arcivescovo, ha lasciato ai 3.000 fedeli ambrosiani, provenienti da ogni parte della diocesi, che stanno partecipando al pellegrinaggio giubilare da lui guidato. 3.000 persone di ogni età, arrivati a Roma con i sacerdoti e intere parrocchie o per una scelta personale, che hanno vissuto il loro primo momento giubilare prendendo parte alla celebrazione penitenziale presieduta da monsignor Delpini – presenti anche tutti i membri del Consiglio episcopale milanese e il delegato del Giubileo per la diocesi di Milano, don Massimo Pavanello – nella basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso. Un gioiello artistico seicentesco che è un’isola della “nazione lombarda”, come veniva chiamata, nel cuore della città eterna.

E non vi era, forse, luogo più allusivo e significativo di questa piccola “terra lombarda”, ma soprattutto diocesana, per dare inizio al pellegrinaggio giubilare della Chiesa ambrosiana, a cui monsignor Delpini ha voluto dare il titolo di “Evento di Chiesa, tempo di Grazia, cammino di Speranza”, per essere, appunto, pellegrini di speranza, come indica papa Francesco, attraversando, stamani, la Porta santa di San Paolo fuori le Mura e avviando il pellegrinaggio dalla grande basilica che porta i nomi dei patroni della diocesi.
Un luogo di culto dalle origini umilissime offerto agli scalpellini della Valtellina, giunti a Roma per lavorare, e che, poi, dopo due secoli, nel 1600, venne edificato, in 80 anni, nella forma attuale, tanto che quando verrà richiesta una reliquia, il cardinal Federico Borromeo donerà il cuore del cugino e predecessore san Carlo. Reliquia preziosissima, per l’occasione, posta in altare maggiore, per la devozione dei pellegrini. Tutti coloro (ben due i gruppi che si sono susseguiti nel pomeriggio in basilica per poter partecipare), a cui si è rivolto l’arcivescovo, dicendo: «Lo stupore per le parole di Gesù pare sia estinto e questo rende noioso essere cristiani, forse doveroso, ma noioso. Il cristianesimo noioso diventa irrilevante, come un sale che ha perso il suo sapore e non serve a niente. Lo stupore estinto estingue anche le domande e perciò l’insegnamento, il catechismo, diventano una ripetizione, la preghiera diventa adempimento, un dovere, la speranza un volontarismo. Questo pellegrinaggio vuole portare davanti al Signore tutto ciò che ci grava sulle spalle e consegnarlo perché si possa ritrovare lo stupore».

Senza dimenticare coloro, tanti anche tra i cristiani, che hanno perso la fiducia. «Ecco la tentazione che ci insidia: perdere la fiducia», scandisce, infatti, Delpini. «La parola di Gesù è troppo fragile per essere quella roccia rassicurante su cui costruire la vita. Altre parole, altre promesse, altre risorse sono più convincenti. Ascoltare e mettere in pratica la parola di Gesù non dà garanzie sufficienti: la prepotenza del male è troppo spaventosa. La sfiducia si esibisce, qualche volta, come fosse un realismo, ma in realtà è un peccato, ed è radice di molti peccati. L’animo sfiduciato si ammala di tristezza, di risentimento, di desiderio di omologazione, per essere come tutti gli altri che fanno riferimento a quello che è conveniente, di moda, rassicurante. Il compromesso sembra un’astuzia».

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Sabato, 15 Marzo 2025

Oggi per l’arcidiocesi di Agrigento è una giornata storica: a Canicattì, paese natale del beato Rosario Livatino, le spoglie del magistrato verranno traslate dal cimitero comunale alla chiesa di Santa Chiara con una celebrazione solenne. Un’intenzione che l’arcivescovo Alessandro Damiano aveva manifestato in occasione della memoria liturgica del giudice beato lo scorso 29 ottobre, e precedentemente autorizzata dal cardinal Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi.

Lo scorso 20 febbraio, inoltre, il Servizio Poste e Filatelia della Santa Sede aveva presentato francobollo e annullo postale dedicati a Livatino, definendolo «testimone di speranza e del Vangelo» riprendendo ciò che papa Francesco disse di lui in occasione del Regina Coeli del 9 maggio 2021.

La festa, in questi giorni, non è solo per la diocesi agrigentina. Tutta la Sicilia segue con interesse gli eventi attorno alla figura del giudice assassinato da un commando della Stidda il 21 settembre 1990, mentre a bordo della sua Ford Fiesta amaranto, privo di scorta, si recava a svolgere il suo lavoro.

Anche Catania fa memoria del primo magistrato beatificato dalla Chiesa cattolica, presentando con la sua storia una serie di podcast promossa dall’Ufficio delle comunicazioni sociali dell’arcidiocesi etnea: “Santi e martiri siciliani dei nostri tempi”. A questo progetto, prodotto del “Corso di formazione per animatori della comunicazione attraverso podcast e video” del quale docente è stata Ornella Sgroi - giornalista, scrittrice e autrice di vari podcast -, collaborano la Caritas diocesana e la testata locale Prospettive.

«Siamo soliti pensare – spiega Giuseppe Di Fazio, direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali promotore della serie – che santi e martiri siano figure lontane nel tempo, remote rispetto a noi. Con questo progetto, grazie al quale stiamo sperimentando il podcasting come mezzo di comunicazione, intendiamo presentare figure siciliane a noi più vicine o contemporanee. Persone che in vita hanno testimoniato, anche tramite il loro lavoro, la loro incrollabile fede in Cristo. Il beato Rosario Livatino rientra inevitabilmente tra queste, così come don Pino Puglisi, protagonista della puntata successiva».

La puntata, disponibile da domani su Spotify ha per titolo “Sub tutela Dei: il giudice Livatino, tra fede e giustizia”. Poco più di dieci minuti che approfondiscono il percorso umano e professionale del beato, il suo impegno nella lotta alla criminalità organizzata e il legame tra fede e giustizia fino al sacrificio estremo. “Sub tutela Dei”, locuzione latina tanto cara al magistrato siciliano, non era per lui soltanto una frase ma un motto, un principio guida: era un modo, per lui, di offrire le sue giornate e il suo lavoro sotto la protezione del Padre.

Ad approfondire ulteriormente la figura del beato all’interno del podcast - scritto da Silvana Cardì, Chiara Monteleone, Mariachiara Papa e Paola Palermo - sono don Massimo Naro, teologo e docente presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia e don Giuseppe Livatino, cugino del magistrato e postulatore della causa di beatificazione. Oggi, in un tempo segnato da sfiducia e corruzione, il messaggio di Livatino risuona con forza.





Venerdì, 14 Marzo 2025

L’appuntamento è alle 18 nella Basilica di San Pietro. Qui sabato 15 marzo è in programma la cosiddetta Statio (che significa sosta) Quaresimale. Si tratta di un rito dell’antica tradizione liturgica con la quale fedeli e pellegrini, nei quaranta giorni che preparano alla Pasqua, si radunano e fanno sosta in una delle chiese di Roma che conserva le memorie dei martiri. Scopo di questo appuntamento è prendersi una "sosta" nella vita quotidiana per dedicarsi alla preghiera e alla riflessione in unione con l’intera comunità cristiana. Più nello specifico nel sabato che precede la seconda domenica di Quaresima, la “Statio” si svolge nella Basilica papale di San Pietro. Qui, dalle 18 la processione sarà accompagnata dalle litanie dei santi fino alla Loggia della Veronica presso cui avverrà l’ostensione della reliquia della Lancia di Longino con la quale il centurione romano trafisse il costato di Cristo. Seguirà la celebrazione eucaristica all’Altare della Cattedra celebrata dal cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica papale di San Pietro.

La storia di Longino, il soldato della lancia
Come detto, a caratterizzare la Statio sarà l’ostensione della lancia di Longino. Si tratta del soldato di cui parla il Vangelo di Giovanni al capitolo 19. Per verificare che Cristo fosse morto, recita il testo, «uno dei soldati gli trafisse il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua». Il testo non dice niente di più del militare, neanche il nome che invece viene citato negli Atti di Pilato testo allegato al Vangelo apocrifo di Nicodemo. Il nome Longino è probabilmente una latinizzazione del greco "lonche" che significa lancia. Circa la biografia di Longino le interpretazioni sono differenti. Accanto alla biografia succitata propria della tradizione occidentale se ne trova una seconda, più diffusa tra i cristiani d’Oriente, che identifica Longino come il centurione che nel Vangelo di Matteo viene descritto a «fare la guardia» a Gesù con altri soldati e che «alla vista del terremoto e di quello che succedeva» dopo la morte di Cristo «furono presi da grande timore e dicevano: "Davvero costui era Figlio di Dio!"». Secondo una terza ricostruzione, infine, Longino sarebbe stato il centurione che comandava il picchetto di soldati messo a guardia del sepolcro di Cristo. A differenti biografie corrispondono anche diverse date in calendario, Il Martirologio Romano celebra Longino il 15 marzo mentre gli orientali, non tutti però, il 16 ottobre. Sono invece coincidenti le tradizioni occidentali e orientali circa l’evoluzione della storia di Longino che, abbandonato l’esercito e divenuto cristiano, si trasferisce a Cesarea di Cappadocia dove, per il suo impegno nella conversione al cristianesimo viene condannato alla pena capitale e muore martire per decapitazione. Secondo san Gregorio di Nissa (335 - 395 circa) Longino sarebbe stato il primo vescovo della Cappadocia.

La reliquia
Come ogni secondo sabato di Quaresima la Statio si accompagna all’ostensione della reliquia della lancia che trafisse il costato di Gesù. Conservata originariamente nel tesoro sacro di Costantinopoli, fu donata a Innocenzo VIII (al secolo Giovanni Battista Cybo de Mari), Papa dal 1484 al 1492, dal sultano Bajazet, figlio di Maometto II come ringraziamento per l’accoglienza ricevuta dal fratello Djem nel suo viaggio a Roma.






Venerdì, 14 Marzo 2025

Il pellegrinaggio che, come è ovvio, è sempre più di un viaggio o di un semplice spostarsi da un luogo all’altro, perché è un camminare fisicamente e idealmente sulle strade della fede e del nostro cuore. Potrebbe essere questa la sintesi della riflessione che fra Roberto Pasolini, sacerdote dei Frati minori cappuccini francescani, predicatore della Casa pontificia, definisce, appunto «la logica di ogni pellegrinaggio».

Tanti fedeli ambrosiani guidati dall’arcivescovo Delpini vivono il pellegrinaggio giubilare a Roma dal 14 al 16 marzo: quale è lo spirito corretto con cui intraprenderlo?

«Il Giubileo è l’occasione per la Chiesa e, quindi, per tutti i cristiani di sperimentare la categoria del “viaggio santo”, che noi chiamiamo appunto pellegrinaggio e che simbolicamente esprimiamo, per esempio, andando a Roma in questo Anno Santo. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di una categoria di cui ci parla l’intera rivelazione biblica - ebraica e cristiana -, fin dai tempi dei patriarchi. Pensiamo ad Abramo che deve intraprendere un viaggio di fede per arrivare nella terra promessa con lo stesso peregrinare che farà il popolo di Israele lasciando l’Egitto. Senza dimenticare i viaggi scanditi dai canti dei Salmi che compiono tutti gli israeliti, compreso Gesù stesso, recandosi a Gerusalemme per le grandi feste».

Questo come segna il nostro presente di pellegrini di speranza?

«Tutti gli eventi che divengono riti, ci ricordano quale sia lo statuto fondamentale della vita umana - e, dunque, anche della nostra -, ossia che siamo, come dice la Scrittura e ripeteva san Francesco, pellegrini e forestieri, in questo mondo, alla ricerca di una patria. Il viaggio restituisce così la simbologia fondamentale con cui interpretare anche la nostra stessa esistenza: un viaggio da questo mondo al Padre».

Nel concetto di pellegrinaggio è presente in profondità anche un’idea di conversione?

«Certamente perché il pellegrinaggio può essere un momento aurorale, un principio. Non a caso, il passaggio attraverso la Porta santa - per noi la porta è Cristo - ci impone una verifica per cui ciascuno esprime (o dovrebbe farlo) la decisione di attingere alla misericordia del Signore, operando un rinnovamento a partire dallo scoprirci amati da Dio. E, perciò, anche disposti a mettere a frutto tale misericordia perché la nostra vita possa fiorire e tornare a essere un bene e un servizio per gli altri».

Cosa si dovrebbe portare a casa da un pellegrinaggio giubilare?

«Credo che sia un’occasione unica per rimettersi in cammino, varcando una soglia che ci mette in comunione con uno spazio diverso rispetto a quello che abitiamo quotidianamente. La speranza è che non si torni soltanto, magari, un poco emozionati, ma che il pellegrinaggio aiuti a dinamizzare ogni nostro giorno. L’auspicio è che il passaggio della Porta santa rappresenti un momento di riappropriazione del nostro battesimo e della nostra vita errante, nel senso più ampio e profondo del termine, aiutandoci a spostarci dalle nostre fissazioni per ricreare quei movimenti che spalancano le porte. Questo è il punto: varchiamo la porta di Cristo ma non servirà a molto se, poi, torniamo senza riuscire a riattraversare tutte le porte che ci mettono in comunicazione con gli altri, con la realtà che ci circonda, con una speranza rinnovata».

Esiste una cifra «francescana» del pellegrinaggio?

«Henry David Thoreau, un autore che ha scritto pagine molto belle sul viaggio, dice che quando si parte per una vetta, bisognerebbe vivere questo momento come una partenza definitiva. Credo che questo sia lo spirito del pellegrinaggio cristiano. È chiaro che tutti vogliamo tornare alle nostre abitazioni, però la metafora del pellegrinaggio ci dovrebbe restituire l’idea che possiamo davvero guardare avanti con uno sguardo più fiducioso, anziché ripiegarci sempre sui beni che possediamo, sulle cose che abbiamo acquisito, cioè su quello che invecchia la nostra vita. Questa, forse, è la caratteristica anche francescana del pellegrinaggio: un cristiano che lascia tutto e si rimette in cammino - come fece Francesco - perché sa che il suo vero tesoro è il cielo, è il regno di Dio, la casa del Padre».
www.chiesadimilano.it/milano-sette





Venerdì, 14 Marzo 2025

Non aveva ancora compiuto 27 anni, il giovane don Concezio Chiaretti, quando il piombo dei carnefici nazisti gli tolse la vita sul Monte Tilia, assieme a 22 suoi concittadini. Era il 7 aprile di ottantuno anni fa. Ma quella storia di altruismo, coraggio e perdono evangelico non è mai stata dimenticata dagli abitanti di Leonessa, borgo montano del Reatino, nel Lazio, di cui era stato parroco. L’hanno custodita e tramandata per decenni, fino ad affidarla al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che ha chiesto al capo dello Stato di concedere al sacerdote martire un'alta onorificenza. E ieri, su sua proposta, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha conferito la medaglia d’oro al merito civile a don Chiaretti, ritenuto uno «straordinario esempio di virtù civiche e di umana solidarietà, condotte fino all’estremo sacrificio».

Concezio era nato in Canada il 7 luglio 1917 da una famiglia di emigranti partiti da Leonessa. La mamma, Maria Carocci, e il papà, Agostino, manovale iscritto al partito socialista, erano andati oltreoceano in cerca di fortuna. Ma non la trovarono e qualche anno dopo tornarono nella valle del Reatino, assieme al ragazzo. Presero a vivere in via Boccarini, nel centro del paese, sostentandosi con la coltivazione di un piccolo podere e con la paga che Maria riceveva in cambio delle faccende domestiche per un’altra famiglia. Concezio era un bambino buono e don Pio Palla, parroco della chiesetta di San Pietro, lo prese sotto la sua ala protettiva. Lo fece studiare finché venne ammesso al Seminario di Assisi. Don Chiaretti fu ordinato sacerdote il 13 luglio 1941, quando l’Italia era entrata in guerra da un anno e un mese. Ma nel 1942 fu arruolato nella Julia, divisione del corpo degli Alpini, come cappellano militare. Poi gli venne imposta una licenza di convalescenza per le cattive condizioni di salute. Tornato a casa, si legge nella motivazione della medaglia, «durante l’occupazione tedesca si prodigò per difendere la popolazione del Comune di Leonessa e portarle soccorso». Un prete e insieme un buon samaritano, sempre pronto ad aiutare il prossimo.

Ma i nazisti, come in altri luoghi d’Italia, se la presero con gli abitanti del borgo. Ancora una volta, come il Buon Pastore, don Concezio non abbandonò le sue pecorelle. E, prosegue il testo della motivazione, «dopo aver tentato invano di dialogare coi tedeschi per scongiurare ulteriori eventi tragici, nel Venerdì Santo del 1944, mentre era in fila per essere fucilato assieme ad altri compagni, li confortava». E, «dopo essersi inginocchiato e aver invocato il perdono per i carnefici, veniva barbaramente trucidato da un plotone delle SS». Era giovane, ma dimostrò un coraggio e una dignità che ancora oggi i suoi compaesani ricordano. «L’alta onorificenza è una bellissima notizia che riempie di orgoglio ogni appartenente alla comunità di Leonessa e dell’intero Reatino - osserva commosso Paolo Trancassini, deputato di Fdi, che aveva riferito dell’eccidio del ‘44 al ministro dell’Interno -, perché il riconoscimento va a un uomo che per tutti noi, a distanza di tanti anni, rappresenta una figura simbolica e un luminoso esempio di fede, generosità e coraggio».





Venerdì, 14 Marzo 2025

Centoquarantasei catecumeni a Quimper e Léon (+ 62%), 154 a Metz (+ 85%), 199 a Rennes (+ 19%), 610 a Pontoise (+ 15%), 628 a Lione (+ 40%), 670 a Versailles (+ 30%)... I numeri che arrivano dalle diocesi francesi, riportate dal settimanale Famille Chrétienne, fanno intravedere un forte aumento rispetto allo scorso anno degli adulti che durante la prossima veglia di Pasqua riceveranno i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Ma già nel 2024 i catecumeni erano stati oltre dodicimila, cioè il 31% in più rispetto al 2023 e il 120% in più rispetto a dieci anni prima. Si conferma insomma una tendenza che può sorprendere, ma che non è solo della Francia, si riscontra in misura diversa anche nel vicino Belgio – che ha visto raddoppiati i catecumeni negli ultimi dieci anni – o al di là della Manica, nel Regno Unito, dove in diocesi come Cardiff, Brighton e Salford i catecumeni sono pressoché raddoppiati rispetto a solo dodici mesi fa. In Francia però a questo fenomeno se n’è aggiunto nei giorni scorsi un altro che ha attirato l’attenzione dei media anche laici: il boom di partecipazione ai riti per l’inizio della Quaresima, il mercoledì delle Ceneri, insieme a una crescente visibilità di giovani influencer sui social network che esibiscono con fierezza il segno delle ceneri e parlano con altrettanta chiarezza di digiuno e altre pratiche ascetiche.

Una sintesi dell’accaduto l’ha fatta il quotidiano cattolico La Croix, non certo incline a pose identitarie, raccogliendo la testimonianza di père Benoist de Sinety, parroco a Lille ma molto noto anche a Parigi, la sua diocesi di provenienza e di cui è stato vicario generale. «I sacerdoti sono rimasti sbalorditi perché, dalla piccola chiesa di campagna alla grande parrocchia del centro città, a tutte le ore il numero di partecipanti alla Messa delle Ceneri è esploso – ha raccontato père De Sinety –. Nella mia parrocchia alla Messa delle 19.30 siamo passati da 400 persone a quasi mille. Erano soprattutto giovani tra i 16 e i 20 anni, che non avevamo mai visto. Sono arrivati spesso in gruppo e diversi di loro non erano cristiani. Ho quindi lanciato un appello al catecumenato: abbiamo ricevuto una ventina di candidature! Vedremo come tutto ciò si evolverà, intanto è molto incoraggiante e allo stesso tempo lascia spiazzati». Alla domanda su perché ciò sia accaduto, il sacerdote risponde così: «Non lo so spiegare esattamente, ma una cosa è certa: il diffondersi del Ramadan nella società provoca non direi tanto una risposta militante, quanto una presa di coscienza dei giovani di cultura cristiana che anche loro hanno una via su cui possono progredire spiritualmente. Inoltre gli influencer cattolici giocano un ruolo, vista l’età dei partecipanti. L’anno scorso, quando si stava già osservando un certo fermento, alcune ragazze sono venute nella mia parrocchia perché un’influencer l’aveva pubblicizzata sui social network. L’entusiasmo dei giovani credenti è contagioso. Non hanno più paura di invitare i loro amici a Messa, una libertà paradossale in un’epoca in cui non si parla più di Dio». Ancora: «I riti sono scomparsi nella nostra società, ma sono necessari e i giovani ne sentono il bisogno. Uscendo dalla chiesa, ho visto che conservavano sulla fronte la croce di cenere senza volerla cancellare. Cosa che i giovani non facevano così facilmente prima». «La cosa meravigliosa – aggiunge père De Sinety – è che tutto questo avviene nel momento in cui la Chiesa cattolica è minata da divisioni e scandali. In mezzo a tutto questo Dio ci coglie di sorpresa, sommergendoci di persone che vogliono diventare cristiane. È un invito a prendere coscienza che la missione della Chiesa è prima di tutto annunciare il Vangelo».





Venerdì, 14 Marzo 2025





Giovedì, 13 Marzo 2025

È morto oggi, all'ospedale di Siena, Daniele Venturi, 55 anni, fondatore e presidente dell'Associazione Nazionale Papaboys, nata nel 2000 per la Giornata Mondiale della Gioventù di Giovanni Paolo II.

Daniele era nato e cresciuto a Massa Marittima, in provincia di Grosseto. Era stato ricoverato qualche giorno fa all'ospedale in condizioni critiche in seguito a un malore e subito trasportato in terapia intensiva. Dopo qualche giorno, la morte. Non sono ancora chiare le cause del decesso e per questo verrà effettuata l'autopsia. Il funerale si terrà sabato 15 marzo, a Massa Marittima, paese dove Daniele viveva. Una vita dedicata al giornalismo e alla Chiesa cattolica. Per oltre vent'anni ha tenuto informato il mondo del Web con il sito www.papaboys.org - dal pontificato di Giovanni Paolo II fino all'attuale Francesco - ha istituito premi legati al mondo della musica cristiana, ha scritto un libro, in versione e-book, sul viaggio di Papa Francesco a Rio de Janeiro. Ultimamente aveva creato un settimanale, il "Pensiero", con meditazioni e riflessioni sulla Chiesa cattolica e sul Vangelo. «La perfezione è vita? Ecco il numero 8 del Pensiero. Buona lettura", aveva scritto solo giovedì scorso per l'ultimo numero del settimanale. In una recente intervista aveva affermato: "Noi vecchi siamo tornati alle nostre parrocchie, ma saremo a Roma per il Giubileo dei giovani", il 28 luglio. "Speriamo che Francesco si rimetta alla grande, è un lottatore». Daniele era un vulcano di idee per far conoscere ai giovani il magistero dei successori di Pietro.





Giovedì, 13 Marzo 2025

Pubblichiamo il testo del capitolo scritto da Andrea Acutis, padre del beato Carlo Acutis, contenuto nel libro «Nostro figlio Carlo Acutis. La scuola di fede del santo di internet» firmato dai genitori e Antonia Salzano e Andrea Acutis. Il contributo di Andrea Acutis è intitolato «Obbediente, eppure libero e vivace».

La libertà si colloca al vertice dei desideri dell’uomo, si può dire che sia una parte costituzionale della persona umana. Per i ragazzi la libertà ha poi un fascino tutto particolare perché sono stati soggetti sin dalla nascita all’autorità dei genitori e degli educatori e sono facilmente affascinati dalla possibilità di affrancarsene. È quindi quanto mai importante aiutarli a discernere sulla sua natura. Generalmente la libertà è intesa come assenza di costrizioni esteriori nella propria vita, cosa che riveste indubbiamente spesso grande importanza, specialmente se si tratta di essere liberi da costrizioni ingiuste. Consideriamo poi che politicamente, quali figli della Rivoluzione francese, la nostra società dedica ogni sforzo per costruire sistemi democratici in grado di mantenerci liberi da situazioni di tirannia, anche se così facendo si ricade a volte in nuove forme di dittatura.
Tuttavia, crescendo, i ragazzi scoprono presto che questa libertà, intesa come assenza di costrizioni materiali, trova continuamente ostacoli che si rivelano spesso insormontabili. Innanzitutto ci troviamo inseriti nel cosiddetto spazio-tempo. Il tempo scorre ineluttabilmente in un’unica direzione: possiamo vivere solo nell’istante del presente e il tempo perso non potrà mai essere recuperato. Alle conoscenze attuali della fisica risulta poi che qualsiasi oggetto dotato di una massa si possa spostare da un luogo all’altro solo con grande dispendio di energia e per distanze sostanzialmente nulle rispetto alle distese infinite dell’universo. Le vicissitudini della vita, dalla nascita sino alla morte, sono poi soggette a un’infinità di elementi che non dipendono dalla nostra volontà. Non abbiamo scelto di darci la vita e nemmeno dove nascere, in quale Paese del mondo e in quale famiglia, quali persone incontreremo, in quali situazioni dovremo giostrarci, e così via.
Se illudiamo i ragazzi con la speranza di poter essere liberi da tutte queste ineluttabili costrizioni, facciamo di loro dei falliti dalla nascita che non cercheranno altro se non la possibilità di evadere da questo mondo con distrazioni più o meno lecite. Ma com’è possibile che l’animo umano abbia un così forte desiderio di una cosa irraggiungibile? La felicità dipende dalla certezza di poter raggiungere ciò che desideriamo. Siamo allora forse costituzionalmente condannati all’infelicità? O forse riponiamo i nostri desideri su cose che non ci sazieranno mai?
Perché diciamo ai nostri ragazzi «l’importante è che ti diverti», oppure «l’importante è la salute», oppure «devi studiare perché se non hai successo nel lavoro sei un fallito»? Il divertirsi in modo sano, la salute, un lavoro giustamente remunerato, sono tutte cose buone per le quali dobbiamo ringraziare Dio se ci sono, ma non è affatto detto che ci siano e se sono presenti potrebbero non durare, anzi, diciamo pure chiaramente che sappiamo per certo che finiranno. Carlo usava di tutte le cose buone di questo mondo, ma il mondo non era il suo tesoro. Ecco, questo è il problema: che siamo troppo abituati a cercare tesori dove non ci sono. E la libertà dalle costrizioni materiali è uno di questi falsi tesori.
Ora noi sperimentiamo che effettivamente siamo esseri dotati di una libertà, libertà che siamo continuamente chiamati a esercitare con le nostre scelte. Ancor prima di essere illuminati dalla fede, ognuno di noi sa che esiste una libertà che in quanto immateriale non può essere soggetta a costrizioni da parte di nessuno: la libertà di desiderare o di amare ciò che vogliamo. Quindi, anche solo con le nostre facoltà umane, possiamo intuire che l’essenza stessa della vita umana deve essere legata a questa libertà e che, conseguentemente, l’uso che ne faranno i nostri ragazzi determinerà il grado di successo della loro vita.
Lasciamoci ora illuminare dalla nostra fede. Tutto si farà chiaro, semplice e meraviglioso. Dio stesso, l’Onnipotente, l’Amore, il Sommo Bene, bussa alla porta del nostro cuore e ci dice: io sono l’Amore; ti ho creato per amare e per essere amato; vuoi desiderare l’Amore? Se rispondiamo di sì, sappiamo con certezza che potremo essere esauditi perché è una sua promessa. Ecco svelati l’essenza e il motivo della nostra libertà. Come potrebbe Dio proporci di ricevere il suo amore se non ci avesse prima donato un’anima spirituale capace di libertà, della capacità di poter dire di sì all’Amore, allo stesso modo in cui diciamo di sì alla persona amata nella celebrazione del sacramento del matrimonio. La libertà di amare è legata alle facoltà della nostra anima spirituale: l’intelletto e la volontà. L’intelletto ci propone la cosa buona e con la volontà scegliamo di amare la cosa buona. Dobbiamo poi avere l’umiltà di capire, non senza l’aiuto della grazia, che Dio ha disposto che veniamo inseriti nella sua vita divina mediante i sacramenti che Lui stesso ha istituito. Allora il compito dei genitori è immensamente semplificato. La salute dei figli, il loro futuro lavoro, tutte le cose buone della vita, non sono più la meta desiderata, ma vengono declassati a meri mezzi per raggiungere la Meta che è Dio. Dobbiamo insegnare ai nostri figli che, diversamente dai desideri di questo mondo che possono realizzarsi ma molto spesso portano anche a fallimenti, e che quindi ci lasciano sospesi in uno stato di paura che fuggiamo con distrazioni varie (ecco l’origine della frase «l’importante è che ti diverti»), diversamente dicevo dai desideri di questo mondo, un sincero e fermo desiderio di Dio non può assolutamente fallire appunto perché l’unico requisito è di desiderarlo fermamente e di comportarsi di conseguenza dicendo di sì a tutte le cose buone che ci propone il Signore, con l’aiuto della grazia che Egli non ci negherà mai se non ci opponiamo a essa. Se c’è riuscito il buon ladrone, ci possiamo riuscire anche noi e i nostri figli. Il problema è che questi sì ci costano cari perché non vogliamo rinunciare ai falsi tesori. Ecco allora come dobbiamo impegnare il tempo della nostra vita: in una continua ricerca di un sì detto con sempre maggiore amore, decisione e fermezza, e un no a tutto ciò che si oppone al raggiungimento del nostro tesoro in Cielo. E il Signore curerà di donarci tutte le cose materiali e spirituali di cui abbiamo bisogno nel nostro cammino.
Per una particolare provvidenza del Signore, Carlo ha potuto beneficiare sin da piccolo di una speciale unità e armonia interiori che venivano continuamente rinnovate dalla sua scelta di mettere Dio al primo posto e, conseguentemente, di mettere in pratica il comandamento dell’amore. Forse questa parola “comandamento” stona ai nostri orecchi allenati alle false libertà di questo mondo. Ma l’amore non è una passione che dobbiamo seguire per essere felici?
I sentimenti e le passioni vanno e vengono, crescono e diminuiscono, spesso per fattori psicologici legati ai processi biochimici del nostro cervello. Ora insegnare ai nostri ragazzi a seguire un amore, inteso come seguire “quello che sento”, sarebbe l’equivalente di insegnare loro a essere tanti Pinocchio senza libertà. Eppure Pinocchio pensava di essere libero quando seguiva i suoi desideri. Ebbene, occorre insegnare ai nostri ragazzi che prima di tutto l’amore è un atto della volontà che prescinde dal sentimento. Infatti nel sacramento del matrimonio non promettiamo di amare il nostro sposo o la nostra sposa solo finché non sgorgherà nella nostra psiche una pulsione di attrazione, ma promettiamo di amare finché morte non ci separi. Così si deve intendere il comandamento di amare Dio e il prossimo.
Perché i santi attirano così tante persone? Perché hanno esercitato bene la loro libertà e percepiamo che sono mossi dal vero Amore, senza quella falsità, quella divisione, quella malizia che sono necessariamente presenti, spesso inconsapevolmente, in chi sceglie di adorare tesori diversi dal Sommo Bene, in chi sceglie le false libertà.
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Giovedì, 13 Marzo 2025

«Per rimanere fedeli bisogna uscire. San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo, tra l’uomo che cresce e la Tradizione che, nel trasmettere da un’epoca all’altra il depositum fidei, cresce e si consolida con il passo del tempo». Era il 13 maggio 2007 ad Aparecida, in Brasile, dove eravamo arrivati con il volo papale di Benedetto XVI nel giorno dell’inaugurazione della quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. Sotto i portici del grande santuario mariano incontrai il cardinale Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, che avevo conosciuto cinque anni prima a Roma, quando venne ospite presso la nostra famiglia. Gli chiesi del suo incontro con il Papa e delle prospettive di quell’assise. Mi fece quest’accenno a san Vincenzo di Lerins, all’esortazione Evangelii nuntiandi di Paolo VI e che ne avremmo riparlato quando sarebbe venuto a Roma.

Venne, come promesso, nell’ottobre di quell’anno per il Concistoro, al quale però non poté partecipare a causa di una dolorosa sciatica. E quello che mi disse divenne un’intervista per il mensile internazionale 30Giorni, l’unica che rilasciò in tutti quegli anni sulla visione della Chiesa. Mi parlò dell’apertura alla missionarietà, del coraggio apostolico, della misericordia, del pericolo dell’autoreferenzialità e della mondanità spirituale nella Chiesa. In sostanza i pilastri del suo magistero, quello che poi trasmise nella sua esortazione programmatica del pontificato Evangelii gaudium. Le stesse priorità che aveva ripreso anche nelle Congregazioni generali del pre-Conclave che lo portò al Soglio di Pietro, e che aveva già dette anche ai cardinali del pre-Conclave del 2005, in una paginetta di cui tengo copia.

Ricordo ancora quando, come paradigma della missione, mi parlò del profeta Giona. Una memoria che riaffiorò più tardi, il 7 marzo 2021, nella Piana di Ninive in Iraq, terra di Abramo e del profeta Giona, quando al seguito del suo viaggio apostolico vidi papa Francesco entrare nella cattedrale di Al-Tahira, crivellata di pallottole, attorniato dalla folla che agitava palme cantando in aramaico, lingua madre del cristianesimo siriaco, quella parlata da Gesù. «Santità, la accogliamo oggi come i niniviti accolsero “Giona, il predicatore della verità”, secondo la nostra tradizione siriaca», gli disse il patriarca siro-cattolico in mezzo alla folla di fedeli e presentando la comunità cristiana di Qaraqosh, dove il cristianesimo risale al tempo degli Apostoli.

In quella tappa, che sembrava uscire da una visione, sull’orlo di un tempo tragico segnato dalla pandemia, in un viaggio emblematico e profetico nella cerniera del Medio Oriente, culla dell’umanità e delle fedi, devastato dalle guerre, Francesco si era così portato anche nei luoghi emblematici dell’apertura alla missione. E portandosi alle origini dell’opera di Dio, da quel luogo sorgivo di fede e fratellanza, dalla terra del nostro padre Abramo, dove si è accanita l’opera diabolica dell’odio e della divisione, ancora una volta aveva fatto non solo comprendere «come superare i mali e le ombre di un mondo chiuso»: aveva fatto anche progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dalla Tradizione nel solco del Concilio Vaticano II.

Quelle della risalita alle fonti del Vangelo, di una rinnovata missionarietà, del dialogo ecumenico e interreligioso in favore della ricerca della pace, della collegialità e povertà nella Chiesa, che sono il lascito da percorrere del Vaticano II e insieme sono il timbro della Tradizione che hanno distinto questi dodici anni di pontificato. Timbro che Francesco aveva espresso in modo programmatico già la sera stessa dell’elezione, nel primo saluto, nella prima preghiera e nella prima benedizione dal balcone di San Pietro: «Fratelli e sorelle, buonasera! E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa [...] sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella! E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me».

Sono affermazioni nelle quali espresse da subito la volontà di farsi prossimo, quale espressione dell’«intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana», come viene descritta nel proemio della costituzione pastorale Gaudium et spes, che è all’origine dell’invito alla prossimità, e il richiamo alla «conversione pastorale» che Francesco rivolgerà poi a tutta la compagine ecclesiale. E con lo stesso invito che quella sera del 13 marzo rivolse ai fedeli di compiere «un cammino insieme vescovi e popolo» aveva rimandato direttamente al secondo capitolo della costituzione dogmatica Lumen gentium sulla natura della Chiesa dove si afferma – testuali parole – che « vescovo e popolo fanno un cammino insieme».

Da qui anche la sinodalità, che significa appunto “camminare insieme”, modalità e stile che appartengono alla natura apostolica costitutiva della Chiesa, e che in questi dodici anni è stata rimessa in moto nei sinodi promossi dal Papa a partire da quello sulla famiglia. Come Vescovo della Chiesa di Roma, «che presiede nella carità tutte le Chiese», riprendeva inoltre la sorgente del suo ministero universale a cui è affidato il compito in quanto Successore di Pietro: quello di ricercare l’unità dei cristiani, tanto che Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, ascoltando queste prime parole pronunciate a San Pietro da papa Francesco immediatamente dopo la sua elezione, prese il primo aereo e arrivò a Roma per poterlo incontrare. E fu il primo Patriarca di Costantinopoli, successore dell’apostolo Andrea, a partecipare alla cerimonia d’inizio di un pontificato in Vaticano. Francesco, infatti, riprendeva le parole esatte di un teologo del primo secolo, un Padre della Chiesa, allora indivisa, e venerato poi santo dalla Chiesa ortodossa quanto dalla Chiesa cattolica: sant’Ignazio di Antiochia, detto l’Illuminatore. E con quelle parole, evidenziando che è Vescovo di Roma – motivo per il quale è Papa, sorgente del suo ministero universale – affermava ed evidenziava non solo la dimensione costitutiva della Chiesa di essere sinodale, ma anche il compito che gli è affidato in quanto Successore di Pietro: quello dell’unità. E per la prima volta anche un’enciclica, la Laudato si’, sulla cura del creato, si è potuta dire ecumenica per la comune, fraterna responsabilità, quella stessa che Atenagora, nel gennaio del 1969, proprio su Avvenire esprimeva con un “noi” per «offrire insieme orientamenti di speranza al mondo». Francesco concludeva infine «perché ci sia una grande fratellanza».

Con questa preghiera il Papa aveva perciò già prefigurato la ricerca dell’unità del genere umano e della pace, che sono confacenti al ministero petrino e che lo hanno portato attraverso il dialogo – valore radicato nell’agire di Dio verso l’uomo, come tutta la storia della Salvezza evidenzia – a gettare ponti dall’Occidente all’Oriente.

E anche con le altre religioni, fino alla firma del Documento sulla fratellanza umana siglato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il leader sunnita al-Tayyeb, intraprendendo i viaggi apostolici dalla Terra Santa all’Egitto, dal Marocco all’Iraq, dal Kazakistan al Bahrein, dal Sud Sudan alla Mongolia, fino ai Paesi all’Estremo Oriente, tutti siglati dall’enciclica Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale, che come la Laudato si’ è posta sotto il patronato di Francesco d’Assisi e indica una fratellanza che si estende non solo agli esseri umani ma all’intero creato.

In quelle parole pronunciate da Francesco la sera dell’elezione, i1 13 marzo 2013, c’era già dunque tutto il suo programma poi svolto nel corso del pontificato. Parole maturate dall’aver fatto proprio il Concilio Vaticano II nella sua interezza, come resourcement, «risalita alle sorgenti», comprensive della natura della Chiesa alla luce della Lumen Gentium e della sua missione nel solco della Tradizione. Incipit che fa anche comprendere come non sia il Papa a fare la Chiesa, e sia improprio guardare al Papa come a un personaggio separato dal corpo della Chiesa, che è di Cristo. Solo Cristo con l’azione dello Spirito può muoverla e farla andare avanti, come sottolineò nell’intervista del 17 novembre 2017 che mi rilasciò per Avvenire, dopo il viaggio ecumenico in Svezia, dove ribadì (e lo fece poi più volte): «Non sono io. Questo è il cammino dal Concilio che va avanti, che s’intensifica... motus infine velocior, come dice Aristotele. Questo è il cammino della Chiesa. Io seguo la Chiesa». È questo ciò che nel tempo resta e dal quale non si torna indietro.






Mercoledì, 12 Marzo 2025

Ernesto Olivero, fondatore del Sermig di Torino, cosa significa per lei il Giubileo?
Per me è un tempo di Grazia, l’occasione per provare a cambiare, a ripartire, sapendo che la Chiesa non è tanto una struttura da aggiornare ma una Presenza a cui convertirsi. Una Presenza che sa tutto di noi, che non ci giudica, che ci cerca per amarci, camminare insieme e provare così a rendere migliore il mondo.

Questo Giubileo di speranza arriva in un momento molto difficile, ma il volontariato che senso ha oggi? Che messaggio può lanciare?
Nella mia esperienza mi è venuta incontro una definizione molto concreta della speranza. La riassumo così: speranza è avere davanti qualcuno che piange e non dire mai “Che pena!”, ma “Cosa posso fare? Cosa posso fare per te?”. Ecco, il volontariato ha senso se prova a fare così. A tutti i livelli. Credo che sia questo il messaggio più alto che si può dare in un mondo che sembra andare dall’altra parte. Pare quasi che la compassione, il mettersi nei panni degli altri, la stessa gentilezza siano sentimenti da museo, ma non è così. Se ci pensiamo, è quanto di più umano possa esserci, ma bisogna sceglierlo, ripartire continuamente, non assecondare il male che è fuori ma anche dentro di noi.

Il Sermig – Servizio missionario giovani – è nato più di 60 anni fa dall’iniziativa di molti giovani, tra cui Ernesto Olivero, Maria Cerrato, sua moglie oggi in Cielo, e tanti altri. E 40 anni fa grazie all’apporto di decine di migliaia di volontari avete fatto un miracolo trasformando l’Arsenale di Torino che fabbricava armi in una casa di pace. Cosa possono fare i giovani di oggi scegliendo il volontariato?
Ricordo una frase indimenticabile di frère Roger, fondatore di Taizé. Lo ascoltai da ragazzo dire parole che non ho mai dimenticato. Secondo lui, bastava un pugno di giovani per cambiare il corso della storia di una città, di un Paese, in definitiva del mondo. Giovani appassionati, radicati nel bene, forti nella condivisione di ideali di giustizia, di pace, di solidarietà. Con i miei amici tanti anni fa abbiamo provato a fare questo, e qualcosa è avvenuto. Ma non siamo persone fuori dal comune, tutti possono farlo, soprattutto i giovani. Ci vuole però il coraggio di mettersi in gioco, pagare di persona se necessario, dire i sì e i no che contano nella vita.

Siamo, però, in un momento in cui le voci che parlano di pace paiono soffocate da quelle di chi vuole la guerra, dagli interessi dei mercanti di armi, di chi vuole predare le materie prime agli altri popoli, di chi vuole sopraffare i più deboli con la forza. È preoccupato? E che risposta può dare un volontario?
Sono molto preoccupato, come tutti coloro che credono in un mondo di pace, di concordia tra i popoli, di lotta contro le ingiustizie. Oggi dico anche un mondo che semplicemente fa proprio il diritto internazionale. A volte si ha la sensazione che non conti più niente, ma chi vuole vedere può ancora trovare esempi e punti fermi. Credo che i volontari, chi crede nel bene, oggi sia chiamato non a gridare ma a testimoniare con ancora più forza le ragioni delle proprie scelte, delle proprie convinzioni, del bene possibile alla nostra portata. Chi si chiude non fa un servizio alla verità.

Lei ha cominciato a fare volontariato per i più poveri perché non tollerava lo scandalo della fame nel mondo, per lei la più grande ingiustizia. Oggi la fame, con le altre due pesti della guerra e della malattia, è tornata, e probabilmente crescerà. Cosa può fare oggi un giovane?
È proprio così, e la cosa più triste è che a differenza del passato problemi come la fame nel mondo non commuovono più. Non parlo di emotività, ma della commozione buona che spinge a fare qualcosa. Credo che un giovane oggi debba fare di tutto per riscoprire questa commozione. Significa allargare lo sguardo, non pensare che il mondo giri solo attorno a me, ai miei problemi, alle mie relazioni. Significa anche studiare, perché dobbiamo imparare a leggere la complessità del mondo: non esistono ricette facili. Le cose forse non cambieranno subito, ma possiamo avviare un processo.

Lo spirito forte che unisce le generazioni che lavorano gratuitamente per il prossimo pare immutato. Che cosa augura a tutti i volontari in occasione del loro Giubileo e in vista dei tempi difficili che ci aspettano?
Ho un’immagine nel cuore del 2022. Era appena scoppiata la guerra tra Russia e Ucraina. L’Arsenale della Pace di Torino, come avvenuto in altri conflitti, si era subito attivato per raccogliere aiuti. Pensavamo di inviare uno o due tir di alimentari e farmaci. Il passaparola ci ha stravolto i piani: in tre mesi abbiamo visto migliaia e migliaia di giovani, adulti e anziani che sono venuti a donare materiali ma anche a smistarli, impacchettarli, caricarli. Abbiamo inviato oltre 1.600 tonnellate di aiuti, più di cento tir. Semplicemente commovente. Lì ho capito ancora una volta che la bontà disarma, che nel bene non esistono barriere, che nessuno è così povero da non poter donare qualcosa. Al volontariato auguro di continuare a fare così, a scoprire senza trionfalismi che fare felici gli altri è la chiave per scoprire la felicità anche per noi.





Mercoledì, 12 Marzo 2025

Eroe e modello per i «valori umani, civili e cristiani» che ha incarnato indossando la divisa dell’Arma dei carabinieri e donando la sua vita il 23 settembre 1943 per salvare 22 civili durante una rappresaglia nazista a Palidoro (Roma). Fu fucilato e con il suo sacrificio evitò l’uccisione del gruppo di innocenti. Questo è stato Salvo D’Acquisto (1920-1943), medaglia d’oro al valore militare. Un «esempio» che dà «fecondità alla nostra vita: una vita che per essere piena, per essere bella, per essere ricca deve essere fatta di scelte», in particolare «quando la tendenza a lasciarsi vivere dagli avvenimenti, dalle mode, dagli influencer di vario genere che popolano le scene sembra preponderante». È quanto ha detto questa mattina il cardinale prefetto del Dicastero delle cause dei santi, Marcello Semeraro, che oggi ha presieduto a Roma, nella Basilica papale di San Paolo fuori le Mura, una Messa a seguito della promulgazione, il 24 febbraio scorso, del decreto con il quale è stato dichiarato venerabile il vicebrigadiere napoletano ucciso all’età di 23 anni. Decreto che il Papa ha autorizzato dal Policlinico Agostino Gemelli, dove è ricoverato dal 14 febbraio, con l’udienza concessa al cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, e all’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto per gli affari generali.

L’Eucaristia è stata concelebrata dall’arcivescovo ordinario militare per l’Italia, Santo Marcianò, e dall’arciprete di San Paolo fuori le Mura, il cardinale statunitense James Michael Harvey. Tra le navate era presente anche il comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Salvatore Luongo.

Nel corso dell’omelia, il cardinale Semeraro ricordando il vicebrigadiere ha aggiunto: «È con tono commosso e confidenziale che affermo che per Salvo D’Acquisto non tarderà ad arrivare il miracolo richiesto per la beatificazione tanto è la devozione per questo eroe. Ed è dunque davvero con commozione che vivo insieme con voi questo momento solenne».

Come cariche di gratitudine sono state le parole espresse dall’ordinario militare Marcianò anche per il lavoro profuso per l’indagine canonica su D’Acquisto condotta dal postulatore della causa di beatificazione, il frate minore cappuccino Carlo Calloni. «Il decreto di venerabilità è un messaggio di speranza – ha spiegato nel suo saluto Marcianò – che arriva proprio mentre celebriamo il Giubileo della speranza». E pensando al fatto che da questo inizio 2025 il vicebrigadiere dell’Arma è ora venerabile ha aggiunto questa nota: «Anche se l’attesta è stata lunga, sentiamo di vivere un tempo davvero propizio, scelto da Dio: un autentico kairos». Infine il comandante Luongo, nel suo intervento, rivolgendosi al cardinale Semeraro, a nome dei presenti e di tutti i carabinieri, ha espresso «sentimenti di grande riconoscenza per aver sostenuto e promosso il decreto di venerabilità del servo di Dio, il vice brigadiere Salvo D’Acquisto» descritto dal generale come un «nostro eroe».

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Mercoledì, 12 Marzo 2025

Catia ha scoperto che suo marito l’ha tradita. E si domanda: «Come posso trovare la forza per perdonare tutto questo? Come posso tornare a credere alle sue parole?». Dice di sentirsi «smarrita e abbandonata» e chiede «solo un segno, un qualcosa che mi faccia capire che perdonare l'imperdonabile è la cosa giusta, che non ho perso la mia dignità e che Dio è accanto a me e mi sostiene». Tutto questo lo scrive a papa Francesco nella lettera pubblicata sulle pagine di “Piazza San Pietro”, il mensile diretto da padre Enzo Fortunato che esplora temi di fede, spiritualità e vita quotidiana. La rivista accoglie la rubrica in cui il Papa risponde a una delle missive dei lettori. E quella del numero di marzo è appunto di Catia. «Non è facile perdonare, soprattutto quando si è traditi nell’amore, nelle parole, nella fiducia – sottolinea Francesco nel testo scritto prima del ricovero al Policlinico Gemelli –. L’amore nel matrimonio va sempre migliorato, guardando a Gesù, a Maria, all’inno della carità di San Paolo. Se c’è l’amore, l’amore è capace di pazientare, ricucire, riparare». E aggiunge: Il perdono è un atto libero, personale, che trae forza dallo spirito, dalla grazia e dall’amore di Dio».

Commenta il direttore padre Fortunato: «La riconciliazione e il perdono sono comportamenti, esempi che possono qualificare la vita delle nazioni e delle persone. Per il cristiano sono la via maestra. Non è semplice, questo non ce lo siamo mai nascosto, ma rendono la vita profumata di Dio». L’ultimo numero di “Piazza San Pietro” ospita un ampio reportage del summit internazionale sui diritti dei bambini dal titolo “Amiamoli e Proteggiamoli” svoltosi in Vaticano lo scorso 3 febbraio alla presenza di papa Francesco con oltre cinquanta leader mondiali. Poi si parla dei dodici anni di pontificato di Francesco con le immagini dei momenti più significativi e le scelte che hanno rivoluzionato la Chiesa. Inoltre nella rivista si trovano le “Voci di donne”, per una Chiesa verso la parità, con le riflessioni di Liliana Segre su «Il dovere di non restare indifferenti». Non mancano gli approfondimenti artistico-culturali sulla Basilica di San Pietro e le esperienze dei pellegrini durante il Giubileo. Chi desidera abbonarsi a “Piazza San Pietro” può scrivere all'indirizzo email: abbonamenti@piazzasanpietro.va



Di seguito la risposta integrale di papa Francesco a Catia

Cara Catia,
non è facile perdonare, soprattutto quando si è traditi nell’amore, nelle parole, nella fiducia. Gesù nel Vangelo esorta a perdonare sempre, come si legge nel Vangelo di Matteo (Mt 18, 21-35). Dio ci perdona sempre e vuole che noi facciamo lo stesso. L’amore, come ho scritto nel quarto capitolo di “Amoris laetitia” (l’Esortazione Apostolica del 2016 dopo il Sinodo sulla famiglia), va oltre la giustizia, e straripa gratuitamente, perché gratuitamente abbiamo ricevuto, e gratuitamente diamo (cfr. Mt 10,8).


Ogni storia, tuttavia, è sempre speciale, diversa, unica. Il perdono è un atto libero, personale, che trae forza dallo spirito, dalla grazia e dall’amore di Dio. La sua domanda, Catia, in sostanza ci fa capire che la questione del perdono, che ripeto è sempre un dono e un fatto personale e umano, è una questione anche distinta rispetto alla dinamica positiva di una storia matrimoniale. Questi aspetti si possono intrecciare (l’uno fa bene all’altro, e viceversa), ma occorre anche fare attenzione al cammino personale del perdono che guarisce le ferite e smaltisce ogni rancore e giudizio sulla vita dell’altro, rispetto alla verifica matrimoniale sullo stare insieme nella carità e nella verità, e che ha una sua autonomia che prescinde dalla capacità di perdonare. “In alcuni casi – si legge nel cap.6 di “Amoris laetitia” (p.241) – la considerazione della propria dignità e del bene dei figli impone di porre un limite fermo alle pretese eccessive dell’altro, a una grande ingiustizia, alla violenza, o a una mancanza di rispetto diventata cronica. Bisogna riconoscere che ci sono casi in cui la separazione è inevitabile. A volte può diventare persino moralmente necessaria, quando appunto si tratta di sottrarre il coniuge più debole, o i figli piccoli, alle ferite più gravi causate dalla prepotenza e dalla violenza, dall’avvilimento e dallo sfruttamento, dall’estraneità e dall’indifferenza”.


Lei chiede un segno per comprendere che perdonare l’imperdonabile è la cosa giusta. Sì, è la cosa giusta ma non l’unica da fare. Catia, si rilegga anche il quarto capitolo di “Amoris laetitia”. L’amore nel matrimonio va sempre migliorato, guardando a Gesù, a Maria, all’inno della carità di San Paolo. Se c’è l’amore, l’amore è capace di pazientare, ricucire, riparare. In questa ricerca dell’amore vero con pazienza, amabilità, benevolenza, reciprocità, Catia, lei può chiedere a suo marito di fare insieme un cammino di accompagnamento, ad esempio alcuni incontri con una coppia cristiana impegnata a sostenere le coppie ferite, condividendo le esperienze di vita, le difficoltà, il perdono, la riconciliazione. Ci sono presso le parrocchie coppie che svolgono questo servizio, talora con una competenza specifica (counseling o supporto psicologico). A volte queste coppie hanno superato esse stesse gravi situazioni ed ora vivono serenamente. Ed è importante ascoltarle.


Questo può essere il segno che lei chiede. Certo, può essere un itinerario a ostacoli, ma insieme si può vivere una autentica conversione matrimoniale. Con la preghiera e il perdono, che costruiscono e rafforzano la conversione di ciascuno, il bene cresce e può vincere qualunque male. Niente è impossibile a Dio. Speriamo che suo marito accetti questo nuovo cammino, perché – se c’è l’amore in una coppia – l’amore può curare ogni ferita, e far risorgere il matrimonio.
Pregherò per lei, Catia, e per il suo matrimonio. Lei non si dimentichi di pregare per me.





Mercoledì, 12 Marzo 2025

Pubblichiamo il comunicato finale della sessione primaverile del Consiglio Episcopale Permanente.

La preghiera per Papa Francesco ha caratterizzato la sessione del Consiglio Episcopale Permanente che si è svolta a Roma, dal 10 al 12 marzo, sotto la guida del Cardinale Presidente Matteo Zuppi. Alla vigilia del dodicesimo anniversario dell’elezione al soglio pontificio, i Vescovi hanno voluto rinnovare la loro vicinanza al Santo Padre, in questo momento particolare di prova e di malattia, manifestandogli l’affetto filiale delle Chiese in Italia e assicurandogli la loro preghiera costante e corale. I lavori si sono aperti con l’Adorazione Eucaristica durante la quale si è pregato per la salute del Papa: i Presuli si sono così uniti alle invocazioni che, da giorni, le comunità italiane e del mondo stanno rivolgendo al Signore affinché egli trovi “sollievo nel corpo e consolazione nello spirito”.

Giubileo, tempo di scelte coraggiose

“Siamo ormai entrati nel vivo del Giubileo”, hanno ricordato i Vescovi sottolineando che “questo Anno è un’occasione di conversione, rinnovamento della fede e di incontro con Cristo”. Uno degli elementi caratterizzanti di ogni evento giubilare è il pellegrinaggio, come ricorda la Bolla di indizione Spes non confundit: “Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità” (n. 5). Da qui l’invito a vivere con pienezza questa esperienza di vita. Accanto a questo, i Presuli hanno concordato, con le parole del Cardinale Presidente, sulla necessità di “dare vita a gesti concreti che incarnino lo spirito giubilare” e a “trasformare i segni dei tempi in segni di speranza”. È fondamentale “vivere il Giubileo - hanno rimarcato - come un tempo di rinnovamento delle relazioni, improntato al rispetto della dignità di ciascuno, alla pratica della giustizia sociale, alla ricerca della pace giusta, alla cura della Terra”. Si tratta di osare scelte coraggiose che permettano di rimettere i debiti, ridare respiro alle situazioni di vita asfittiche, condividere i beni con il povero (cf. Lv 25). I Vescovi hanno ribadito l’importanza di proseguire nella rotta dell’ecologia integrale, che chiede stili di vita più sobri e solidali da parte di singoli e comunità. Al debito ecologico è strettamente collegata la questione del debito economico dei Paesi poveri, contratto non solo con altri Paesi benestanti, ma anche con privati: è inaccettabile – hanno rilevato i Presuli - che gli interessi siano talmente oppressivi da costringere a rinunciare a investimenti nella sanità, nell’istruzione e nel welfare. In riferimento all’Anno Santo, il Consiglio Permanente ha rilanciato l’appello del Papa a promuovere iniziative concrete per lenire le sofferenze dei detenuti, attraverso “forme di amnistia o di condono della pena” (Spes non confundit, 10), per favorire pene alternative e per attivare occasioni di giustizia riparativa, che responsabilizzano tra l’altro i colpevoli nei confronti delle vittime innocenti.

Verso la Seconda Assemblea sinodale

Sempre nell’ottica del rinnovamento, cardine del Giubileo, si muovono i passi del Cammino sinodale. Le Chiese in Italia si preparano a vivere la Seconda Assemblea nazionale, che si terrà a Roma dal 31 marzo al 3 aprile 2025, e che, come la Prima, sarà un’esperienza di Chiesa e di comunione. Raccogliendo la ricchezza dei vari contributi, il Consiglio Permanente ha affidato alla Presidenza della CEI, allargata ai Vescovi che fanno parte della Presidenza del Comitato nazionale del Cammino sinodale, l’approvazione della redazione finale del Documento che contiene le proposte da sottoporre all’Assemblea sinodale. Queste sono il frutto del discernimento ecclesiale nel cammino comune di questi anni, esplicitando le tre dimensioni della conversione pastorale secondo la struttura indicata dai Lineamenti e dello Strumento di Lavoro: il rinnovamento missionario della mentalità ecclesiale e delle prassi pastorali; la formazione missionaria dei battezzati alla fede e alla vita; la corresponsabilità nella missione e nella guida della comunità. Le proposte, che verranno portate sotto forma di Proposizioni all’Assemblea sinodale per la necessaria approvazione, saranno poi consegnate ai Vescovi perché possano indicare gli orientamenti per le scelte da compiere innanzitutto nelle Chiese locali, ma anche negli Organi e nei Servizi della CEI, proprio per sostenere e coordinare la conversione sinodale e missionaria delle diverse realtà ecclesiali in Italia.

Un grido di pace

I Vescovi hanno poi rivolto il loro sguardo alla situazione internazionale. Con quanto richiamato dalla Bolla di indizione del Giubileo 2025, hanno auspicato che “il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra” (Spes non confundit, 8). Per questo, hanno espresso dolore per le violenze che insanguinano diversi angoli del Pianeta mettendo a rischio il futuro di tutti. Sono risuonate forti le parole pronunciate da Papa Francesco a Bari in occasione dell’incontro “Mediterraneo frontiera di pace”: “La guerra, che orienta le risorse all’acquisto di armi e allo sforzo militare, distogliendole dalle funzioni vitali di una società, quali il sostegno alle famiglie, alla sanità e all’istruzione, è contraria alla ragione, secondo l’insegnamento disan Giovanni XXIII (cf. Enc. Pacem in terris, 62; 67). […] Essa è una follia” (Discorso, 23 febbraio 2020). Preoccupati, dunque, per lo scenario globale, i Vescovi si sono soffermati sulle tensioni crescenti e sul linguaggio della politica internazionale sempre più aggressivo, violento e divisivo. Da qui l’impegno, richiesto a tutti, per una maggiore cura del linguaggio, evitando la retorica bellicistica per tornare a parlare di pace, insieme alla riscoperta dell’importanza di iniziative multilaterali e del valore della diplomazia. In tal senso si muove anche l’appello rivolto più volte da Papa Francesco a ridurre le spese militari, destinando “almeno una percentuale fissa del denaro impiegato negli armamenti per la costituzione di un Fondo mondiale che elimini definitivamente la fame e faciliti nei Paesi più poveri attività educative e volte a promuovere lo sviluppo sostenibile, contrastando il cambiamento climatico” (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2025).

Secondo i Presuli, occorre individuare modalità nuove per favorire il dialogo e per innervare la società con quella cultura che nasce dal Vangelo e con una testimonianza autentica. La guerra, spesso alimentata da nazionalismi antiumani, che è tornata a insanguinare l’Europa e che segna l’esistenza di tanti popoli, richiede – hanno rimarcato i Vescovi – decise iniziative politiche e diplomatiche per la pace. La Chiesa italiana, da parte sua, continuerà a sostenere lo slancio umanitario verso le vittime dei conflitti.

La vocazione dell’Europa

Le origini storiche e la vocazione alla pace dell’Europa comunitaria ne fanno un soggetto irrinunciabile e ne richiamano gli impegni sulla scena globale. Un’Europa che ha bisogno di recuperare i suoi valori fondativi – pace, libertà, democrazia, diritti, giustizia sociale – facendo risuonare la propria voce di pace. In un momento storico in cui si insiste sui temi della sicurezza e della difesa, è fondamentale – hanno ribadito - che tali preoccupazioni non diventino tamburi di guerra. In linea con l’espressione richiamata dal Cardinale Presidente “se vuoi la pace, prepara la pace”, i Vescovi hanno ricordato l’urgenza che gli investimenti pubblici siano indirizzati primariamente a sostenere le persone bisognose, le famiglie povere, le fasce sociali più deboli, ad assicurare a tutti adeguati servizi educativi e sanitari, a contrastare il cambiamento climatico. In quest’ottica, sarebbe opportuno riportare il tema dello sviluppo sostenibile al centro delle scelte politiche degli Stati e delle Organizzazioni internazionali, tra cui l’Unione Europea. La sottolineatura del Card. Zuppi sulla opportunità di una “Camaldoli europea” rilancia, anche sulla scorta di quanto sperimentato alla Settimana Sociale di Trieste, l’impegno personale e comunitario per la democrazia, la pace, la solidarietà e le future generazioni.

L’impegno dei cattolici in politica

I Vescovi si sono dunque confrontati sull’altissima vocazione della politica e sull’importanza di quegli spazi di riflessione, di dialogo, dove i cattolici possono riconoscersi e grazie ai quali si possono formare personalità capaci di stare nell’agone politico con dignità e coerenza. Il coinvolgimento registrato alla Settimana Sociale di Trieste e le varie iniziative che da quell’esperienza hanno preso
vita o forza dimostrano l’interesse di molti esponenti delle istituzioni nazionali e delle amministrazioni locali ad un agire politico animato dalla Dottrina sociale della Chiesa. Per i Vescovi, si tratta di un segnale positivo, soprattutto rispetto alla nota disaffezione dei cittadini alla partecipazione alla vita politica e all’astensionismo crescente. Per questo, è stato rinnovato l’invito a promuovere la partecipazione alla vita democratica attraverso le Scuole di formazione all’impegno socio-politico; a favorire la formazione alla Dottrina sociale della Chiesa; a sostenere la pastorale sociale nelle Chiese locali.





Mercoledì, 12 Marzo 2025

Non accade tutti i giorni che un ragazzo confidi a un amico il sogno di partecipare – un domani, da “grandi” – a un Concilio della Chiesa cattolica, e che quel desiderio si compia davvero, per tutti e due. Non accade tutti i giorni che un vescovo e patriarca si metta a scrivere “lettere aperte” non solo a “Illustrissimi” personaggi della storia o della letteratura, ma addirittura a un orso, a modo suo anch’esso illustre. E non accade tutti i giorni che due futuri Pontefici si incontrino, entrambi vescovi, e ne nasca un rapporto intessuto di amicizia e stima; e che un giorno, ad uno dei due, sia chiesto di testimoniare al processo di beatificazione dell’altro. Anzitutto, però: non accade tutti i giorni che un figlio delle Dolomiti, nato in una famiglia umile, cresciuto sperimentando in prima persona le prove e le fatiche che segnano la vita delle genti della montagna – ma anche condividendone la fede, la devozione, la spiritualità – diventi Papa. Ebbene: tutto questo, e tanto altro, è accaduto ad Albino Luciani. Come potrà scoprire chi, in quest’Anno giubilare, si farà “pellegrino di speranza” nei luoghi della vita e della missione del beato Giovanni Paolo I.

Rivolti a questi pellegrini ecco i due itinerari messi a punto dalla Fondazione Papa Luciani e dal Musal-Museo “Albino Luciani” di Canale d’Agordo (Belluno), descritti in agili guide – entrambe con la prefazione del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano – che si possono chiedere scrivendo a info@fondazionepapaluciani.com. Due proposte lanciate recentemente, assieme ad una terza, il “Giubileo dei Pontefici”, un itinerario che fra Lombardia e Veneto tocca i luoghi dei Papi lombardi e veneti del ’900 – Pio X, Pio XI, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo I (di cui Avvenire ha parlato il 16 febbraio scorso: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/pellegrini-fra-lombardia-e-veneto-sui-passi-di-cin).

Il primo itinerario dedicato a Giovanni Paolo I s’intitola “Dalle Dolomiti alla Cattedra di Pietro”. Si parte da Canale d’Agordo – dove Luciani vide la luce il 17 ottobre 1912 e dove sono visitabili la casa natale, il Museo Luciani, la chiesa arcipretale di San Giovanni Battista, dove venne battezzato e ricevette i sacramenti, e altri luoghi – per toccare Feltre, Agordo, Belluno; quindi Vittorio Veneto, dove Luciani fu vescovo, poi Venezia, che lo accolse patriarca, infine Roma, dove venne chiamato a servire la Chiesa come Papa. Filo conduttore del cammino di Luciani fu il «lasciarsi guidare dalla Provvidenza» che lo portò «ad accettare di scalare vette che non aveva previsto, né voluto, a ricoprire ruoli di servizio e di responsabilità ai quali mai aveva aspirato, cercando sempre piuttosto l’ultimo posto», scrive il cardinale Parolin nella prefazione. Farsi pellegrini fra chiese, santuari, seminari e altri luoghi legati alla vita di Luciani, diventa via esemplare per riscoprirne l’umanità, la spiritualità, il magistero.

L’altra proposta s’intitola “Il Papa delle Dolomiti” ed è tutta dedicata alle chiese e ai santuari alpini ai quali Luciani era particolarmente legato. Anche questo itinerario parte da Canale d’Agordo. Da qui, «fin da piccolo», Luciani «era stato abituato dai nonni e dai genitori a compiere a piedi lunghi pellegrinaggi ai luoghi mariani più cari alle genti di montagna. Tra questi sicuramente egli era legato al Santuario della Madonna di Pietralba-Weissenstein, in Sudtirolo, e ai Santuari della Madonna di Pinè e di San Romedio, in Trentino. Negli ultimi anni da cardinale era abituato a passare alcuni giorni estivi proprio a Pietralba», sottolinea Parolin nella sua prefazione. E proprio nel Santuario di Pietralba, lo scorso 29 settembre, è stato inaugurato un dipinto che ritrae il “Papa del sorriso” sullo sfondo del Catinaccio (https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/nell-agenda-del-46-appuntamento-estivo-con-papa).

Luogo di grande fascino, visitato da Luciani come dai suoi nonni e dai compaesani, il Santuario di San Romedio è un complesso formato da più chiese e cappelle costruite sulla roccia, collegate da una scalinata di 131 gradini. In un’area verde nei pressi del Santuario, hanno avuto asilo, nel tempo, vari esemplari di orso. Un modo per rievocare un fatto leggendario. Si narra che Romedio di Thaur, l’eremita che per primo abitò questi luoghi, dovendo recarsi a Trento dal vescovo Virgilio, ebbe il cavallo sbranato da un orso. Il santo riuscì prodigiosamente ad ammansire la bestia. Che non solo divenne sua cavalcatura in quell’occasione, ma anche suo compagno fino alla morte. Ebbene: all’orso di San Romedio Luciani dedicò una delle lettere aperte a personaggi del passato raccolte nel volume Illustrissimi. E formulò una preghiera: «O Signore, addomestica me pure, rendimi più servizievole e meno orso!».

Fra i luoghi visitati da Luciani ragazzo, assieme al suo parroco e ad un amico, Saba De Rocco, in occasione di un pellegrinaggio a piedi, si ricorda Santa Maria Maggiore, la chiesa del Concilio di Trento. Davanti a un quadro che raffigura i padri conciliari (oggi è custodito al Museo Diocesano Tridentino), il futuro Papa disse all’amico: «Che bello sarebbe se un domani anche tu e io fossimo lì, in un Concilio...». Così avvenne: Luciani e De Rocco si ritrovarono, padri conciliari, alla prima sessione del Vaticano II.

L’itinerario tocca anche il Seminario di Bressanone, dove avvenne «all’inizio di agosto del 1977 il celebre primo incontro con l’allora neo arcivescovo di Monaco e Frisinga Joseph Ratzinger», ricorda Parolin. Che riprende le parole dello stesso Luciani: «Pochi giorni fa mi sono congratulato con il cardinale Ratzinger, nuovo arcivescovo di Monaco: in una Germania cattolica, ch’egli stesso deplora come affetta, in parte, di complesso antiromano e antipapale, ha avuto il coraggio di proclamare alto che “il Signore va cercato là dov’è Pietro”. Ratzinger mi è parso in quell’occasione un profeta giusto. Non tutti quelli che scrivono e parlano hanno oggi lo stesso coraggio». Il futuro Benedetto XVI, è l’«unico papa emerito ad aver testimoniato in un processo di canonizzazione, quello del suo predecessore Giovanni Paolo I», annota infine il segretario di Stato. Che riconosce come questo itinerario possa offrire «un contributo significativo per conoscere meglio la spiritualità mariana delle Dolomiti di papa Luciani». E la grandezza di un Papa «il valore del cui pontificato “è inversamente proporzionale alla sua durata”, come felicemente disse di lui il suo successore san Giovanni Paolo II».






Mercoledì, 12 Marzo 2025

«Da quella camera del Policlinico Gemelli non si proclamano discorsi, ma si testimonia il Vangelo con il respiro della fragilità. Papa Francesco ci sta dicendo che il dolore non è un inciampo, ma una strada da percorrere con fiducia». Il cardinale Domenico Battaglia è l’ultima porpora, in ordine di tempo, voluta da papa Bergoglio. Entrato “a sorpresa”, come ha scritto la stampa, nel novero dei cardinali che il Pontefice ha creato nel Concistoro del 7 dicembre.

Da Napoli, dove dal dicembre 2020 è arcivescovo sempre per decisione di Francesco, guarda al decimo piano del Gemelli a Roma in cui il Papa è ricoverato da quasi un mese. La sua voce flebile diffusa in piazza San Pietro che è rimbalzata in tutto il mondo ha commosso. Ma, ancora una volta, è diventata il pretesto per alimentare speculazioni mediatiche sul Pontefice e sul futuro della Chiesa. «A tutto questo si risponde con il silenzio operoso. Con la fedeltà al Vangelo. Con la vita - afferma Battaglia -. Le parole passano, la verità resta. Le fake news fanno rumore, ma la luce di chi ama brilla più forte di ogni menzogna. Francesco non ha bisogno di difendersi. La sua risposta sono i gesti, le scelte, la sua fedeltà a Cristo e ai poveri. Il futuro della Chiesa non è nei pettegolezzi, ma nelle mani di Dio. E mentre il mondo si agita, noi continuiamo a camminare con il cuore saldo e lo sguardo fisso sull’unica cosa che conta: l’amore». C’è una sorta di speciale sintonia di papa Bergoglio con Battaglia. Una vicinanza che Francesco ha testimoniato non solo con la berretta ma almeno con due gesti pubblici: nel 2021 il Pontefice ha consegnato ai vescovi italiani durante l’Assemblea generale della Cei un’immaginetta che conteneva le otto “beatitudini del vescovo” proposte da Battaglia; e nel marzo 2022, a tre settimane dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Francesco ha letto nell’udienza generale la preghiera per la pace del futuro cardinale dal titolo “Perdonaci la guerra, Signore”.

Eminenza, come sta vivendo la degenza del Papa? E come la vive Napoli?

«La vivo con il cuore in preghiera e gli occhi pieni di speranza. Francesco ci ha insegnato che la croce non è sconfitta, ma un’altra forma d’amore. E così lo immagino lì, in quella stanza d’ospedale, con lo stesso sguardo di sempre: quello di un padre che continua a donarsi, anche nel dolore. E Napoli di questo gli è grata. E l’abbraccio della sua preghiera arriva fino a Roma. Napoli ama Francesco perché Francesco parla il linguaggio degli ultimi, perché nei suoi occhi c’è la stessa luce di chi ha conosciuto la fatica della vita ma non ha mai smesso di credere nella bellezza del domani».

Il Gemelli è oggi la nuova cattedra del Papa.

«Francesco ci insegna che non si ama solo con le parole, ma anche con il silenzio dell’attesa, con la pazienza della guarigione, con il coraggio di affidarsi».

Nella malattia c’è la preghiera personale del malato e quella comunitaria per il malato, come testimonia la “catena orante” per il Papa.

«La preghiera è il filo che lega la terra al cielo, è la mano che stringe un’altra mano, è la voce che sussurra speranza anche nel buio della notte. Quando preghiamo non siamo soli: siamo popolo, siamo famiglia, siamo parte di un amore che non conosce distanze. In questi giorni la preghiera per Francesco è diventata un’onda che attraversa il mondo, un respiro che si fa coro, un fuoco che scalda il cuore della Chiesa».

Nel messaggio che lei ha inviato in occasione del ricovero, ricorda il Vangelo della pace e della fraternità che il Papa annuncia. Come declinare la fraternità nell’Italia di oggi che appare divisa al suo interno?

«Fraternità non è solo una parola da predicare, ma una strada da percorrere, giorno dopo giorno. È scegliere di ascoltarsi prima di giudicarsi, di tendersi la mano invece di puntarsi il dito contro. È imparare a dire “noi” in un mondo che ci vuole sempre più soli, sempre più nemici, sempre più distanti. L’Italia ha bisogno di ponti, non di muri. Ha bisogno di cuori aperti, di gesti concreti, di dialoghi sinceri. La fraternità non è una teoria, è vita vissuta. Comincia dalle piccole cose: un sorriso, un perdono, un posto a tavola in più».

Nel suo messaggio, lei cita i poveri, gli ultimi, i sofferenti, particolarmente cari a papa Francesco. Poi ci sono i bambini che lasciano disegni e preghiere davanti all’ospedale.

«I bambini sono il Vangelo disegnato a colori. Nelle loro preghiere c’è la fede più vera, in quei fogli lasciati fuori dall’ospedale c’è un mondo che sa ancora sognare. Francesco lo sa, per questo li ama tanto. Perché sono loro a ricordarci ciò che spesso dimentichiamo: che la vita è un dono, che la tenerezza è una forza, che la fragilità è un invito ad amare di più. Se ascoltassimo i bambini, se imparassimo da loro, il mondo sarebbe un posto migliore».

Lei è stato nominato a gennaio membro del Dicastero per l’evangelizzazione. Anche nella fragilità si può essere annunciatori del Vangelo con la propria vita “debole”?

«Non solo si può, si deve. Il Vangelo non si annuncia dall’alto di un piedistallo, ma dal basso di un cuore ferito e innamorato. Non servono potenza, perfezione o grandi discorsi. Basta la vita, quella vera. Quella che cade e si rialza, che sbaglia e riprova, che soffre ma non smette di amare. Anche la debolezza è una parola di Dio, se la lasciamo parlare. Anche le cicatrici possono essere luce, se abbiamo il coraggio di mostrarle».

Nella società dell’efficientismo, la malattia viene nascosta. Il Papa ha chiesto trasparenza. Un’ulteriore lezione?

«Sì, ed è una lezione di verità. Viviamo in un mondo che celebra la forza e nasconde la fragilità, che esalta il successo e si vergogna della debolezza. Ma la vita è fatta di entrambe. Francesco ci sta dicendo: “Guardatemi, anche io sono fragile. Anche io ho bisogno di cura, di attesa, di speranza.” Non c’è nulla di scandaloso nell’essere deboli. Lo scandalo è fingere di non esserlo. La trasparenza del Papa è un invito a essere veri, a non temere la nostra umanità, a non vergognarci della nostra vulnerabilità».





Martedì, 11 Marzo 2025

«Studio l’ebraico, leggo la Bibbia. Alcune pagine, alcune parole mi hanno rivelato qualcosa della loro verità e mi hanno istigato a darne notizia. Non ho adattato il testo a una interpretazione, ne sono stato invece piegato. La Bibbia è almeno una letteratura e il Dio di Israele è se non altro il più grande personaggio dei tempi». Questa riflessione dello scrittore Erri De Luca, impegnato da anni in un coraggioso scavo nel testo biblico di cui cerca di restituire il più fedelmente possibile il linguaggio originale, è perentoria quanto incontestabile.

Sì, le letterature occidentali hanno spesso attinto allo scaffale del Libro dei libri, attratte dalla forza delle storie e dei personaggi biblici e offrendone a loro volta una ricca serie di originali riletture. Un testo purtroppo scarsamente conosciuto alle nostre latitudini, per molti motivi, riemerge così grazie all’opera di scrittori e poeti, ingrediente essenziale dell’ispirazione di tanti di loro. La Divina Commedia, il Paradiso perduto di Milton, la lirica vena mistica di Juan de la Cruz e Teresa di Avila, I promessi sposi, Il processo di Kafka, che riecheggia la drammatica parabola di Giobbe, stanno lì a dimostrarlo: e naturalmente non è che qualche esempio fra i maggiori, citato alla rinfusa. Se Claudel a buon diritto scrive della Bibbia come di un immenso vocabolario e T.S. Eliot di un giardino di simboli, immagini e storie, il critico Auerbach si spinge a distinguere nel sapere occidentale solo due stili fondamentali, quello della Bibbia e quello dell’Odissea: archetipi che hanno generato tutti i successivi.

«La Bibbia e Omero sono i due gran fonti dello scrivere… Non per altro se non perché essendo i più antichi, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà», proclama nello Zibaldone Leopardi, che avrà in Qohelet e Giobbe i costanti punti di riferimento esistenziale e filosofico. E persino un autore poco incline a simpatie religiose come Nietzsche, in Aurora, giunge ad ammettere che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro o di Petrarca c’è la stessa differenza che tra la patria e la terra straniera».

Un’accelerazione del dibattito sugli intrecci fra Bibbia e letteratura si è registrata con l’uscita nel 1986 del volume del critico canadese Northrop Frye Il grande codice: una formula divenuta presto di uso comune. Il titolo riprende una felice considerazione del poeta visionario inglese William Blake, secondo cui «l’Antico e il Nuovo Testamento sono il grande codice dell’arte»: una sterminata unità testuale che ha dato forma, a livello di linguaggio, miti, metafore, schemi e tipologie, a tanta letteratura, attraversando secoli e movimenti culturali; un gigantesco laboratorio di creatività che ha favorito la persistente fecondità del mito biblico. Frye sostiene con molti esempi che il rapporto fra Bibbia e letteratura può intendersi in vari modi, analizzando la teoria estetico-letteraria che emerge dalla Scrittura, riflettendo sul fatto che essa si presenta a sua volta come prodotto letterario, o cogliendo il testo biblico come generatore di letteratura, da indagare nella storia dei suoi effetti di senso.

Alle analisi esegetiche, perciò, sarebbe fecondo abbinare gli esiti della Bibbia sulla tradizione teologica o spirituale a quelli su romanzi e poesie. Si tratta, è evidente, di un’impresa ciclopica: la lettura infinita è lo slogan caro al cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione. Va ricordato, poi, che i due termini, Bibbia e letteratura, non sono innocenti o neutri, ma complessi e intrinsecamente plurali: si pensi alle differenze nel canone fra le varie confessioni cristiane e con l’ebraismo, e alla letteratura in quanto sistema, nel suo statuto epistemologico costitutivo. La loro relazione è dunque ben più densa di quanto non appaia a prima vista, non esaurendosi nella trama dei rapporti fra deposito e prestito, matrice e copia. Il fare letteratura, infatti, evitando l’uso apologetico e moralistico della Scrittura e distanziandosi da un ipotetico senso oggettivo, rielabora e trasforma la narrazione biblica, ce la restituisce gravida di nuovi interrogativi e versioni, la plasma, la reinterpreta, la piega alle esigenze dell’attualità, riproponendola in nuove modalità.

La direzione, perciò, non è solo quella lineare che procede dalla Bibbia alla letteratura, ma quella che crea una circolarità tra i materiali biblici e le loro riprese letterarie, riportando il lettore al punto di partenza, nel cuore della Scrittura stessa. Fino a giustificare l’ipotesi che la letteratura possa rappresentare un luogo teologico privilegiato, auspicio formulato nel 1976 su Concilium da J.-P. Jossua e J.B. Metz: «Bisogna arrivare a chiedersi qual è il contributo che unicamente la letteratura può dare, cercare ciò che nessuna teologia concettuale saprebbe dire e che invece la letteratura esprime, a modo suo, con potenza».

teologo e saggista






Martedì, 11 Marzo 2025

È una tendenza che si va consolidando. In Italia quasi quattro persone su dieci (il 38,16% della popolazione secondo recenti stime) scelgono di farsi cremare. Un’opzione che la Chiesa, dopo averla bocciata a lungo, oggi accetta pur continuando a consigliare la sepoltura. Ma quali sono le ragioni che portano alla decisione di essere cremati? Quali i motivi, di fede innanzitutto, che spingono la Chiesa a prediligere la sepoltura? E, ancora, ci sono limiti “di natura religiosa” alla cremazione? Sono le domande cui risponde il nuovo episodio del podcast “Taccuino celeste”, dai richiami alla Scrittura ai più recenti documenti magisteriali fino alla presentazione della figura di san Giuseppe d’Arimatea, il patrono di chi lavora nell’ambito dei funerali, come i necrofori e gli addetti alle pompe funebri. La Cartolina da Camaldoli, curata dai monaci benedettini della comunità toscana, riflette sul tema dell’episodio e invita soffermarsi sull’importanza dei cimiteri.

Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, del digiuno cristiano, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo.

Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it





Martedì, 11 Marzo 2025

Anche a Sanremo 2025 si citano passi biblici o si recitano versetti di salmi in aramaico, ma le nuove generazioni rischiano di non saper riconoscere, apprezzare e valutare questi riferimenti. L’analfabetismo biblico, piaga diffusa in Italia, preclude infatti la comprensione di innumerevoli elementi della nostra cultura quotidiana: dall’arte all’architettura, dal linguaggio popolare alle festività. Come interpretare il patrimonio letterario e filosofico o i valori della Costituzione senza possedere le chiavi di lettura fornite dalla Bibbia? E come favorire l’integrazione di chi proviene da altre tradizioni religiose se non siamo in grado di spiegare le radici della nostra identità culturale?

L’annuncio del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara riguardo alle nuove Indicazioni nazionali per il primo ciclo, che prevedono l’inclusione delle Sacre Scritture nei programmi scolastici a partire dal 2026-2027, potrebbe finalmente andare incontro ad un’esigenza segnalata da decenni da intellettuali ed esponenti dell’ebraismo e delle Chiese cristiane, ma anche laici. Anzi, a dirla tutta, stupisce che l’inclusione non riguardi anche il secondo ciclo d’istruzione, quando gli studenti consolidano il loro bagaglio culturale, etico e critico; l’elemento biblico, uscendo da un immaginario infantile o favolistico, potrebbe contribuire alla loro formazione integrale come cittadini consapevoli e responsabili.

Anche Gesù in un passo riportato da Luca risponde a un dottore della Legge che lo interrogava: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (Lc 10,26). Il punto decisivo è il come di questa lettura, di questa introduzione biblica nel percorso formativo di bambini e ragazzi. Sarebbe inappropriato un approccio confessionale o identitario che potrebbe essere letto come chiusura ad altre culture. D’altra parte, a differenza dei poemi omerici, la Bibbia è testimone di una storia che dura ancora adesso e nutre la fede di milioni di persone in Italia. Tenendo conto di tutti i rischi dell’operazione si tratta comunque di una grande opportunità per sottrarre i testi biblici dall’oblio o dall’uso strumentale di cui anche la storia recente mostra esempi.

È fondamentale che lo studio della Bibbia nelle scuole sia condotto da persone in grado di offrire un approccio storico-critico (come raccomandato da più di trent’anni anche dalla Pontificia Commissione Biblica), contestualizzando i testi ed evitando letture che potrebbero risultare fuorvianti, portatrici di discriminazioni o violenze.

Nelle aule scolastiche, l’approccio alla Bibbia potrebbe essere multidisciplinare, coordinato da docenti preparati in tal senso. In letteratura o storia dell’arte, per esempio, molte opere classiche e contemporanee attingono a temi, simboli e narrativa biblici. Persino nelle scienze sociali, la comprensione di molti fenomeni storici e sociologici può essere arricchita dalla conoscenza dei testi biblici e del loro impatto sulle società. Per gli studenti più grandi lo studio della Bibbia potrebbe essere un’opportunità per sviluppare il pensiero critico, analizzando i testi e stimolando la capacità di indagine e il confronto tra diverse visioni del mondo, anche studiando la storia delle interpretazioni e dei loro effetti, ad esempio riguardo la condizione delle donne nella società.

Comprendere le radici bibliche non solo del cristianesimo, ma anche dell’ebraismo e, in parte, dell’islam, può favorire una maggiore comprensione e rispetto reciproco tra diverse comunità religiose e culturali, qualcosa di essenziale in una società – e in classi – sempre più multiculturali. Le scuole potrebbero organizzare progetti che mettano a confronto testi sacri di diverse tradizioni, evidenziando somiglianze e differenze. Questo approccio contribuirebbe a formare cittadini più consapevoli, capaci di muoversi in un mondo globalizzato e plurale. Lo studio della Bibbia potrebbe intrecciarsi anche con l’educazione civica. Molti principi etici e valori che sono alla base delle moderne democrazie hanno radici nelle tradizioni bibliche. Esplorare questi collegamenti potrebbe aiutare gli studenti a comprendere meglio le fondamenta etiche della società contemporanea e stimolare riflessioni sul concetto di giustizia, uguaglianza e responsabilità sociale. Le maggiori sfide all’introduzione di uno studio più approfondito della Bibbia nelle scuole riguardano la formazione di persone che possano fare una tale proposta in modo equilibrato e rispettoso delle diverse sensibilità, ma anche la concreta integrazione di questo studio nel già denso curriculum scolastico.

Le sfide sono reali, ma superabili con un approccio serio e innovativo. L’uso di tecnologie digitali, come piattaforme interattive e risorse multimediali, può rendere l’esplorazione dei testi biblici più accessibile e stimolante. La chiave sta nel presentare la Bibbia come un testo di rilevanza culturale universale, un prisma attraverso il quale esplorare la complessità del pensiero umano, dell’etica e della creatività, ma anche come specchio per comprendere sé stessi, aspetto essenziale nella crescita di giovani che speriamo sempre più protagonisti nell’incontro e comprensione tra i popoli.

biblista e insegnante di religione






Mercoledì, 12 Marzo 2025

«L’anno giubilare è già iniziato da qualche mese – scrive Luigino Bruni nella riflessione di questa pagina –. Per pochi di noi è però iniziato un tempo diverso. (...) Nelle prossime settimane faremo, con questa nuova serie di articoli,un pellegrinaggio attraverso lo spirito del Giubileo, nella sua economia della gioia ». Ogni due martedì, a partire dall'11 marzo, l’economista caro ai lettori di Avvenire ci accompagnerà dentro il cuore biblico del Giubileo.

Il Giubileo biblico era soprattutto una faccenda economica e sociale. L’annuncio di un anno diverso, straordinario, quando si liberavano gli schiavi, si restituiva la terra ai proprietari originari, si rimettevano i debiti. La parola giubileo proviene dalla parola ebraica Jôbel, il suono del corno di montone con cui si aprivano alcune grandi feste. Ma forse vi è anche una eco di un’altra parola ebraica, jabal, che significava “restituire, mandar via”, che sottolinea le dimensioni sociali ed economiche. Il Giubileo era infatti un anno sabbatico al quadrato, che avveniva ogni sette anni sabbatici, quindi ogni 49 anni, arrotondati a 50.

Per capire il Giubileo cristiano occorre dunque guardare al Giubileo biblico, e per comprendere questo occorre partire dall’anno sabbatico e quindi dallo shabbat, dal sabato. Il luogo della Scrittura fondamentale è il capitolo 25 del Levitico. Lì troviamo i tre pilastri del Giubileo: la terra, i debiti, gli schiavi. Nel Giubileo si dovevano compiere, con maggiore radicalità, i gesti di fraternità umana (debiti e schiavi) e cosmica (terra e piante) che si celebrano ogni sette anni nell’anno sabbatico. In quell’anno speciale la terra deve riposare. Inoltre, se un pezzo di terra è stata alienata da una famiglia per bisogno ciascuno rientra nella proprietà precedente: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia... Non farete né semina né mietitura, né farete la vendemmia delle vigne non potate... Potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi» (Lv 25,10-12). Poi i debiti: «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è inadempiente verso di te sostienilo come un forestiero o un ospite, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi né utili... Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura» (Lv 25,35-37).

Nelle norme sul Giubileo non si parla esplicitamente della remissione o cancellazione dei debiti, perché essendo il Giubileo un anno sabbatico si dà per scontato ciò che già si doveva fare ogni sette anni: «Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto» (Dt 15,1-2). Infine, gli schiavi: «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te... ti servirà fino all'anno del giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri... Se ne andrà libero l'anno del giubileo: lui con i suoi figli» (Lv 25,39-41,54). E nel libro del Deuteronomio abbiamo dettagli importanti: «Se un tuo fratello si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo lascerai andare via da te libero. Quando lo lascerai andare via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote. Gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio» (15,12-14). Non solo lo schiavo sarà liberato, ma la liberazione sarà accompagnata dall’eccedenza del dono. Non si deve restare debitori per sempre, non si è schiavi per sempre: solo per sei tempi, non per il settimo.

L'anno sabbatico segue la stessa logica dello shabbat (sabato), questa stupenda istituzione dell’Antico Testamento senza la quale non si coglie l’umanesimo biblico. Lo shabbat è l’icona massima di quel principio caro a papa Francesco: il tempo è superiore allo spazio, perché ponendo un sigillo di gratuità su un giorno della settimana ha sottratto il tempo al dominio assoluto e predatorio degli uomini: «Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno ti cesserai, perché possano riposare il tuo bue e tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e lo straniero » (Es 23,11-12). Se in un giorno non puoi sfruttare i tuoi animali, la terra, il lavoratore dipendente, lo straniero, te stesso, allora tu, homo sapiens, non sei il dominus del mondo. Sei solo un suo abitante, come tutti gli altri: hai più potere ma non sei il padrone della terra, del lavoro, degli animali, degli alberi, degli oceani, dell’atmosfera. Perché la terra è sempre terra promessa mai raggiunta, perché ogni bene è un bene comune. E lo è anche quel pezzo di terra della nostra casa, lo sono anche i beni che abbiamo legittimamente acquistato sul mercato, lo è anche il nostro conto in banca.

Prima della proprietà privata nel mondo esiste una legge di gratuità più profonda e generale che riguarda tutto e tutti, profezia radicale di fraternità umana e cosmica. La terra non è “la roba” di Mazzarò (G. Verga), i lavoratori non sono schiavi né servi, gli animali non valgono soltanto in rapporto a noi: prima di tutto ogni cosa vale in rapporto a sé stessa. Perché, per la Bibbia, ogni proprietà è imperfetta, ogni dominio è secondo, ogni contratto è incompleto, nessun uomo è veramente e soltanto straniero, la fraternità viene prima dei debiti e dei crediti, e ne cambia la natura. Lo shabbat è allora caparra di un altro tempo, del “settimo tempo” di Gioacchino da Fiore e dei francescani, di un tempo messianico quando tutto e tutti saremo solo e sempre shabbat. È quindi la distanza tra la legge dell’anno sabbatico e quella degli altri sei il primo indicatore del capitale etico e spirituale di una civiltà, di ogni civiltà. È la distanza tra il cittadino e il forestiero, tra i nostri diritti e quelli di ogni creatura, tra la terra che uso oggi e quella che lascio ai figli, che dicono la qualità morale della società umana. Quando invece ci dimentichiamo che esiste un giorno diverso e libero che non è in nostro controllo, la terra non respira più, gli animali e le piante valgono solo se messi a reddito, gli stranieri non diventano mai persone di casa, le gerarchie diventano spietate, i leader non sono mai follower, il lavoro non è mai fratello lavoro ma solo schiavo o padrone.

Gesù aveva ben presente il Giubileo, come ci ricorda Luca, che ci mostra Gesù appena tornato a Nazareth che nella sinagoga legge il capitolo di Isaia relativo proprio all’anno giubilare: «Lo Spirito del Signore è sopra di me... e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19). Un «anno di grazia del Signore» (aphesis), cioè un anno di liberazione: un anno giubilare. Gesù criticava uno shabbat che stava perdendo profezia per dirci che il Regno dei cieli è uno shabbat perenne, un settimo tempo che diventa tutto il tempo nuovo. Ciò che il Deuteronomio assegna all’anno sabbatico – «Che non vi siano dei poveri in mezzo a voi!» (Dt 15,4) – nella nuova comunità del Regno diventerà regola di vita ordinaria: «Tra i credenti, nessuno era nel bisogno » (At 4,34). È probabile che il popolo d’Israele non celebrò l’anno giubilare lungo la sua storia: ce lo dicono anche le ripetute denunce dei profeti per gli schiavi non liberati, i debiti non rimessi e le terre non restituite. Neanche i cristiani sono riusciti a fare della comunione dei beni la loro economia normale, non sono entrati nell’economia sabbatica del Regno.

Se l’Occidente avesse preso sul serio la cultura del Giubileo non avremmo generato il capitalismo o sarebbe stato molto diverso. Il nostro capitalismo è diventato, infatti, l’anti- shabbat, la sua negazione, il suo anticristo, la sua profezia all’incontrario: «Il capitalismo è la celebrazione di un culto “senza tregua e senza pietà”. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante” (W. Benjamin, Il capitalismo come religione, 1921). Non conosce riposo, il lavoro non si toglie mai il suo giogo; nessuna ora, nessun giorno, nessun tempo è diverso dagli altri, la terra è solo una risorsa da sfruttare, meglio se diventa terre rare. La presenza dell’anno giubilare è nella Bibbia il suo principale dispositivo anti-idolatrico. Una civiltà che consuma tutto il tempo come merce è tecnicamente idolatrica, perché facendosi padrone di tutti i giorni e di tutti i tempi fa di sé stessa l’unico dio da venerare. Il capitalismo è idolatria perché ha segnato la morte definitiva del settimo tempo, ha divorato shabbat e domenica trasformandoli nel week-end, che è l’apoteosi del consumismo.

L'anno giubilare è già iniziato da qualche mese. Per pochi di noi è però iniziato un tempo diverso. Non stiamo facendo respirare la terra, non stiamo liberando nessun debitore e nessuno schiavo. Nelle prossime settimane faremo, con questa nuova serie di articoli, un pellegrinaggio attraverso lo spirito del Giubileo, nella sua economia della gioia. Forse il popolo d’Israele scrisse le norme sull’anno giubilare per fare memoria della grande liberazione dall’esilio babilonese, quindi il ritorno degli schiavi a casa e la restituzione della terra. L’enorme trauma dell’esilio babilonese divenne un anno giubilare forzato che Israele fu costretto finalmente a vivere dopo averlo dimenticato per molto tempo: «Nabucodonosor deportò a Babilonia quanti erano scampati alla spada... fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati» (2 Cronache 36, 20). Fu nell’esilio dove il popolo imparò il Giubileo. Saremo anche noi costretti a imparare un’altra economia della terra e delle relazioni sociali da questo esilio ecologico e dalle nuove guerre? l.bruni@lumsa.it





Lunedì, 10 Marzo 2025

«Rinnoviamo la richiesta di iniziative che restituiscano speranza» ai detenuti. Come nuove «forme di amnistia o di condono della pena», ma anche come «percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un reale impegno nell’osservanza delle leggi». Il cardinale Matteo Zuppi si rivolge a chi ha ruoli di responsabilità. E, parlando dei gesti del Giubileo perché «questa opportunità non si riduca a una successione di celebrazioni esteriori», riprende l’invito di papa Francesco nella bolla di indizione dell’Anno Santo a compiere azioni politiche e sociali a favore di chi vive dietro le sbarre, soprattutto in penitenziari come quelli italiani segnati dal sovraffollamento e diventati teatri di suicidi. Un appello che Zuppi lancia nella sua introduzione ai lavori del Consiglio permanente della Cei che si tiene da oggi a mercoledì a Roma. Nel suo intervento il cardinale presidente si sofferma sul «cantiere dell’Europa», come lo definisce, sull’impegno per la pace, sul Cammino sinodale della Chiesa italiana, ma anche sul «male dei nazionalismi», sulla crisi degli organismi internazionali, sul «linguaggio aggressivo» della politica, sull’urgenza di avere «uomini saggi».

Ma il primo pensiero, in apertura dell’incontro, va a papa Francesco ricoverato dal 14 febbraio al Policlinico Gemelli. «Vogliamo far arrivare al Papa l’attaccamento e la preghiera dell’intera Chiesa in Italia, perché senta forte la nostra vicinanza filiale insieme con la consolazione del Padre buono, che sempre si prende cura dei suoi figli, soprattutto nei momenti più difficili della vita», dice Zuppi. E aggiunge: «In questa condizione di fragilità la sua figura diventa ancor di più motivo di comunione». Poi sottolinea: «Il popolo cristiano lo ama e siamo colpiti dal fatto che pure non credenti e fedeli di altre religioni si uniscano all’invocazione per la sua salute, considerandolo un apostolo di pace e di spiritualità».


Tema a cui Zuppi dedica ampio spazio nell’introduzione ai lavori è quello della pace. Il cardinale arcivescovo di Bologna ribadisce che c’è «un popolo» che «non solo prega per la pace e la chiede con forza, ma anche pensa al post-guerra: se vuoi la pace, prepara la pace! È questo il vero investimento di cui oggi abbiamo bisogno». Il tutto mentre «il mondo si trova immerso nella tragedia della guerra». E spiega: «Trepidiamo per la situazione in Medio Oriente e temiamo per la fragile tregua su Gaza. Bisogna che tutti rispettino gli accordi». Inoltre, «ci sono guerre all’interno di un popolo, come in Sudan, nel nord del Congo e, nelle ultime ore, in Siria, paesi - tra l’altro - in cui l’impegno ecclesiale italiano è importante». Poi c’è il fronte dell’Ucraina, conflitto che vede Zuppi inviato del Papa cui ha affidato la sua missione di pace. «Guardiamo con attenzione e speranza al possibile dialogo tra Ucraina e Russia, mentre auspichiamo che questo possa segnare una nuova stagione per tutti quei Paesi - tra cui Stati Uniti, Europa e Cina - che, a vario titolo, sono coinvolti nella ricerca della pace. Finalmente si muovono passi per la pace». Quella del presidente della Cei è un’apertura di credito. Anche se aggiunge: «Il linguaggio, quello internazionale e quello della comunicazione, è divenuto molto duro, mirando a colpire o screditare più che a creare le basi del dialogo. Parole come armi e parole senza o con poca verità». Per questo, afferma Zuppi, «la via della pace è sempre quella del dialogo, che oggi assume anche i connotati del multilateralismo». Come a dire: non può essere solo un’intesa fra Stati Uniti e Russia a determinare le sorti di un Paese aggredito o, addirittura, quelle di gran parte del mondo. E il cardinale dice di apprezzare «lo sforzo del Governo italiano nel suo intento di connettere la crescita di responsabilità europea al dialogo intra-occidentale per la ricerca di una pace giusta e duratura e l’indispensabile visione multilaterale nella soluzione dei conflitti». Compito della comunità ecclesiale, chiarisce il cardinale, è promuovere una cultura di fraternità. «La Chiesa, tra la preghiera, la vita comunitaria e la solidarietà» intende formare «uomini e donne di pace» che rappresentano «vere risorse per la società, segnata da solitudine, competizione, conflittualità».

?Altro capitolo che sta a cuore a Zuppi è l’Europa. «Dobbiamo investire nel cantiere dell’Europa che non sia un insieme di istituzioni lontane», ma una «madre della speranza di un futuro umano» che «non rinunci mai a investire nel dialogo come metodo per risolvere i conflitti, per non lasciare che prevalga la logica delle armi, per non consentire che prenda piede la narrazione dell’inevitabilità della guerra, per aiutare i cristiani e i non-cristiani a mantenere vivo il desiderio di una convivenza pacifica, per offrire spazi di dialogo nella verità e nella carità». Insomma, un’Europa che non punta soltanto sul riarmo, come invece viene dichiarato in questi giorni. E il presidente della Cei rilancia una «Camaldoli europea» come risposta ai nazionalismi che sono «in contraddizione con il Vangelo», che vestono «nuovi panni», che soffiano «in tante regioni», che dettano «politiche», che indicano «nemici». Un «demone» che «non è amore per la patria, ma chiusura miope ed egoistica». In quest’ottica il cardinale valuta positivamente il nuovo protagonismo laicale scaturito dalla Settimana Sociale di Trieste dello scorso luglio: «Mi pare che, nei nostri ambienti, specie tra i giovani, ci sia voglia di dare un contributo in linea con il Vangelo, la nostra storia, il pensiero sociale della Chiesa. È il momento».


C’è, poi, il Cammino sinodale in Italia che sta compiendo i passi conclusivi. I prossimi sono la seconda Assemblea sinodale dal 31 marzo al 3 aprile a Roma; e l’Assemblea generale dei vescovi italiani a maggio, dal 26 al 29 maggio, dove sarà presentato il Documento finale. È «un lavoro corale» che «ci sta insegnando anzitutto un metodo ecclesiale, fatto di condivisione, partecipazione, pazienza e visione profetica», afferma Zuppi. Ed è anche una via nuova rispetto a «un mondo che cerca facili e rapide soluzioni e che tende a delegare ad un singolo le scelte che ricadono su tutti», un mondo «che ha come registro l’ignorante e rozza polarizzazione, l’esibizione della forza come metodo per risolvere i problemi». Invece, avverte il cardinale presidente, «il Cammino sinodale sta raccontando una possibilità diversa: quella di leggere e capire la realtà e di decidere insieme, nelle varie ma complementari responsabilità, ciò che è meglio per il futuro di tutti e che è chiesto a tutti».





Lunedì, 10 Marzo 2025

La fede ha una dimensione personale ma si fonda anche sulle relazioni. Per questo quando una persona fa bene il bene a migliorare è l’intera comunità. Al contrario il male penalizza, assieme a chi lo compie, quanti ne condividono il cammino. Le colpe, gli errori, i peccati hanno per così dire sempre una ricaduta collettiva rovinando o comunque rendendo più fragile il tessuto comunitario, dei rapporti interpersonali. Fortunatamente si può cambiare marcia e invertire la rotta. Il Signore, insegna la Chiesa, perdona sempre chi lo accosta purché si penta e sia disponibile a cercare con serietà la sua volontà. Facile, qualcuno dirà. In realtà non lo è per niente. Se, infatti, esiste una cosa complicata in questo mondo, è domandare e dare perdono. Non a caso, in questa preghiera, il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002, invoca perdono non solo per sé ma anche per tutti coloro che non hanno la forza e il coraggio di chiederlo.

«Adorando insieme la croce, segno della nostra salvezza,
chiediamo umilmente perdono per noi,
per le colpe di cui noi ci siamo macchiati;
chiediamo perdono anche a nome di tutti coloro che non sono qui
e non sanno chiedere perdono al Signore per le loro colpe.
Essi non sanno di quanta gioia e di quanta pace
il loro cuore sarebbe pieno se sapessero farlo.
Chiediamo perdono a nome di tutta l'umanità,
del tanto male commesso dall'uomo contro l'uomo,
del tanto male commesso dall'uomo
contro il Figlio di Dio, contro il salvatore Gesù,
contro il profeta che portava parole di amore.
E mettiamo la nostra vita nelle mani del crocifisso
perché egli, redentore buono, redima e salvi il nostro mondo,
redima e salvi la nostra vita col conforto del suo perdono».






Domenica, 09 Marzo 2025

Non l’ennesima biografia del Poverello di Assisi, ma un libro che cerca di indagare cosa renda ancora attuale un uomo, un santo vissuto nel 1200 per l’uomo di oggi. È l’obiettivo del libro scritto dall’arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, il cardinale Roberto Repole, che si intitola «Sperare è ancora possibile - Il messaggio di san Francesco d’Assisi in un’epoca di cambiamenti» (a cura di Domenico Agasso, Piemme, pagine 160, euro 18,90). Nella sua ricerca l’autore mostra come «san Francesco ha saputo adeguarsi alle trasformazioni del proprio tempo, incarnando un modello sorprendente di adattamento e resilienza; il suo messaggio, tramandato nelle generazioni, può accompagnarci oggi verso le prove che ci attendono».

Non un personaggio relegabile nei secoli passati, ma una presenza vibrante che parla ancora e direttamente agli uomini e alle aspirazioni del nostro tempo. Venerato come patrono dei commercianti, dei tappezzieri, degli ecologisti, degli animali, oltre che dell’Italia, il «santo poverello» ha ancora oggi un’attualità probabilmente dovuta al suo essere un radicale evangelico e un profeta della «rivoluzione» dei valori cristiani: Francesco seppe affrontare nella logica del Vangelo i cambiamenti della sua epoca storica e per questa sua capacità continua a ispirarci oggi, di fronte alle grandi e sorprendenti trasformazioni del mondo contemporaneo.

Per questo è utile e straordinariamente interessante «leggere» Francesco come bussola capace di orientarci nelle sfide cui è sottoposta l’umanità in questo inizio del terzo millennio. Come ricorda di frequente un altro Francesco, il Papa, oggi non ci troviamo a vivere semplicemente in un’epoca di cambiamento: siamo nel mezzo di un più radicale cambiamento d’epoca. Esso coinvolge il nostro modo di essere uomini, i valori di riferimento, gli stili di vita, i rapporti intergenerazionali, le relazioni tra popoli, il modo di esistere e trasmettere il Vangelo della comunità dei credenti in Cristo. Rispetto alle sfide che siamo chiamati ad affrontare, che cosa può dirci san Francesco? Rappresenta un interlocutore illuminante e un compagno di viaggio che ci aiuta a orientarci?

Sì, assolutamente sì. Di fronte alle trasformazioni della sua epoca, egli seppe incarnare un grande modello di adattamento e di resilienza. La sua capacità di discernimento tra le nuove idee e la saggezza tradizionale ci insegna ancor oggi l’importanza di equilibrare l’innovazione (oggi soprattutto quella tecnologica) con la continuità. Attraverso il suo esempio, comprendiamo che ogni tempo è illuminato dalla presenza di Cristo e dello Spirito, e questo offre la serenità per affrontare le metamorfosi culturali, sociali ed ecclesiali. Anche le più dirompenti.

Se oggi il nostro pensiero appare minacciato dal nichilismo culturale, la testimonianza di Francesco ci fa scoprire che la fede non è solo una formalità, ma una scelta esistenziale, che può trasformare il mondo. In meglio. Francesco ci invita a ritornare alle radici del Vangelo, a una fede pura e senza fronzoli. In questo terzo millennio in cui Dio sembra essere diventato l’assente principale, in particolare nella società occidentale, il richiamo del santo di Assisi al radicalismo evangelico risuona con urgenza. La sua scelta di abbracciare la povertà – che diviene antidoto alle disparità – unita al suo modello di uso responsabile delle risorse, ci sollecita a considerare la vera essenza del «possesso». Impariamo che la reale grandezza dell’uomo risiede nell’amore e nella compassione; non nel possedere, ma nell’usare per il bene degli altri.

Nel contesto materialista del capitalismo contemporaneo, la figura del santo di Assisi emerge come una voce di umanità contro il virus del cinismo. Le sue idee e il loro impatto ci aiutano a tracciare il nostro percorso verso una società più equa, solidale e orientata alla fraternità universale. Siamo in un tempo segnato dall’avidità, dalla frenesia, dai miti del successo economico e della fama, ma l’immagine di Francesco ci fa intravedere l’alternativa. Ci insegna che la vera ricchezza non risiede nell’accumulo di beni materiali, ma nell’apertura del cuore e nella condivisione con gli altri. La sua decisione di «sposare» la miseria materiale – non come una privazione, ma come una via di liberazione – ci spinge a rivalutare il nostro rapporto con il denaro e con le cose materiali. E ci dimostra che è possibile essere pienamente felici senza disporre di molto, imparando a praticare la semplicità e diffondere il senso della gratitudine.

Di fronte agli slogan del consumismo, Francesco ci aiuta a riflettere sulla distinzione tra l’essere e l’avere: ci avverte che, concentrandoci esclusivamente sull’avere, finiremo per consumarci e ci sentiremo deteriorabili come le cose che possediamo. La povertà, intesa come stile di vita, ci indicherà invece come riconsiderare i nostri valori, individuando che cosa conta veramente.

E poi c’è il suo «grande sogno»: una fraternità universale che celebra le diversità umane. Di fronte alle grandi discussioni del nostro tempo sulla globalizzazione e sui fenomeni migratori, la visione francescana dell’accoglienza e dell’integrazione fra culture diverse ci interpella e ci incoraggia. San Francesco cammina per le strade di un mondo segnato da grandi cambiamenti, ma, invece di ritirarsi, si innamora della sua contemporaneità e diffonde, e condivide, il suo messaggio di amore e compassione verso tutti. La sua visione di una fratellanza universale, che accoglie e celebra le differenze tra le persone, è più rilevante che mai in mezzo agli spettri odierni delle divisioni e delle discriminazioni. Ci scandisce a chiare lettere che siamo tutti parte della stessa famiglia umana, e che dobbiamo imparare a vivere insieme in armonia e rispetto reciproci, altrimenti si va verso l’autodistruzione dell’umanità. La fraternità non è ovviamente «uniformità», ma armonia nelle differenze. Questo significa accettare, ma anche valorizzare le varie identità e vocazioni. Vale nella società civile, ma anche all’interno di quella comunità singolare che è la Chiesa.

Infine, un aspetto cruciale dell’opera di Francesco riguarda la riforma della Chiesa. La vita del santo si svolge in un momento di trasformazione politica e sociale, con il vecchio ordine feudale che cede il passo al sistema delle città e del mercato. La Chiesa partecipa al grande cambiamento con la riforma gregoriana e con il sorgere di nuovi ordini religiosi, ma fatica a interpretare appieno i segni dei tempi nuovi, cadendo talvolta nella tentazione di privilegiare il potere temporale e il denaro rispetto alla spiritualità e alla missione evangelica. I movimenti religiosi alternativi, come i catari e i valdesi, mettono in luce la necessità di una riforma più radicale e autentica. Ecco che Francesco ci spiega – con parole e soprattutto gesti e azioni – che la vera riforma deve nascere dall’interno, dalla trasformazione personale e comunitaria. La sua visione di una Chiesa fraterna, in cui ciascuno vive e agisce per il bene dell’altro, rappresenta una sfida radicale per un’istituzione spesso tentata dal potere e dal prestigio. È in questa situazione che il santo si distingue come una figura profetica, capace di cogliere il cuore del Vangelo e di viverlo concretamente nella realtà, nella quotidianità.

L’auspicio è che il confronto con Francesco nelle pagine di questo breve libro ci renda più capaci di percepire il peso della nostra responsabilità nel tempo che stiamo vivendo. La storia non è un destino già scritto. Il tempo attuale non deve necessariamente aprirci scenari di morte, di guerra e di disperazione. La vicenda di Francesco, di tanti secoli fa, ci dice che è ancora possibile sperare. A condizione di sentirci profondamente vivi; a condizione di non estraniarci dal mondo e dall’umanità dentro i quali viviamo; a condizione di percepire tutta la ricchezza e la responsabilità del nostro essere donne e uomini.

cardinale arcivescovo di Torino e vescovo di Susa





Sabato, 08 Marzo 2025

Il Dizionario di dottrina sociale della Chiesa è la rivista nata nel 2021 per comprendere meglio “le cose nuove del XXI secolo” attraverso il dialogo tra la ricerca scientifica e l’insegnamento sociale della Chiesa. La pubblicazione viene curata dal Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Il numero di dicembre 2024 include sei nuovi contributi, tra cui un articolo sulla riduzione del debito estero dei Paesi più poveri, questione al centro del Giubileo 2025. Di seguito la presentazione del fascicolo.

Mauro Megliani approfondisce il tema del debito estero in relazione alla giustizia climatica: facendo eco all’appello di Papa Francesco rivolto alle nazioni più benestanti, ribadito nel messaggio per la COP29. Il debito estero dei Paesi più poveri è divenuto insostenibile a causa di conflitti e pandemie, e si è accresciuto a causa della necessità di reperire risorse per mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Di fronte a tale situazione, la Chiesa può indicare nelle conversioni del debito la strada per ristabilire una giustizia più equa fra le nazioni. Tali conversioni sono giustificate dal fatto che, nel caso di debito insostenibile, è necessario assicurare i servizi essenziali per la popolazione, mentre nel caso di debiti contratti per far fronte a cambiamenti climatici e ambientali l’onore finanziario dovrebbe essere sopportato da chi ha causato la situazione sulla base della giustizia climatica.

Giulio Guarini nel suo articolo si propone di delineare il potenziale circolo virtuoso tra abbondanza e condivisione che può rendere generativo lo sviluppo economico, alla luce dell’Economia Sabbatica e del principio della destinazione universale dei beni. Vengono illustrati i fattori che promuovono o ostacolano questo potenziale circolo virtuoso, con riferimento alla dicotomia tra ricchezza accumulata e abbondanza condivisa, al fine di offrire una chiave di lettura per comprendere alcune criticità dell'economia attuale, valutarne la gravità e proporre percorsi di riforma.

Simone Carlo si sofferma su media digitali e condizione anziana, mettendo in dialogo Magistero e ricerca sociologica. L’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (computer, tablet, smartphone) da parte delle persone anziane costituisce un ambito di ricerca e riflessione ormai consolidato. Ma al di là dell’entusiasmo iniziale attorno ai (a volte lenti) processi di diffusione delle tecnologie anche tra la popolazione anziana, l’accademia deve continuare a riflettere sulle diseguaglianze (tra over 65 connessi e non connessi) favorite dalla rapida digitalizzazione dei media e dei servizi.

Andrea Avellino e Rocco Salemme presentano le possibilità di un’alleanza feconda a scuola tra educazione civica e dottrina sociale della Chiesa, grazie all’insegnamento della religione cattolica (IRC). Dal 2020, infatti, la scuola italiana annovera nella sua proposta formativa l’educazione civica: una disciplina trasversale che si prefigge di tracciare un percorso per formare cittadini responsabili. Quest’obiettivo intercetta le finalità della dottrina sociale, che mira “alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” e che gode, nelle istituzioni scolastiche, di un mediatore privilegiato: l’Insegnamento della religione cattolica. Ma quali sono, dal punto di vista normativo e metodologico, le potenzialità sottese dalla collaborazione sinergica dei tre àmbiti disciplinari?

Infine, il fascicolo ospita la traduzione italiana del contributo di Joseph H.H. Weiler, suddiviso in prima e seconda parte, pubblicato in inglese a settembre 2024. La libertà di religione include anche la libertà dalla religione. In questo senso primordiale Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno sostenuto il primato della libertà religiosa tra tutte le libertà. In particolare, leggere Weiler aiuta a mettere a fuoco il tema, caldissimo, dell’obiezione di coscienza nelle nostre società plurali.





Sabato, 08 Marzo 2025

Alcuni giocatori pellegrini, un dado, un cartellone, delle cartelle da completare con alcuni elementi e una buona conoscenza della fede. Sono gli ingredienti di Giubileopoli, che già dal nome richiama il famoso gioco in scatola che invita i giocatori ad acquisizioni immobiliari e investimenti. Questa volta, invece, l'obiettivo è quello di percorrere per primo l'intero percorso dell'Anno Santo attraverso alcune tappe.

La prima fase vede i personaggi-pellegrini, dover conquistare tutti e cinque gli oggetti essenziali per il loro cammino giubilare: la bisaccia, il bastone, la zucca, l'impermeabile e la conchiglia. Spostandosi lungo le caselle in base al numero uscito con il lancio del dato, il pellegrino se arriva su una delle caselle degli oggetti essenziali è chiamato a rispondesere a una domanda per poter otttenere l'oggetto. Le domande spaziano dalla Bibbia alle tradizioni culturali spirituali dei popoli, alla loro cucina e ad altri temi inserenti agli oggetti stessi.

Ma la conquista dei cinque elementi non è che la prima fase, visto che a questo punto si dovranno affrontare nuove prove dirigendosi verso alcuni luoghi simbolo della fede come il Palazzo della Giustizia, la Casa del Perdono, l'Albergo della Carità e il Rifugio della Speranza, dove i giocatori attraverso nuove prove potranno cercare di conquistare le chiavi delle quattro Basiliche papali dove si trovano le Porte Sante: San Pietro, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, San Paolo fuori le Mura.

Sarà necessario passare attraverso i ponti di Roma per giungere alle Basiliche e quindi completare il gioco di Giubileopoli. Insomma in questo modo il gioco da tavolo si trasforma in una avventura coinvolgente, ma anche di crescita attraverso le domande che vengono proposte sulla fede.

Del resto i suoi creatori di Giubileopoli, don Enrico Garbuio (sacerdote di Ferrara-Comacchio) e don Dino Mazzoli (sacerdote di Frosinone-Veroli-Ferentino), definiscono questo gioco da tavolo "un viaggio spirituale che si arricchisce" grazie anche all'impegno e alla creatività di questi questi due preti appassionati di catechesi e formazione giovanile.

Prodotto da Tau editrice, Giubileopoli ha lanciato una raccolta fondi per procedere alla sua produzione. Si potranno, infatti, pre-ordinare copie del gioco in scatola andando sul sito Giubileopoli






Sabato, 08 Marzo 2025

È stata fissata per sabato 15 marzo la traslazione del corpo del beato Rosario Angelo Livatino dalla cappella di famiglia del cimitero comunale alla chiesa Santa Chiara di Canicattì, come disposto dall’arcivescovo di Agrigento Alessandro Damiano lo scorso 29 ottobre, memoria liturgica del giudice ucciso dalla mafia, mentre, solo, senza scorta, la mattina del 21 settembre del 1990 andava in tribunale.

A partire dalle ore 14 di sabato, nel cimitero di Canicattì, in forma privata, dopo un momento di preghiera presieduto da monsignor Damiano, si procederà all’apertura del loculo e alle operazioni accessorie. Dopo la sistemazione della cassa lignea con il corpo del Beato nella cassa di rinforzo in zinco, avrà inizio un corteo su un mezzo di rappresentanza che percorrerà il seguente tragitto: via Nazionale, via Capitano Ippolito, piazza IV novembre, corso Umberto. Davanti al municipio, la cassa sarà posta su un carrello processionale spinto a mano, e sarà accolta dai fedeli davanti alla chiesa San Diego. Dopo un breve momento di preghiera, avrà inizio il corteo pubblico lungo viale Regina Margherita con sosta davanti la casa natale di Livatino (viale della Vittoria e via Guggino), fino alla chiesa di Santa Chiara.

Dopo l’ingresso in chiesa, si svolgerà un momento di preghiera, durante il quale saranno nominati e presteranno giuramento i membri del tribunale ecclesiastico che procederà alla ricognizione canonica. Terminato il momento di orazione e saluto al beato, avrà inizio la fase strettamente privata della ricognizione.

La storia di Livatino agli onori degli altari

Il 9 maggio 2021 Livatino è stato beatificato, riconoscendo il suo martirio «in odium fidei». Nel decreto vaticano con il quale è riconosciuto il martirio, è scritto che il giudice era ritenuto «inavvicinabile», «irriducibile a tentativi di corruzione, proprio a motivo del suo essere un vero credente. Rosario Angelo Livatino nacque a Canicattì nel 1952 e intraprese la carriera di magistrato con grande dedizione. Il suo lavoro si distinse per il forte impegno contro la criminalità organizzata, che lo portò a essere assassinato il 21 settembre 1990 lungo la strada statale 640, mentre si recava in tribunale. Lo scorso 29 ottobre 2024, nella chiesa di Santa Chiara a Canicattì, durante l’Assemblea diocesana, l’arcivescovo Alessandro Damiano ha annunciato la decisione di traslare il corpo del Beato. L’autorizzazione ufficiale è arrivata pochi giorni prima, il 21 ottobre 2024, dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi.









Sabato, 08 Marzo 2025

Il nome della parrocchia, San Marco al Molo, dice già in quale zona di Genova si trovi. Il dedalo di carrugi, i vicoli che caratterizzano il centro storico, si affaccia proprio sul molo, una penisola artificiale realizzata a partire dal 1100 a ridosso del porto. Nascosta dalle mura cinquecentesche c’è una chiesa dedicata all’apostolo Marco, un santo caro ai marinai. È proprio per i naviganti che la chiesa fu eretta. «La chiesa è nata per essere il primo e ultimo segno cristiano per chi parte e torna dal mare» spiega il 35enne don Davide Ricci, parroco da pochi mesi. Nel corso dei secoli, diventa anche la parrocchia della “prigione di malapaga”, dove si scontavano le pene per reati finanziari. Un intreccio tra Giustizia e misericordia: al parroco spettava la benedizione dei condannati prima dell’esecuzione capitale.

Oggi i parrocchiani non sono più i carcerati, ma sono rimaste famiglie di marinai e portuali, cui si aggiungono giovani famiglie che scelgono di abitare la zona per la posizione strategica. Ottocento abitanti, un territorio circoscritto al molo, San Marco rappresenta un tessuto sociale composito. Un po’ come tutto il centro storico genovese, che sembra aver mantenuto le caratteristiche del medioevo. Non solo all’interno dello stesso sestiere, ma anche nella stessa via, si possono trovare famiglie abbienti e modeste, genovesi e straniere. Non si vive il fenomeno dello svuotamento del centro come in altre città, gli spazi sono ancora abitati, dimore nobiliari come palazzi modesti. Le famiglie storiche non si sono mai mosse, ma accanto a loro nei decenni la popolazione è continuamente cambiata. Le case che negli anni Sessanta erano abitazioni degli immigrati dal Sud, nei primi anni Duemila sono diventate di latini e maghrebini, adesso di famiglie africane e cinesi. «Il centro – prosegue don Davide – riflette la dinamica del porto: si arriva per un primo approdo, poi con il miglioramento economico si va altrove». La cura pastorale deve tenere conto della realtà, con le sfide che questa singolare fisionomia presenta. La stratificazione culturale e sociale a volte è d’ostacolo alla creazione di uno spirito di unità. «Abbiamo una grande sfida da cogliere – continua don Ricci –: formare una comunità che sappia integrare vecchio e nuovo, dal punto di vista relazionale e da quello delle proposte pastorali». Le parrocchie del centro «non possono essere pensate come comunità standardizzate, che vivono una pratica sacramentale come le altre: Messa, catechismo e attività collaterali. In questo contesto morirebbero». Sono davvero tante le chiese, le rettorie affidate a religiosi e le cappelle che popolano i carrugi. Don Davide sogna una pastorale in cui «la singola parrocchia non abbia la pretesa di fare tutto, non sia autoreferenziale, ma lavori insieme alle altre comunità per suddividere i compiti, così da offrire il meglio alla nostra gente». Ogni parrocchia dovrebbe valorizzare il tessuto umano che le sta intorno, vivendo la missione cristiana in un aspetto specifico. «Sulla carità lo stiamo facendo – sottolinea don Ricci –: non è affidata alle iniziative di una singola parrocchia, ma già oggi è espressione di un lavoro condiviso e comune». Non c’è altra via che unire le forze e creare un équipe. È «un bisogno imposto dalla realtà, perché in centro abitano tante persone che vivono in condizioni economiche difficili».

Don Davide parte da un elemento imprescindibile: «la parrocchia non può rinunciare a chi la abita, e non deve perdere il contatto con il territorio». Dall’altra parte va considerato che il centro non appartiene solo agli abitanti, ma a un gran numero di lavoratori e turisti, che sono forse i primi visitatori dei luoghi di culto. Differenziando la proposta pastorale a seconda della posizione e della caratteristiche di una chiesa, si presenterebbe l’opportunità di «sfruttare lo spazio per un primo annuncio del Vangelo». Se la zona della centrale piazza De Ferrari potrebbe focalizzarsi su una pastorale rivolta ai lavoratori, la parrocchia del Molo potrebbe concentrarsi sui giovani che animano la vita notturna.

L’arcidiocesi ha già tracciato un primo cammino. I progetti Chiese aperte e Pietre vive hanno reso alcune chiese del centro, veri scrigni d’arte, efficaci luoghi di evangelizzazione attraverso la bellezza. Seguendo questo modello, ne è convinto don Davide, i cristiani di Genova potranno davvero «fare comunità tra loro, accogliendo e annunciando il messaggio a tutti».

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Sabato, 08 Marzo 2025

Ancora una volta la città di Foggia ha accolto la “visita” di san Padre Pio. Lo ha fatto nelle scorse settimane attraverso una sua reliquia: il saio di san Pio, da lui indossato nel momento in cui ha ricevuto le stimmate, il 20 settembre 1918. «Già l’arrivo è stato trionfale. Nella nostra terra, la pietà popolare e la devozione ai santi, in particolare a Padre Pio, sono davvero molto grandi» ha commentato l’arcivescovo di Foggia-Bovino, Giorgio Ferretti nel giorno dell’accoglienza della reliquia che è stata esposta prima al parco dell’Iconavetere, poi presso la chiesa di Sant’Anna, in occasione dei 109 anni dalla permanenza di un giovanissimo San Pio proprio in quella parrocchia, e infine presso il Convento dell’Immacolata, dove è stata celebrata una Messa presieduta dal cardinale Louis Antonio Tagle, pro-prefetto del dicastero per l’evangelizzazione.

«Una celebrazione molto partecipata – sottolinea il presule foggiano – questo ci dà l’idea di come Padre Pio sia il nostro santo, che dall’alto del Gargano veglia sulla terra di Capitanata e sul mondo intero».

Monsignor Ferretti parliamo dell’importanza dei segni della devozione nel nostro tempo e di come poter vivere nel migliore dei modi il rapporto con le reliquie.

La devozione popolare nel Sud è molto importante, perché mantiene viva e forte la religiosità della gente. Ha un rischio, quello di generare un sottile individualismo: “io prego, io chiedo la grazia, io vado alla processione”. Bisogna costruire comunità, anche e soprattutto attraverso la devozione ai santi, per arrivare a quello che è il centro della nostra vita e della nostra salvezza, ovvero il nostro Signore Gesù Cristo. Però evangelizzare la pietà popolare, come un po’ si dice in gergo, è anche bello, perché c’è tanta gente che ascolta nelle omelie e che partecipa nelle processioni. Per quanto riguarda il rapporto con le reliquie, così come con le immagini, dobbiamo sempre aver presente che c’è un “oltre”. Immaginiamole come finestre, come ci suggerisce il mondo teologico bizantino, attraverso le quali noi possiamo sentire, comunicare, trovare un “oltre”, che è la realtà del cielo, del Paradiso. I santi sono in cielo, quindi la reliquia è una presenza, l’ultima, terrena, di quello che invece è una presenza spirituale dei Santi attorno all’agnello, come dice il libro dell’Apocalisse.

Secondo la sua opinione, cosa ha portato alle comunità locali foggiane l’accoglienza del saio?

Il saio è quello che Padre Pio indossava quando ricevette le stigmate, quindi non è un saio qualsiasi. E questo ci ricorda quindi le ferite, la salvezza che viene dalla Passione - morte -Risurrezione del Signore: il kerygma che è stato trasmesso per grazia ad alcuni santi, come san Francesco e san Padre Pio da Pietrelcina. Ma noi in queste ferite vediamo anche le ferite del Signore, che piange per un’umanità che fa la guerra, che non si ama; così come anche le ferite dei poveri, che sono nostri fratelli. Dunque, attraverso questa reliquia e attraverso le stigmate noi abbiamo la possibilità di vedere il cielo e l’oltre, ma anche la sofferenza e l’ingiustizia di molti in questo mondo.

Come questo tipo di esperienze può esprimere sul territorio una fede in grado di testimoniare i valori del Vangelo nella società?

L’esperienza francescana è un’esperienza importantissima nella storia e nel presente della Chiesa: è l’amore per il Signore, per i fratelli, per la pace, per il creato. L’esempio di Padre Pio è quello di un uomo che nella vita ha confessato e quindi ha amministrato la misericordia e il perdono di Dio a tanti. Egli è stato un grande spirituale occidentale a cui molti si sono rivolti, in grado di mostrarci al contempo come la spiritualità non è mai slegata dalla realtà e dall’azione sociale. Penso all’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, che lui ha fortemente evoluto e fondato. Quest’uomo piccolo, che viveva in un convento, è stato capace di divenire un faro per i malati e per il mondo intero.

Cosa ci direbbe oggi san Pio se fosse qui in mezzo a noi?

Ci chiederebbe di amarci di più. Sarebbe scandalizzato per le tante guerre e per l’individualismo strisciante che regna in questo mondo e che ci pone gli uni senza o contro gli altri. La Chiesa è comunione, i santi non sono mai delle persone che scelgono di vivere in modo individuale o isolati dagli altri: sono persone che creano comunità e che intorno a loro generano una grande fraternità universale. Io credo che Padre Pio continuerebbe ad amministrare attraverso la confessione, la misericordia e il perdono di Dio. E ci chiederebbe di vivere in pace.

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Sabato, 08 Marzo 2025

«Chi ha rapporti di amicizia e di collaborazione con noi cattolici ci fa molte domande sulla salute di Francesco e si interessa su che cosa stia accadendo in ospedale. Ma soprattutto prega per il Papa». Il cardinale Cristóbal López Romero dà per sottinteso chi siano i “vicini di casa” della comunità ecclesiale in Marocco: sono gli «amici musulmani». Salesiano, 72 anni, originario della Spagna, è l’arcivescovo di Rabat, una delle due diocesi che insistono sul Paese nordafricano. Paese che in base alla Costituzione è «uno Stato musulmano» dove il 99% della popolazione abbraccia il Corano. Appena 31mila i cristiani su 37 milioni di abitanti, di cui i cattolici non superano i 20mila.

«Senza volere generalizzare, posso dire che il sentimento di apprezzamento, rispetto e ammirazione verso papa Francesco è maggioritario tra i musulmani, almeno da quanto osservo qui in Marocco. Logicamente la sua presenza nei media e nella vita quotidiana non è così forte come nelle nazioni con radici e tradizioni cristiane. Però credo che qualsiasi osservatore attento non potrà fare a meno di affermare che Francesco ha dato un grande impulso al dialogo islamo-cristiano durante il suo pontificato», spiega López Romero ad Avvenire. Arcivescovo e poi cardinale per volontà proprio di papa Bergoglio che nel dicembre 2017 lo invia a Rabat e nell’ottobre 2019 gli consegna la berretta. Porpora che arriva sette mese dopo aver accolto Francesco in Marocco durante il viaggio in occasione dell’ottavo centenario dello storico incontro tra Francesco d’Assisi e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. «Il 30 e il 31 marzo saranno trascorsi sei anni dalla visita di papa Francesco a Rabat – sottolinea il cardinale López Romero –. Sua Maestà il Re, che Dio lo custodisca, mi ha detto: “Il ricordo della visita del Papa resta indelebile”».

Eminenza, come si vive dal Marocco il ricovero del Pontefice?

«Con grande tristezza per ciò che il Papa rappresenta per la Chiesa e per il mondo e per la conoscenza e l’amicizia che ho instaurato con lui. Ma anche con assoluta fiducia perché ritengo che i problemi di salute siano normali, soprattutto all’età del Papa, e perché credo nello Spirito Santo e sono convinto che la Chiesa è nelle sue mani».

Il Policlinico Gemelli è ora la nuova cattedra di Francesco. Quale testimonianza giunge dalla sua stanza?

«La malattia fa parte della vita e dobbiamo sempre essere pronti ad accettarla e a viverla come parte della vita stessa. Inoltre, rimanda alla nostra fragile e povera realtà di esseri umani e mortali. Sospendere le attività ordinarie, o anche un certo attivismo, ci aiuta a tornare all’essenziale ed è invito all’umiltà. Diceva il vescovo tedesco Klaus Hemmerle: “Chi lavora per il Regno, ottiene molto; chi prega per il Regno, fa di più; chi soffre per il Regno, fa tutto”. Il Papa, che ha fatto molto per il Regno, ora fa di più, e tutto, soffrendo e pregando dalla sua camera d’ospedale».

Una “catena” orante sta accompagnando il Papa. Come la preghiera è aiuto nella prova?

«Tutti noi ne abbiamo fatto esperienza attraversando situazioni complesse. Non riesco a smettere di pensare a Gesù che ci dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. La preghiera è la via per eccellenza. Però, non possiamo trasformare la preghiera in un “antidolorifico” La preghiera deve essere libera, non utilitaristica. Chiedere aiuto quando qualcosa non va ma non ringraziare quando tutto va bene è una distorsione della preghiera».

Papa Francesco ripete: “Fratelli tutti”. Nel messaggio per Quaresima, invita a «camminare con gli altri» e ad «essere fautori dell’unità». Eppure una parte dell’Europa ha paura del “pianeta” musulmano. E cresce l’islamofobia.

«È un peccato. Ci sono persone, istituzioni e partiti politici interessati a incendiare il rapporto tra musulmani e cristiani, ad alimentare lo scontro o il conflitto, quando invece il rapporto potrebbe essere di amicizia, di collaborazione, persino di fraternità. Che questo clima negativo esista tra i non cristiani potrebbe anche essere comprensibile; ma il fatto che ci siano cattolici (alcuni in posizioni di responsabilità) che non abbiano preso atto di quanto il Vaticano II ha affermato su questo tema 60 anni fa è triste e angosciante. Basta leggere la Dichiarazione conciliare Nostra Aetate: “La Chiesa guarda con stima anche quei musulmani che adorano ‘unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente… Se nel corso dei secoli sono sorti tra cristiani e musulmani molti dissensi e inimicizie, il Sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a lavorare insieme per promuovere la giustizia sociale, il bene morale, la pace e la libertà per tutti gli uomini”».

Come favorire il dialogo fra cristiani e musulmani?

«Non c’è alcun segreto. Si tratta di vivere l’incontro perché “il cammino si fa camminando”. C’è bisogno di chi si sforza di uscire da se stesso andando oltre la propria “comfort zone” e di quanti hanno il coraggio dell’alterità. Così si fa esperienza dell’arricchimento reciproco e della gioia della fratellanza. Suggerisco sempre di “parlare meno dei musulmani e più con i musulmani”. Il resto verrà da sé ogni volta che lavoreremo insieme per le grandi cause dell’umanità; ogni volta che condivideremo l’incontro con Dio e con la fede; ogni volta che, se il Signore ci concede questa grazia, pregheremo insieme».

Sono appena iniziate la Quaresima e il Ramadan che quest’anno in gran parte si sovrappongono.

«È davvero una felice coincidenza che si verificherà anche nei prossimi anni. Tutto questo ci aiuta a comprendere che, come sosteneva san Giovanni XXIII, “ciò che ci unisce è molto più di ciò che ci divide”. Siamo chiamati a condividere non solo alcune pratiche come il digiuno, la preghiera, l’elemosina, ma soprattutto gli atteggiamenti interiori: la conversione, il ritorno a Dio, la riconciliazione, il perdono, la solidarietà con i poveri».

Anche dall’ospedale papa Francesco chiede pace nel testi che sono stati diffusi. Lei, eminenza, ha appena reso noto un messaggio in cui invita a pregare per la pace in Africa e nel mondo.

«Nella relazione possiamo scoprire che “ogni uomo è mio fratello”, al di là della religione, della cultura, della nazionalità o dei tratti etnici. Ne deriva che nessuno ha il diritto di combattere il prossimo. La pace si costruisce partendo dalla conversione dei cuori. Ma l’istruzione è il fattore essenziale. E, quando parlo di istruzione, non intendo solo la scuola, ma anche la famiglia, i media, la società».





Venerdì, 07 Marzo 2025

Il Giubileo del mondo del volontariato prevede domani dalle 8 alle 17 il pellegrinaggio verso San Pietro e l’attraversamento della Porta Santa con la possibilità di confessarsi nelle chiese giubilari. Dalle 15 alle 18 le associazioni animeranno i “Dialoghi con la Città”, incontri culturali, artistici e spirituali in vari luoghi di Roma. Focsiv sarà in piazza Risorgimento, la Protezione Civile sarà nella basilica di San Salvatore in Lauro, all’esterno della quale sarà possibile incontrare le Misericordie con servizi di prevenzione sanitaria, mentre Il Sorriso in piazza Sant’Ignazio proporrà animazione per i bimbi. Il Movimento per la Vita sarà a Lungotevere Vaticano (ponte Vittorio Emanuele). Domenica alle 10.30 in piazza San Pietro la Messa celebrata dal cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, che leggerà l’omelia preparata dal Papa per l’evento. Da segnalare l’impegno di Csv Lazio e Forum Terzo Settore Lazio con Dipartimento Protezione Civile e Dipartimento Politiche Sociali e Salute presso l’Assessorato Politiche sociali e Salute di Roma Capitale, con la mobilitazione di volontari in tutti i Municipi di Roma per offrire supporto a pellegrini, turisti e cittadini. I volontari sono a disposizione presso le sedi delle associazioni “Punti Fissi” del progetto e, nei grandi eventi giubilari, sono affiancati dalle unità mobili in punti strategici, che è possibile trovare aggiornati in tempo reale sul sito di Vol.A in Rete (www.accoglienzagiubileo.it). Registrandosi e compilando il form disponibile su www.accoglienzagiubileo.it è possibile vivere l’esperienza del Giubileo da volontario di un grande sistema di accoglienza, selezionando gli eventi e i giorni e le fasce orarie in cui partecipare.

Tra i 25mila pellegrini attesi domani e domenica al Giubileo del mondo del volontariato – il quinto dei “grandi eventi” dell’Anno Santo – ci saranno anche loro. I volontari del Movimento per la Vita italiano si sono iscritti in gran numero (ne stanno arrivando a Roma 3.500) anche per l’udienza “dedicata” con il Papa che era prevista domani per festeggiare i 50 anni del primo Centro aiuto alla vita (Cav), ispirato a Firenze da Carlo Casini. Il cambiamento di programma non li ha scoraggiati: ci saranno tutti, portando simbolicamente quello che è il “segreto” di tutti i volontari: servire la vita degli altri, specie quand’è più fragile. E non c’è vita che lo sia di più di un bambino nel grembo materno o appena nato. La presidente nazionale del Movimento Marina Casini dà voce a questo messaggio di custodia dell’umano, facendosi “portavoce” di tutto il volontariato.

Il Giubileo del mondo del volontariato porta a Roma un “popolo” che il Papa ha più volte lodato come «una delle cose più grandi che ha la società italiana» e il presidente della Repubblica Mattarella ha definito «dono» ed espressione della «cultura della cura», una «risorsa preziosa» per il nostro Paese. Il Movimento per la Vita vive di volontariato. Lei che ne è presidente, ed è cresciuta dentro questo spirito grazie a suo padre Carlo, come vede oggi il volontariato italiano?

Senza il volontariato la vita sociale sarebbe gravemente impoverita; tra l’altro spesso il volontariato svolge una funzione di supplenza rispetto ai compiti delle strutture pubbliche. Non c’è dubbio che sia ancora una grande ricchezza in termini di solidarietà, prossimità, soccorso, promozione umana, collaborazione, costruzione del bene comune. Un elemento di novità è l’esigenza di professionalizzazione e una maggiore competenza dovute alla riforma del terzo settore. Il volontariato è anche un grande stimolatore di creatività perché le risposte alle necessità, come la stessa cura delle persone, degli ambienti e dell’ambiente, non possono essere standard e asettiche ma calibrate e calzanti, confezionate su misura. Papa Francesco direbbe che anche qui va applicato lo stile dell’artigiano...

Cosa porta nel movimento del volontariato nel nostro Paese quello proprio dei Centri di aiuto alla vita? Quale valore, e quale stile?

I Cav hanno portato una novità rispetto all’assistenza alle donne incinta: facendosi carico delle necessità concrete i Cav sfidano una mentalità che nega la piena umanità del figlio concepito e nega il valore della maternità durante quella fase così unica e speciale che è la gravidanza. Nello stesso tempo portando lo sguardo sul bambino non ancora nato e sulla sua mamma i Cav indicano la strada per rafforzare ogni servizio all’uomo e ogni solidarietà. La società che vogliamo costruire insieme a tutti i volontari è quella in cui «contano coloro che non contano». Noi del Movimento per la Vita prendiamo sul serio le parole di Madre Teresa di Calcutta: «Se una madre può sopprimere il frutto del suo seno, che cosa ti resta? L’aborto è il principio che mette in pericolo la pace nel mondo». I Cav sono un luogo dove a una intera comunità viene data la possibilità di collegarsi idealmente con ogni altra realtà impegnata a difendere l’uomo soprattutto quando è povero, fragile, scartato, e a realizzare le varie forme di solidarietà. Per la collaudata esperienza di questi 50 anni i Cav si offrono come avanguardia per la cultura della vita. Lo stile è quello dell’accoglienza che con mitezza e discrezione parte dall’ascolto e si fa sostegno, condivisione, rottura della solitudine, amicizia, rifiuto del giudizio sulle persone, ottimismo, disponibilità, fiducia, valorizzazione di tutto ciò che è positivo, anche nelle situazioni più complicate I Cav sono “per” e “con”, mai “contro”. Come tutto il volontariato.

Questo particolare evento giubilare porta a Roma migliaia di volontari, impegnati sui più diversi fronti. Speravano di poter incontrare e ascoltare il Papa, ma la sua situazione di salute sembra parlare in modo forse ancora più eloquente proprio ai volontari. Da credente e da volontaria, che valore assume ora questo pellegrinaggio?

Un valore davvero grande che ci fa entrare maggiormente nel cuore della Chiesa, scuola e casa di comunione. Il Papa sarà assente solo fisicamente, la sostanza della comunione resta. Gli faremo giungere il nostro abbraccio che parla di affetto, preghiera, gratitudine. La mancanza della sua presenza fisica non è un vuoto silente ma un’esortazione eloquente all’unità nella preghiera per lui, per la Chiesa, per il mondo, per il servizio reso dai volontari. Diventa anche più forte l’invito a interrogarci sulle più intime motivazioni del servizio reso nei vari ambiti, ad andare fino al cuore del volontariato per uscirne rafforzati, più motivati, in qualche modo “purificati”. Davvero pellegrini di speranza.

Come si rende sensibile e consapevole una società che sembra aver ceduto alla “cultura dello scarto”, diametralmente opposto?

Diffondere la coscienza sull’importanza della cura e della responsabilità verso l’altro sempre e comunque, senza scarti, dal concepimento alla morte, passando per tutte le fasi della vita, implica tempi di maturazione sui quali non dobbiamo avere pretese. Il nostro compito è impegnarci – meglio: testimoniare – esercitando la pazienza fondata sulla fiducia nel segno positivo che caratterizza la storia. Il cuore dell’uomo, per quanto indurito, è sempre capace di aprirsi al bene, la grazia opera sempre. Certamente sono importanti modalità comunicative che uniscano verità e carità: una relazionalità empatica che sappia dare le ragioni della “cultura della cura”.

Cinque anni fa, il 23 marzo, moriva suo padre Carlo, pioniere del volontariato. Cos’ha imparato da lui?

Ha testimoniato con generosità e gioia la bellezza di spendersi per un grande ideale, vissuto quotidianamente, che dà senso all’esistenza. Non si è mai arreso di fronte alle difficoltà tenendo sempre accesa la fiaccola della speranza. Nel 1981 a Firenze disse che «crediamo che ci sia bisogno oggi di tante cose in questa nostra società, ma c’è soprattutto bisogno di speranza. Ecco la spes contra spem: c’è bisogno di offrire un’indicazione alla gente, perché valga la pena lavorare, impegnarsi, sacrificarsi, rinunciare... C’è bisogno di un volontariato generoso e vasto, e tutto questo non si può ottenere senza una indicazione di ideali e di valori che vanno oltre il domani». Papa Francesco ha detto che «non c’è un volontariato da scrivania e non c’è un volontariato da televisione. Il volontariato è sempre in uscita, il cuore aperto, la mano tesa, le gambe pronte per andare». E ha parlato dei volontari come «artigiani di misericordia: con le mani, con gli occhi, con gli orecchi attenti, con la vicinanza. Essere volontari vuol dire lavorare con la gente che si serve. Non solo per la gente, ma con la gente». Ecco, il babbo era così.





Venerdì, 07 Marzo 2025

Digiuno, preghiera e carità sono i segni che caratterizzano la Quaresima, i 40 giorni di preparazione alla Pasqua che nelle Chiese di rito romano sono iniziati il 5 aprile, Mercoledì delle Ceneri. Quella di quest’anno sarà una Quaresima particolare perché si inserisce nel cammino giubilare dell’Anno Santo e perché, almeno all’inizio, non vede la partecipazione pubblica del Papa, tuttora ricoverato in ospedale. A parlarci della Quaresima è padre Roberto Pasolini, predicatore della Casa Pontificia, che ci spiega anche perché nelle Chiese di rito ambrosiano la Quaresima inizia più tardi. Conduce Riccardo Maccioni.

Dentro l’Avvenire è la serie podcast dedicata ai fatti, ai protagonisti, alle grandi storie di attualità, con le voci di chi li racconta giorno per giorno. Pochi minuti per farsi un’idea sul presente e provare a ragionare sul futuro, con qualche spunto per approfondire. A cura di Marco Ferrando, Alessandro Saccomandi e Chiara Vitali, si può ascoltare su tutte le piattaforme gratuite e sul sito di Avvenire. Per domande e suggerimenti scrivere a social@avvenire.it







Venerdì, 07 Marzo 2025





Giovedì, 06 Marzo 2025

Questa mattina, a Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, accompagnato da monsignor Derio Olivero, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, ha incontrato il presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, rav Alfonso Arbib, e il rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni.

Durante il cordiale colloquio, che si è svolto nella curia arcivescovile di Bologna, si è analizzata la situazione del rapporto tra ebrei e cristiani, a partire dalle incomprensioni. Si è deciso di agire per chiarire le confusioni e, soprattutto, di guardare avanti.

Sono state inoltre condivise due scelte importanti per dare segnali concreti. La prima: una presentazione ufficiale, a livello nazionale, con il Ministero dell’Istruzione e del Merito, delle 16 schede per conoscere l’ebraismo. Queste sono il frutto di un lavoro tra gli Uffici della Segreteria generale della Conferenza episcopale italiana (Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso; Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università; Servizio nazionale per l’insegnamento della religione cattolica) e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane - Ucei.

La seconda scelta è quella di promuovere iniziative che favoriscano e rafforzino l’amicizia tra ebrei e cristiani.





Giovedì, 06 Marzo 2025

Viviamo in un’epoca di cambiamenti non solo veloci, ma rapidi, capaci cioè di rapirci, sostiene Antonio Spadaro nell’articolo che ha aperto un dibattito ormai nutrito di numerosi contributi. E io mi chiedo: è veramente così, la Chiesa deve rispondere alla sfida con una teologia ugualmente rapida? E ancora: che significa questo in concreto per noi cristiani?

Partiamo dall’affermazione che adesso tutto cambia a un ritmo così frenetico da disorientarci. L’elenco dei motivi è lungo, conosciuto. Ci sono molte cose che stanno rivoluzionando il nostro modo di vivere.

Ma altre cose non cambiano affatto. Sembrano stabili, inamovibili, come il Gran Sasso. Ad esempio le disuguaglianze sociali ed economiche. Nel ponderoso saggio Il capitale nel XXI secolo Thomas Piketty dimostra, dati alla mano, che la distribuzione delle ricchezze oggi è simile a quella dell’Ottocento. Lustri di stato sociale in Occidente buttati via. Anzi, in termini etici, a dispetto delle conoscenze tecnologiche e delle enormi risorse finanziarie di cui disponiamo, il mondo peggiora. Scrive Oxfam: «Per la prima volta in 25 anni, la ricchezza estrema e la povertà estrema sono aumentate drasticamente e contemporaneamente». Tanto che «dal 2020 i cinque uomini più ricchi al mondo – Musk, Arnault, Bezos, Ellison e Buffet – hanno più che raddoppiato le proprie fortune, mentre la ricchezza complessiva di quasi cinque miliardi di persone più povere non ha mostrato barlume di crescita». Denaro e potere sono sempre più concentrati in poche mani con chiari pericoli per la democrazia, e con circa 750 milioni di individui che patiscono la fame.

Vediamo il giudizio finale su di noi, in Matteo 25. «Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?”». Sappiamo la risposta: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». E agli altri, le capre poste alla sua sinistra, Gesù dice: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato».

Papa Francesco non è un manicheo, né un giudice inflessibile, però credo che questo passo del Vangelo non lo dimentichi neppure per un attimo. Da un lato per lui c’è l’economia che uccide, dall’altro la Porta Santa che ha voluto aprire nel carcere di Rebibbia durante il Giubileo della Speranza. È un tema antico, l’amore per il prossimo. Ma anche su quelli più attuali, dall’intelligenza artificiale all’omosessualità, dalla pedofilia alla pace che va ricercata con ogni mezzo in Europa e altrove, Francesco si è espresso con chiarezza.

I grilli parlanti, gli azzeccagarbugli, sosterranno che è facile predicare. Che lui e i preti, che le anime belle spesso ignoranti di come gira il mondo, se ne stiano in chiesa o dovunque si trovino inginocchiati. Pensino allo spirito, al cielo. Le questioni concrete, che riguardano la Terra, vanno lasciate a chi se ne intende: ai finanzieri, ai politici, ai generali.

E invece no. La teologia a cui fa riferimento padre Spadaro, secondo me, è questa: bisogna gettarsi nelle acque agitate, nell’enorme rapida che travolge il mondo, per nuotare controcorrente. Nuotare non da soli, ma insieme alle donne e agli uomini di buona volontà, laici o ministri di qualsiasi culto, con lo scopo di raggiungere, costruire, luoghi dove regna la giustizia e la fratellanza.

I soliti noti affermeranno: ingenui, è un’utopia!

Ho lavorato per decenni in aziende. E all’epoca pensavo che un’idea era buona soltanto se realizzabile. Adesso penso che un’idea buona va perseguita a prescindere dal suo grado di realizzabilità.

Prendiamo un’idea a caso: tassare al 2% le ricchezze di un centinaio di miliardari, cominciando dai cinque paperoni prima menzionati. Così il problema della fame nel mondo sarebbe risolto. Non sono cifre buttate là, sono calcoli non troppo complessi basati su statistiche ufficiali. Perché di simili iniziative non se ne parla quasi mai?

Un motivo è ovvio: i mezzi di comunicazione sono controllati proprio da chi è ricco e potente. Ma questo non basta, esiste un fattore più pervasivo: la straordinaria capacità di sedurre del capitalismo. Sull’argomento Walter Benjamin ci ha lasciato, ormai un secolo fa, pagine straordinarie. C’è un altro suo breve saggio, Capitalismo come religione, che dovrebbe interrogarci e farci intuire le ragioni profonde di ciò che succede, oggi ancor più che nel 1921, quando il filosofo berlinese scrisse quel profetico frammento.

Dunque non è nemmeno sempre necessario credere a Gesù quando dice «se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: “Spostati da qui a là” ed esso si sposterà». Per muovere, far tremare il Gran Sasso delle disuguaglianze bastano anche misure di carattere fiscale. O ritenere sbagliato che per difendere la pace l’unica scelta saggia sia una crescita delle spese militari, con parallela riduzione del budget destinato all’assistenza sociale.

L’universo capitalistico genera sentimenti di solitudine e di paura, su cui alcuni partiti e governi prosperano. I migranti diventano semplicemente invasori, chi non è dei nostri è un nemico e non importa se soffre. La globalizzazione, economica e culturale, insieme a diversi benefici, ha creato molti danni, bisogna riconoscerlo e non lasciare tali bandiere ai sovranisti. Tra questi danni c’è un’altra globalizzazione, quella dell’indifferenza, come l’ha definita papa Francesco.

Sembriamo persi dentro una società narcisistica, in cui reagiamo al senso di vuoto e di terrore che ci invade, con la cura ossessiva della nostra immagine, sbarazzandoci di ogni empatia per il prossimo.

Che fare? Non lo so.

Ma siamo in tanti a poter riflettere sulle strade che bisogna percorrere. Non è obbligatorio delegare la scelta di ogni idea a filosofi, esperti di economia, guru della scienza e della tecnica. Anche gli artisti possono immaginare nuove versioni del mondo, come dice Francesco. Nell’omelia di domenica 16 febbraio ha scritto: «Voi, artisti e persone di cultura, siete chiamati a essere testimoni della visione rivoluzionaria delle Beatitudini. La vostra missione è non solo di creare bellezza, ma di rivelare la verità, la bontà e la bellezza nascoste nelle pieghe della storia, di dare voce a chi non ha voce, di trasformare il dolore in speranza».

È un appello che non vale solo per scrittori e pittori, vale per tutti. Ascoltiamolo. Poi buttiamoci a capofitto in quella rapida che è certo vicino a ciascuno di noi, e che ci aspetta correndo e schiumando.

scrittore





Mercoledì, 05 Marzo 2025

Pubblichiamo il testo della catechesi di papa Francesco preparata per l’udienza generale di mercoledì 5 marzo 2025. La riflessione, l’ultima dedicata all’infanzia di Gesù e ispirata al tema «“Figlio, perché ci hai fatto questo?” (Lc 2,49). Il ritrovamento di Gesù nel Tempio», prosegue il ciclo di catechesi per il Giubileo 2025 «Gesù Cristo nostra speranza».

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! In quest’ultima catechesi dedicata all’infanzia di Gesù, prendiamo spunto dall’episodio in cui, a dodici anni, Egli rimase nel Tempio senza dirlo ai genitori, i quali lo cercarono ansiosamente e lo ritrovarono dopo tre giorni. Questo racconto ci presenta un dialogo molto interessante tra Maria e Gesù, che ci aiuta a riflettere sul cammino della madre di Gesù, un cammino non certo facile. Infatti Maria ha compiuto un itinerario spirituale lungo il quale è avanzata nella comprensione del mistero del suo Figlio.

Ripensiamo alle varie tappe di questo percorso. All’inizio della sua gravidanza, Maria fa visita a Elisabetta e si ferma da lei per tre mesi, fino alla nascita del piccolo Giovanni. Poi, quando è ormai al nono mese, a causa del censimento, con Giuseppe va a Betlemme, dove dà alla luce Gesù. Dopo quaranta giorni si recano a Gerusalemme per la presentazione del bambino; e quindi ogni anno ritornano in pellegrinaggio al Tempio. Ma con Gesù ancora piccolo si erano rifugiati a lungo in Egitto per proteggerlo da Erode, e solo dopo la morte del re si erano stabiliti di nuovo a Nazaret. Quando Gesù, divenuto adulto, inizia il suo ministero, Maria è presente e protagonista alle nozze di Cana; poi lo segue “a distanza”, fino all’ultimo viaggio a Gerusalemme, fino alla passione e alla morte. Dopo la Risurrezione, Maria resta a Gerusalemme, come Madre dei discepoli, sostenendo la loro fede in attesa dell’effusione dello Spirito Santo.

In tutto questo cammino, la Vergine è pellegrina di speranza, nel senso forte che diventa la “figlia del suo Figlio”, la prima sua discepola. Maria ha portato al mondo Gesù, Speranza dell’umanità: lo ha nutrito, lo ha fatto crescere, lo ha seguito lasciandosi plasmare per prima dalla Parola di Dio. In essa – come ha detto Benedetto XVI – Maria «è veramente a casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa con la Parola di Dio […]. Così si rivela, inoltre, che i suoi pensieri sono in sintonia con i pensieri di Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio. Essendo intimamente penetrata dalla Parola di Dio, ella può diventare madre della Parola incarnata» (enciclica Deus caritas est, 41). Questa singolare comunione con la Parola di Dio non le risparmia però la fatica di un impegnativo “apprendistato”.

L’esperienza dello smarrimento di Gesù dodicenne, durante il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, spaventa Maria al punto che si fa portavoce anche di Giuseppe nel riprendere il figlio: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Maria e Giuseppe hanno provato il dolore dei genitori che smarriscono un figlio: credevano entrambi che Gesù fosse nella carovana dei parenti, ma non avendolo visto per un’intera giornata, incominciano la ricerca che li porterà a fare il viaggio a ritroso. Tornati al Tempio, scoprono che Colui che ai loro occhi, fino a poco prima, era un bambino da proteggere, è come cresciuto di colpo, capace ormai di coinvolgersi in discussioni sulle Scritture, reggendo il confronto con i maestri della Legge.

Di fronte al rimprovero della madre, Gesù risponde con disarmante semplicità: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Maria e Giuseppe non comprendono: il mistero del Dio fatto bambino supera la loro intelligenza. I genitori vogliono proteggere quel figlio preziosissimo sotto le ali del loro amore; Gesù invece vuole vivere la sua vocazione di Figlio del Padre che sta al suo servizio e vive immerso nella sua Parola.

I Racconti dell’Infanzia di Luca si chiudono, così, con le ultime parole di Maria, che ricordano la paternità di Giuseppe nei confronti di Gesù, e con le prime parole di Gesù, che riconoscono come questa paternità tragga origine da quella del Padre suo celeste, del quale riconosce il primato indiscusso.

Cari fratelli e sorelle, come Maria e Giuseppe, pieni di speranza, mettiamoci anche noi sulle tracce del Signore, che non si lascia contenere dai nostri schemi e si lascia trovare non tanto in un luogo, ma nella risposta d’amore alla tenera paternità divina, risposta d’amore che è la vita filiale.

© Libreria Editrice Vaticana





Mercoledì, 05 Marzo 2025

Sono disponibili da oggi mercoledì 5 marzo, Mercoledì delle Ceneri, sulle diverse piattaforme di podcast i Vangeli della Bibbia Cei (2008) confezionati appunto in stile podcast. Si tratta di un’ulteriore evoluzione del più grande progetto, BibbiaEdu.it, che comprende il sito e la corrispondente app con l’obiettivo di rendere sempre più accessibile la Parola che sta a fondamento della fede e della vita della comunità cristiana.

«La scelta della data non è casuale», fa notare Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali che, insieme al Settore dell’apostolato biblico dell’Ufficio catechistico, ha supervisionato il progetto sostenuto dalla Segreteria Generale della Cei. «Mercoledì delle Ceneri – spiega Corrado – inizia il tempo della Quaresima, dedicato in modo particolare al silenzio, alla lettura e all’ascolto della Parola. Ci è sembrato molto opportuno dare avvio all’iniziativa proprio in questa giornata. Riteniamo poi che aver reso disponibili i Vangeli, in formato podcast, sulle diverse piattaforme possa essere anche un invito a intrecciare le proprie narrazioni con la parola buona che può dare senso e significato a ciò che viene vissuto. Ci auguriamo che anche questo servizio possa sostenere la vita personale e comunitaria. Un ringraziamento particolare alla Biblioteca Apostolica Vaticana per le immagini degli evangelisti utilizzate come copertine dei singoli libri». «San Paolo – aggiunge don Dionisio Candido, responsabile del Settore dell’Apostolato Biblico – scriveva che la fede deriva dall’ascolto. In effetti, sin dall’antichità, la Bibbia è stata più proclamata e ascoltata che letta. Oggi la tecnologia può aiutare a tornare a gustare questa dimensione propria della Parola di Dio, ascoltata e meditata per essere infine vissuta».





Mercoledì, 05 Marzo 2025

«È in corso un'indagine accurata con l'assistenza di un laboratorio professionale». Così l’ufficio comunicazioni dell'arcidiocesi di Indianapolis, negli Stati Uniti, ha risposto alle richieste di informazioni presentate nei giorni scorsi da due note pubblicazioni cattoliche, Osv News e CatholicVote, in merito a un presunto miracolo eucaristico avvenuto tra il 21 e 22 febbraio scorsi e che ha attirato l’attenzione anche dei media locali non confessionali.

Tutto è avvenuto nella chiesa parrocchiale di Morris, nell’arcidiocesi di Indianapolis appunto, dedicata a Sant’Antonio di Padova. Secondo la versione divulgata dell’associazione cattolica Corpus Christi for Unity and Peace, in contatto con una protagonista dei fatti, la sacrestana, durante una Messa feriale di venerdì 21 febbraio un’ostia è caduta per terra durante la celebrazione, un’altra è stata trovata per terra successivamente dal parroco. Entrambe le ostie sono state subito raccolte, messe in un bicchiere perché si dissolvessero, bicchiere posto a sua volta nel tabernacolo. Il giorno seguente la sacrista, aperto il tabernacolo per verificare lo stato delle ostie, ha visto qualcosa che «sembrava un pezzo di pelle molto molto sottile con del sangue sopra». Ha chiamato quindi il parroco che ha tolto le ostie dall’acqua riponendole sempre nel tabernacolo e avvisando la curia. La donna ha poi scattato la foto che è stata pubblicata dal portale di informazione The 812, che segue la cronaca della parte sud orientale dello Stato dell’Indiana.

Ora si attendono gli esami di laboratorio.





Mercoledì, 05 Marzo 2025

«Avverto nel cuore la “benedizione” che si nasconde dentro la fragilità, perché proprio in questi momenti impariamo ancora di più a confidare nel Signore». Questa affermazione di papa Francesco è contenuta nel testo dell’Angelus di domenica scorsa, diffuso dalla Santa Sede. Le parole scritte dal Santo Padre portano un tema ricorrente nell’esperienza dei sofferenti. I cappellani ospedalieri e tutti gli assistenti spirituali dei malati si trovano spesso a riflettere sul senso della fragilità. È anche la domanda che più viene loro posta: perché? Qual è il senso di questa sofferenza? perché proprio a me? E le risposte rischiano di arrivare un po’ frettolose, magari sentite e poi ripetute, che confondono i sofferenti.

Ma nelle parole del Papa troviamo una spiegazione chiara. La benedizione di cui parla Francesco non è «nella fragilità», ma «si nasconde dentro la fragilità». Questa lettura ci aiuta a capire molte cose. Un primo chiarimento è la cancellazione definitiva di quella tendenza doloristica che vorrebbe accreditare la malattia come “voluta” da Dio per la nostra santificazione. Il Dio che dichiara di essere soltanto amore non può desiderare che le persone soffrano, al massimo lo può tollerare, a condizione che questo rappresenti la via per un bene maggiore. La parte che emerge visibile ai nostri occhi è la fragilità intrinseca nell’essere persona. Non un difetto o una mancanza, ma una componente dell’identità antropologica della persona stessa.

Siamo fragili: e non è un difetto, ma una caratteristica. Questo non ci rende meno belli o meno preziosi, ma comporta la necessità di essere trattati con cura. Come il cristallo, che sul suo contenitore porta proprio questa avvertenza: fragile, maneggiare con cura. E le persone sono molto di più di un cristallo. Dentro la fragilità c’è qualcosa di più della sua veste esteriore: c’è il senso del vivere, il fine ultimo di ognuno di noi che è chiamato alla vita. C’è la vocazione all’amore con Dio e fra di noi, c’è la piena realizzazione del progetto che è stato offerto a ciascuno, c’è un “dire bene”, una benedizione che è la Parola di vita pronunciata da Dio per ciascun uomo e donna vissuti e viventi. Ogni sofferente è chiamato a fare un cammino di ricerca e di scoperta.

Coloro che si arrestano alla forma esteriore della fragilità vivranno la malattia e la loro stessa fragilità come un limite da superare, rifiutando la condizione stessa, quella di umanità fragile per costituzione, alla ricerca di una invincibilità che è utopia del vivere secondo i propri schemi e obiettivi. Per questi, la morte rappresenta la sconfitta finale, il fallimento che è inaccettabile o piuttosto la liberazione da un male senza speranza, perché non ha un senso, uno scopo. Coloro che scavano senza sosta, convinti che anche nel buio del dolore e della malattia si possa nascondere un senso ultimo, coloro che vorranno sperare anche quando sembrerà non essercene traccia, allora potranno scoprire quel senso che sostiene, quello scopo che motiva la lotta, quel fine per cui valga la pena di sopportare queste fragilità, il motivo per cui l’obiettivo meriti la fatica. Il premio finale vale l’impegno e il peso della preparazione e della gara. E il premio non può che essere quella benedizione di Dio sulla vita di ciascuno.

Non una benedizione generica e unica per tutti, ma piuttosto una benedizione pronunciata da Dio con parole diverse per ciascuno, tanti quanti sono gli uomini e le donne, tante quante sono le vocazioni personali, quanti sono i progetti di bene che Lui ha immaginato per ognuno.

*Direttore dell'Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute della Conferenza episcopale italiana





Sabato, 22 Marzo 2025

Formare una squadra di content creator per raccontare il bello che c’è in giro. È questo l’obiettivo del progetto #ShinetoShare rivolto ai giovani, dai 18 ai 35 anni, che vogliono creare contenuti digitali di qualità, documentando la vivacità dei territori e i tanti piccoli gesti che contribuiscono a rendere migliore la vita di tutti. Promossa dalla Chiesa italiana, attraverso il Servizio nazionale per la pastorale giovanile (Snpg) e il Servizio per la promozione del sostegno economico (Spse), con la direzione didattica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, l’iniziativa consiste infatti nel narrare, con un video della durata di 40/60 secondi, un evento o un’esperienza di fede e di servizio fatta in oratorio, in parrocchia o in un’associazione cattolica.

La creatività nel presentare storie originali e coinvolgenti, la profondità del messaggio proposto, la qualità e la chiarezza espositiva sono le caratteristiche da tenere in considerazione. I contributi dovranno essere caricati sul sito www.shinetoshare. chiesacattolica.it dal 17 marzo fino al 6 aprile. Entro il 27 aprile una giuria composta da esperti del mondo della comunicazione selezionerà i 100 video finalisti e gli autori saranno invitati a partecipare a un percorso formativo per affinare le loro tecniche e acquisire nuove competenze in storytelling, marketing digitale, video editing e uso dell’Intelligenza artificiale così da diventare dei veri e propri content creator.

Del resto, «il bene va raccontato bene », sottolinea don Riccardo Pincerato, responsabile del Snpg, per il quale #ShinetoShare è una grande opportunità perché « permette di avere strumenti per raccontare il bello e il bene della Chiesa con gli occhi e la voce dei giovani che possono sorprendere con le loro visioni e le loro narrazioni». Il progetto, aggiunge da parte sua Massimo Monzio Compagnoni, responsabile del Spse, «ribadisce l’invito del Vangelo a essere sale e luce del mondo: siamo chiamati a esserlo anche sui social, soprattutto per chi non conosce ancora la gioia della vita nuova in Gesù».

Il contest sarà dunque un’occasione preziosa per mettersi in gioco, sperimentare le proprie capacità, ma anche per imparare e conoscere nuovi amici provenienti da tutta Italia. L’iter di formazione prevede infatti una sessione teorica online e una laboratoriale in presenza dal 23 al 26 giugno, a Seveso (Monza e Brianza), a cui si aggiungeranno due giornate speciali: il 30 e il 31 luglio i finalisti si ritroveranno a Roma per prendere parte ad alcuni eventi organizzati nell’ambito del Giubileo dei giovani e realizzare contenuti, in reel, per raccontare quanto accadrà nella Città Eterna. Infine, entro il 30 settembre, una giuria selezionerà i 20 ragazzi, uno per ogni regione, che avranno postato i video più interessanti e creativi, proponendo loro di diventare “ambassador” per produrre e pubblicare contenuti sui profili social della Conferenza episcopale italiana (Instagram, Facebook, X, TikTok). Perché il bello va condiviso e diffuso.





Mercoledì, 05 Marzo 2025

Il Mercoledì delle Ceneri, che nelle Chiese di rito romano apre il Tempo di Quaresima, è giorno di digiuno. Ma qual è significato cristiano della rinuncia al cibo? E si tratta di una forma di sacrificio che ha ancora senso? Sono le domande attorno a cui si articola il nuovo episodio del podcast Taccuino celeste che spiega anche le differenze tra digiuno ed astinenza, e chi è tenuto a seguirli. Punto di partenza naturalmente la Scrittura, dal Vangelo di Gesù tentato dal Diavolo a Mosè che si astiene dal mangiare 40 giorni prima di ricevere le Tavole della legge. Inoltre, si parla di san Tommaso d’Aquino, di san Pietro Crisologo e delle altre forme di rinuncia, per esempio dai social, che possono essere seguite da chi non vive l’astensione dal cibo come un sacrificio. Il valore del digiuno, anche nella sua dimensione comunitaria, è al centro della Cartolina da Camaldoli, lo spazio curato ogni settimana dai monaci benedettini della comunità toscana.

Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, dei passi necessari per diventare santi, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo.

Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it





Martedì, 04 Marzo 2025

Secondo il racconto di Genesi fu Yuval, discendente di Caino e «padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto», a introdurre la musica nella storia umana. Fin dalle prime righe, le melodie e i canti accompagnano la narrazione biblica, quale elemento imprescindibile dell’esistenza. Il canto esprime la lode a Dio, il dolore, la gioia, la speranza, l’amore, la rabbia e la meraviglia di fronte all’opera della Creazione e nei secoli accompagna la preghiera e il culto nel Tempio, in cui, stando a quanto riferisce la tradizione, suonava la grande orchestra formatasi grazie agli strumenti portati dall’Egitto dalla figlia del faraone in occasione delle sue nozze con il re Salomone.

Il rapporto simbiotico tra Bibbia e musica è da sempre oggetto di studio e nei secoli è stato fonte d’ispirazione per composizioni di ogni genere, dall’opera lirica al pop, dai canti popolari in ogni lingua e dialetto, al rock e al jazz. È un universo intero, in cui dialogano ricerca storica e creazioni inedite e noi possiamo farne oggetto di studio e/o sedere in poltrona e ascoltare le note di quella grande epopea, assumendo il ruolo di spettatori, affascinati dalla molteplicità di espressioni che prendono forma dalle pieghe del testo.

C’è però un ulteriore approccio possibile, in cui possiamo provare a lasciare il ruolo di semplici spettatori per farci coinvolgere in prima persona, entrando nei tanti significati che la musica assume e guardando alla Bibbia come a una complessa e affascinante polifonia corale, in cui ogni voce racconta qualcosa di sé e dunque di noi. E ogni silenzio, proprio come nelle migliori composizioni, ha un preciso significato. Ogni canto nella Bibbia, al di là della specificità storica e del contesto letterario, è espressione di universali e suscita riflessioni non solo sull’esistenza, ma anche sui meccanismi politici e sociali che governano il nostro tempo.

La preghiera sommessa di Anna nel Tempio di Shilo, simbolo del desiderio viscerale di maternità, si trasforma in un canto colmo di gratitudine e di speranza nel futuro con la nascita del figlio Samuele e quel canto, esattamente come quello di Maria madre di Gesù con cui presenta straordinarie affinità, assume un valore politico e sociale in cui le normali logiche di potere vengono ribaltate perché il braccio forte del Signore farà rovesciare i potenti dai troni e innalzerà gli umili. La voce delle due donne esprime il sogno di una nuova storia segnata dalla liberazione, dal riscatto e dalla giustizia, temi che secoli dopo saranno veicolati anche grazie agli spiritual intonati da migliaia di persone in America nelle marce guidate dal Civil Right Movement e grazie a diversi brani nati in quegli anni, come Blackbird composta da Paul McCartney nel 1968 e portata al successo dai Beatles.

Nell’America degli anni ’60, gli spiritual afroamericani, che riprendono temi e personaggi biblici, assumono un profondo significato politico e cantare significa difendere gli ideali di uguaglianza e di libertà di cui la Bibbia si fa portatrice. Anche gli schiavi importati dall’Africa per lungo tempo avevano invocato con il canto l’arrivo di un nuovo Mosè, che li avrebbe salvati.

E lo stesso Mosè, dopo l’attraversamento del Mar Rosso, eleva il proprio inno di lode a Dio in forma poetica e al termine, la sorella Miriam prende in mano il tamburello e canta; la sua voce segna il passaggio fondamentale dalla schiavitù alla libertà e dunque l’inizio della storia e l’accoglienza della Legge.

Ed è interessante che nel libro del Deuteronomio, quando la morte di Mosè è ormai vicina, in riferimento alla necessità di vivere, comprendere e tramandare di generazione in generazione la Legge, Dio dica: «E ora, scrivete per voi questo canto e insegnatelo ai figli di Israele, ponetelo nella loro bocca; questo canto sarà per me testimone» (31,19).

Come ha scritto Rav Jonathan Sacks, «la Torah è il libretto d’opera di Dio e noi siamo il coro, perché la musica è il linguaggio dell’anima», e dunque ci permette di essere interpreti e di sviluppare nuovi sguardi sul testo che sfuggono alla forza e alla gabbia dei significati finiti e dei pensieri immutabili. La “musica” della Bibbia e la miriade di espressioni musicali che ne sono scaturite in ogni epoca e in ogni cultura, divengono lo spazio in cui possiamo riconoscere i limiti del carattere apodittico che si è troppo spesso attribuito al testo ed eliminare la patina di moralismo, nonché la tentazione dell’assunzione di modelli paradigmatici, per accostarci alla narrazione non solo con la ragione e le strutture mentali ricevute in eredità, ma anche e soprattutto con l’intelligenza emotiva. Perché è esattamente lì che la musica agisce.

E allora credo, coglieremo il senso più profondo dell’umanità che caratterizza i personaggi ne La buona novella di Fabrizio De André o dell’ebraico “hinneni” (eccomi) che Leonard Cohen incide in un disco pochi mesi prima di morire, quando come ogni essere umano fa i conti con la propria vita e la propria storia e che riprende la risposta data secoli prima da Abramo, Samuele, Maria madre di Gesù, ecc… Sentiremo con altro spirito le benedizioni al figlio della celebre Forever Young di Bob Dylan o il sogno di maternità cantato da Noa nella sua Uri, un raffinato brano pop con il testo della poetessa Rachel Bluwstein che richiama il grido disperato della Rachele biblica moglie di Giacobbe.

Guarderemo con altri occhi lo spiritual Mary don’t you weep, che annuncia la fine del tempo delle lacrime e racconta il riscatto del popolo salvato da Mosè, degli afroamericani guidati da Martin Luther King e di Maria Bloch Bauer, a cui è dedicata una versione in stile west coast nel film Woman in Gold.

E allora, la “partitura biblica” stratificata nei secoli, non sarà solo oggetto di studio, curiosità culturale o sorella minore della più solida e affidabile interpretazione esegetica, bensì uno spazio assolutamente serio, in cui le note e i canti possono donarci domande nuove. A ciascuno le proprie.

ebraista






Martedì, 04 Marzo 2025

Lo storico delle religioni Mircea Eliade racconta nel suo Diario di essere entrato un giorno nella basilica di San Marco: «avevo lasciato gli altri compagni stretti intorno alla guida… ero convinto che dovevo vedere da solo e che solamente così avrei potuto scoprire… scoprire che cosa? Non lo sapevo, né me lo chiedevo: sentivo soltanto che mi sarebbe stato rivelato “qualcosa”. E allora inaspettatamente fui accolto da quel Cristo in mosaico, un Cristo che non riconobbi, tanto assomigliava a un arcangelo. Christos angelos. Uno dei primi misteri, che fino a quel momento non avevo sospettato, né avuto modo di comprendere…». Davanti alla «incomparabile bellezza» di quel Gesù maestoso e luminoso come un arcangelo, Eliade è sconvolto: viene preso dalla grande emozione che spesso ci pervade di fronte alle opere di arte sacra, come se in esse si celasse un mistero che riguarda non solo il divino, il trascendente, ma anche la profondità di noi stessi, la nostra verità interiore.

Il racconto di Eliade è solo uno dei tanti, innumerevoli esempi che si potrebbero addurre a testimonianza della bellezza e della potenza conoscitiva che le opere d’arte vengono ad assumere quando cercano di trasformare in immagini visive le storie narrate nella Bibbia. Fin dai primi secoli della nostra era, con l’espansione del cristianesimo prese a diffondersi nel mondo il bisogno di mostrare in immagini gli eventi e i personaggi descritti nei testi biblici. E da allora le chiese si sono riempite di affreschi, quadri, statue raffiguranti il mondo delle Sacre Scritture. Ma da dove viene questa propensione potente a trasformare in immagine la dimensione del divino, proprio quando la Scrittura stessa sembra vietarlo esplicitamente e perentoriamente? «Non farti scultura né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra…» (Esodo 20, 4). Come mai tale interdetto all’immagine, che il mondo ebraico ha fatto proprio da sempre, è stato invece scavalcato o eluso dal mondo cristiano?

Credo che una possibile risposta si nasconda in due paradossi, insiti fin dall’origine sia nella particolarità delle storie bibliche sia nel carattere specifico della rivelazione cristiana. Innanzitutto occorre notare che lo stile biblico, a differenza di quello espresso in grandi opere letterarie del passato come l’Iliade o l’Odissea, evoca sì straordinari eventi (la creazione del mondo, il diluvio, l’esodo...) ma stranamente li descrive poco, non si sofferma mai sui particolari, sull’aspetto esteriore di cose e persone. In questo modo però ci costringe a immaginare il non detto, il sottaciuto. Proprio perché elude la descrizione esplicita, la Bibbia diventa così una grande produttrice di immagini interiori, ci spinge a “vedere” interiormente quel che il testo non ci mostra. E a questo punto però la tentazione, la spinta a raffigurare visivamente, artisticamente quanto nel testo è solo alluso, diventa irresistibile. Come mai però gli ebrei hanno, diciamo così, “resistito” a una simile tentazione, hanno rispettato l’interdetto all’immagine, e i cristiani invece no?

Lo spiega bene Giovanni Damasceno, grande teologo bizantino del VII secolo: con l’incarnazione, con la venuta di Gesù Cristo, Dio si è reso visibile ai nostri occhi e noi quindi lo possiamo raffigurare in immagine: «Finché Dio è invisibile, non farne l’icona. Ma dal momento che vedi l’incorporeo divenuto uomo, fa’ l’immagine della forma umana; quando l’invisibile diventa visibile nella carne, dipingi la somiglianza dell’invisibile». Ecco la chiave per comprendere la straordinaria forza del legame fra Bibbia e arte. Le opere d’arte che nel corso dei secoli si sono profuse a trasformare in immagini le storie bibliche hanno cercato, ogni volta provvisoriamente e ogni volta di nuovo, di dipingere la somiglianza dell’invisibile.

Se dipingere l’invisibile, se raffigurare, trasformare e ridurre in immagine il mistero di Dio, è un compito impossibile, e per ciò stesso interdetto, noi possiamo però raffigurarlo indirettamente, dipingendo qualcosa che, allusivamente, lo evoca, “gli somiglia”. Ma siccome, così facendo, l’immagine sacra messa in mostra si avvicina soltanto all’invisibile di Dio, ecco che, rendendo visibile ciò che solo indirettamente somiglia al Dio invisibile, finiamo inevitabilmente ed esplicitamente per mettere invece in mostra qualcosa di noi stessi: cercando di fare invano il “ritratto” di Dio, ci facciamo quasi senza accorgercene un “autoritratto”, trasformiamo in immagine chi siamo noi. In altre parole, raccontando attraverso le opere d’arte le storie della Bibbia, raccontiamo al tempo stesso che immagine abbiamo di noi, della nostra società, rendiamo visibile il mondo in cui viviamo.

Ed ecco perché, contemplando le opere d’arte sacra del passato, non veniamo soltanto a sapere come ci raffiguravamo un tempo il mondo divino, ma anche come i nostri antenati raffiguravano sé stessi. Il rapporto fra Bibbia e arte ci rivela così l’inesauribile mistero di Dio, ma anche la verità su noi stessi, la nostra storia, di epoca in epoca. Si potrebbe obiettare che la riforma protestante ha voluto ripristinare l’antico interdetto alle immagini sacre. Ma proprio il vuoto dei templi protestanti, privi di immagini sacre, mette ancor più in risalto, visivamente, il lato invisibile dell’immagine di Dio. E in quel vuoto fa risuonare con ancor più forza il suono della Parola predicata, la potenza e la bellezza dell’Evangelo che si fa annuncio, si fa musica protesa verso il mistero di Dio. Tant’è che nei templi riformati si è sempre dato ampio spazio alla musica, al canto comunitario: anche la musica sacra si rivela così un modo per “dipingere”, ma in forma di suono, la “somiglianza dell’invisibile”.

già presidente del Centro culturale protestante di Milano






Martedì, 04 Marzo 2025

La preghiera collettiva per la salute del Papa non è pretesa di cambiare i disegni di Dio ma devoto affidamento alla sua volontà, occasione per «trarre energie di rinnovamento spirituale» per una società come la nostra segnata da troppe divisioni, abbandoni, solitudini. Lo spiega l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per vita, nel giorno inaugurale del convegno su “Fine del mondo, responsabilità e speranze” che fino a domani metterà a confronto in Vaticano scienziati di varie discipline provenienti da tutto il mondo.

La salute del Papa sta suscitando una partecipazione commovente di fedeli attraverso preghiere e iniziative spontanee di vicinanza e di affetto. Qual è il significato di questo grande movimento di popolo?

Papa Francesco sta esercitando un vero e proprio “magistero della fragilità”. Non ha paura di mostrarsi, nei suoi anni e nei momenti di malattia. È un insegnamento che vale per tutti noi. Per questo assistiamo alle enormi manifestazioni di affetto che ci parlano di una Chiesa che comprende ed è vicina.

C’è contraddizione tra la preghiera di intercessione per la salute del Papa e la scelta di affidarsi alla volontà di Dio per quanto riguarda la vita di ciascuno di noi?

Direi di no. La volontà di Dio è imperscrutabile e il Suo disegno su ognuno di noi è un mistero da decifrare e scrutare nella nostra vita. La preghiera è la risorsa più forte per unirci a Dio e alla Chiesa, per trarre energie di rinnovamento umano e spirituale. Noi sappiamo che moriremo, un giorno. Ma sappiamo anche che la destinazione finale è la risurrezione per la vita eterna. Gesù lo ha promesso. In Lui crediamo e preghiamo.

Vorrei dirlo in modo più chiaro: le nostre preghiere hanno la capacità di cambiare i disegni di Dio?

E in modo chiaro le rispondo. Non esiste una volontà di Dio per il male, il Dio di Gesù Cristo in cui crediamo manda vita, non malattie. Per questo pregare per la salute, nostra, dei nostri cari, del Papa, ci colloca in piena sintonia con il cuore di Dio. Ma siccome il male c’è, viene, noi siamo chiamati alla lotta, e la preghiera fa parte di questa buona battaglia. Altro, invece, è affermare che nella tempesta noi viviamo una prova, spesso dura, e la fede mi assicura che in questa prova ho Dio al mio fianco, perché lui per primo l’ha vissuta nella carne del suo Figlio.

Nel messaggio che il Papa le ha indirizzato ieri mattina (il testo integrale in questa pagina) in occasione del convegno organizzato dalla Pontificia Accademia per la vita si ricorda tra l’altro un passaggio della Spe salvi di Benedetto XVI in cui si spiega che la realizzazione della speranza di ogni persona può concretizzarsi solo all’interno di un “noi” di popolo. Può essere questo il senso della vicinanza espressa da milioni di fedeli per la salute del Papa?

Si vede il popolo di Dio in azione in queste settimane. Dico di più. Gli anziani, noi anziani, come papa Francesco, abbiamo un messaggio per il mondo, di sapienza, di accoglienza. La fragilità che portiamo con noi è un segno per il mondo. Il noi, di cui lei mi chiede, è l’unica risorsa possibile per contrastare divisioni, solitudini, abbandoni. Penso a quanto è importante, nella malattia, avere una famiglia vicina e dei fratelli e delle sorelle nella fede, degli amici che non ci lascino soli. Se oggi tutti preghiamo per il Papa, lui, come ha detto, si sente abbracciato. Possiamo, nelle nostre comunità cristiane, pregare ogni settimana per i malati, ricordandoli per nome.

Il Papa parla anche del dovere di ascoltare gli esperti che si interrogano sul futuro del Pianeta – come succederà in questi giorni al convegno – per arrivare a una “profonda revisione” dei nostri parametri riguardo all’antropologia e alle culture. Quali sono nel concreto gli aspetti a cui occorre ripensare per arrivare a modelli più adeguati per la nostra società?

Questo mondo che abbiamo costruito ha un grande limite: abbiamo troppe divisioni e ingiustizie, troppe diseguaglianze. Potremmo anche distruggerlo e distruggerci, invece di farlo crescere e custodirlo. Non è catastrofismo, è una terribile realtà da contrastare attraverso una alleanza dei saperi, degli scienziati, degli umanisti, per una rinascita della vita. Siamo una sola famiglia umana e abbiamo un solo pianeta. Che vogliamo fare? Questa è la domanda che ci possiamo in questi giorni di lavoro.

In questi giorni parlerete di biologia, fisica, linguistica, genetica, biologia, teologia, educazione e altro ancora. Qual è la comune situazione di crisi che lega queste discipline e c’è davvero la possibilità di uscire da questa stagnazione con un progetto coordinato?

Si. Credo fermamente che serva un sussulto di responsabilità di tutte le componenti delle nostre società. Donne e uomini di buona volontà, dobbiamo unirci. Vedo che in tanti - politici, scienziati, persone semplici - mi chiedono e hanno grande speranza verso il Papa e la Chiesa come faro e baluardo di civiltà. A questa speranza e richiesta rispondiamo, intanto con questo appuntamento, per aggregarci e aprire alla possibilità di un futuro umano. L’unico possibile.

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Lunedì, 03 Marzo 2025

Si è celebrato ieri, domenica 2 marzo, il Giubileo dei gran priori, reggenti e presidenti delle associazioni nazionali del Sovrano Ordine di Malta, che nei giorni scorsi, presso la Villa Magistrale all’Aventino, a Roma, si sono riuniti per la loro prima conferenza a quasi due anni dall’elezione del nuovo governo dell’Ordine. Guidati dal gran maestro fra’ John Dunlap i leader internazionali dell’Ordine hanno sfilato oggi in processione attraverso la Porta Santa di Santa Maria Maggiore, dove poi hanno partecipato alla Messa presieduta dal cardinale patrono dell’Ordine, Gianfranco Ghirlanda. Si trattava per per la precisione dei rappresentanti delle 50 associazioni nazionali e dei 10 priorati, oltre che dei corpi di soccorso e delle entità umanitarie dell’Ordine.

I partecipanti si sono uniti in preghiera per la salute di papa Francesco, in comunione con tutti i membri dell’Ordine nel mondo che in questo momento stanno affidando il Pontefice alle loro suppliche.

Nell’omelia il cardinale Ghirlanda ha ribadito il vero significato dell’indulgenza giubilare: «Ricevere l’indulgenza dell’Anno Santo non si riduce all’adempimento di azioni esterne prescritte, ma nella conversione del cuore, come passaggio dalle cose vane che possono essere presenti nella nostra vita e al presumerci giusti, all’umiltà di un cuore che riceve come dono la misericordia di Dio».

Al termine della celebrazione eucaristica, il gran maestro, il gran commendatore e il cardinale patrono si sono recati all’altare della reliquia della Sacra Culla, dove si sono raccolti in preghiera.

Il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, nato a Gerusalemme nella seconda metà dell’XI secolo, è soggetto primario di diritto internazionale e ordine religioso cattolico e laicale. La sua missione è testimoniare la fede e servire i poveri e i malati. Oggi l’Ordine opera principalmente nell’ambito dell’assistenza medica-sociale e degli interventi umanitari, ed è presente in oltre 120 paesi. Insieme ai suoi 13.500 membri, operano 100.000 volontari, sostenuti da circa 52.000 medici, infermieri e paramedici. Gestisce ospedali, centri medici, ambulatori, istituti per anziani e disabili, centri per malati terminali, progetti di assistenza sociosanitaria e psicologica per migranti e rifugiati. Malteser International, l’agenzia di soccorso internazionale dell’Ordine di Malta, fornisce aiuti di emergenza nei teatri di guerra e in caso di disastri naturali. L’Ordine ha rapporti diplomatici con 114 Stati, relazioni ufficiali con altri 6 Stati e rapporti a livello di ambasciatori con l’Unione europea. Ha lo status di Osservatore permanente alle Nazioni Unite ed è rappresentato nelle principali organizzazioni internazionali. Dal 1834 il governo del Sovrano Ordine di Malta ha sede a Roma.





Lunedì, 03 Marzo 2025

«Migranti, missionari di speranza». Questo il tema scelto dal Papa per la 111ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che sarà celebrata il 4 e 5 ottobre prossimi. Non ricorrerà infatti come avviene di consueto l’ultima domenica di settembre ma coinciderà con Il Giubileo del migrante e del mondo missionario, previsto nelle date indicate prima.
In una nota, il Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale spiega che il tema voluto dal Papa evidenzia il coraggio e la tenacia dei migranti e dei rifugiati, i quali testimoniano quotidianamente la speranza nel futuro nonostante le difficoltà. È la speranza di raggiungere la felicità anche oltre i confini, la speranza che li porta ad affidarsi totalmente a Dio. Migranti e rifugiati diventano “missionari di speranza” nelle comunità in cui vengono accolti, contribuendo spesso a rivitalizzarne la fede e promuovendo un dialogo interreligioso basato su valori comuni. Essi ricordano alla Chiesa il fine ultimo del pellegrinaggio terreno, cioè il raggiungimento della Patria futura.
La Chiesa ha istituito la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato nel 1914 su iniziativa di papa Benedetto XV. Sin da allora è un’occasione per dimostrare la preoccupazione per le diverse categorie di persone vulnerabili in movimento, per pregare per loro mentre affrontano molte sfide, e per aumentare la consapevolezza sulle opportunità offerte dalla migrazione. La prima edizione dela Giornata fu celebrata il 21 febbraio 1915 facendo in riferimento alle migrazioni forzate generate dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale che avrebbe generato almeno 16 milioni di profughi. Nel 1928, la Congregazione Concistoriale decise di trasferire la Giornata alla prima domenica di Avvento. Dal 2019 si celebra ogni anno nell'ultima domenica di settembre.
L’appuntamento non va confuso con la Giornata mondiale del rifugiato indetta dall’Onu e celebrata ogni 20 giugno per rendere omaggio alla forza e al coraggio di chi è stato costretto a fuggire da conflitti o persecuzioni. Si è tenuta per la prima volta a livello mondiale il 20 giugno 2001 nel 50° anniversario della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951. La risoluzione che ha introdotto la Giornata Onu è stata approvata il 4 dicembre 2000.





Lunedì, 03 Marzo 2025

Uno degli errori più gravi che si possa fare con la spiritualità è quella di confinarla in una stanza a sé stante, separata dall’idea stessa del corpo. In realtà ne fa intimamente, e verrebbe voglia di dire, completamente parte. Ci si mette in contatto con l’Assoluto anche attraverso i sensi, che dunque devono essere il più possibile puri e pronti ad accogliere la Parola di vita. Le mani, i piedi, gli occhi, la bocca, le orecchie possono e devono essere capaci di lasciare spazio alla forza dello Spirito. E del reso il nostro cuore è fatto di carne. Lo evidenzia benissimo in questa preghiera, tratta dal suo “Diario”, Dag Hammarskjöld (1905-1961), ex segretario generale dell’Onu morto in un incidente aereo, probabilmente a seguito di un attentato, mente stava per raggiungere il Congo alle prese con l'instabilità e i tumulti seguiti alla dichiarazione d’indipendenza. Premio Nobel per la pace postumo, la sua storia personale è anche occasione per riflettere su come, citando Paolo VI, la politica, se vissuta bene, possa essere la più alta forma di carità.

«Tu che sei al di sopra di noi, Tu che sei uno di noi,
Tu che sei anche in noi,
possano tutti vedere Te anche in me,
possa io preparare la strada per Te,
possa io rendere grazie per tutto ciò che mi accade.
Possa io non scordare in ciò i bisogni altrui.
Tienimi nel Tuo Amore
così come vuoi che tutti dimorino nel mio.
Possa tutto in questo mio essere volgersi a Tua gloria
e possa io non disperare mai.
Poiché io sono sotto la Tua mano,
e in Te è ogni forza e bontà.
Dammi puri sensi, per vederti...
Dammi umili sensi, per udirti...
Dammi sensi d'amore, per servirti...
Dammi sensi di fede, per dimorare in Te».







Lunedì, 03 Marzo 2025

Quando qualche “grande della terra” è colpito da una malattia importante questo fatto diventa subito una notizia. Cosa ci sia in questo interesse è difficile da dire; spesso, il calcolo di ciò che potrà accadere dopo. La malattia di papa Francesco è diversa; anche nel suo caso vi è un interesse forte, ma è soprattutto quello della gente comune, di quelle persone raccolte a pregare attorno alla statua di san Giovanni Paolo II, nel giardino del Gemelli, a chiedere la grazia della guarigione di papa Francesco a quel suo predecessore che ha ben conosciuto la sofferenza, i lunghi e ripetuti soggiorni al Gemelli, che aveva iniziato a chiamare quell’ospedale il “Vaticano numero 2”.

La catena ininterrotta di preghiera che accompagna l’evolvere della malattia di papa Francesco testimonia di una trepidazione affettuosa, intensa, come per un familiare la cui vita ci è cara. Il dolore rende umani, la malattia rende evidente il limite, il sentirsi esposti alla morte fa sperimentare la propria radicale fragilità. Nessun ruolo fa più da schermo ma, casomai, la popolarità che il ruolo ha accresciuto avvicina ciascuno a quella condizione di fragilità, fa sentire partecipi, genera un’immedesimazione: sembra quasi di sperimentare quello che quella persona, esposta come noi alla fragilità, vive, sperimenta, teme, spera. Non sappiamo come papa Francesco stia vivendo queste giornate; sappiamo solo quello che filtra dalle notizie ufficiali, che sembrano voler conservare nell’opinione l’immagine dell’uomo pubblico: il Papa prega, lavora, incontra i collaboratori... Continua a “fare il Papa”!

Ma chi ha attraversato vicende simili a quella che sta vivendo papa Francesco sa che c’è molto altro nelle sue giornate. C’è il dolore fisico, quando questo sembra invadere tutto di noi, tanto da non lasciare nella coscienza spazio per vivere il molto di più che ciascuno è, rispetto al suo corpo malato. C’è l’esperienza della dipendenza in tutto, della propria intimità violata, della libertà cui occorre rinunciare per fidarsi di chi si prende cura di noi. C’è la rinuncia a quelle occupazioni quotidiane che, importanti o meno che siano, costituiscono la nostra normalità, coinvolgono altri, incidono anche sul loro lavoro, influiscono sulle nostre responsabilità. E quando la malattia espone al rischio della morte, quello è il momento in cui tutta la vita ci passa davanti per essere riconsegnata, in quel salto nell’ignoto che solo la fede rischiara, trasformandolo in compimento, nell’attesa di un abbraccio nel quale ritrovare, purificato, tutto ciò che in quel momento lasciamo. E c’è anche tanto altro: la paura, le domande che non finiscono mai, le lacrime – le nostre e quelle delle persone care – e i progetti improvvisamente interrotti, e la preghiera che salva dalla disperazione, e l’abbandono… La vicinanza di chi ci vuole bene motiva a lottare: dobbiamo farlo anche per loro, e questo pensiero ci aiuta a non lasciarci andare, a non arrenderci al male.

Chissà se questo è quello che vive anche papa Francesco, il molto di più che le cronache dei giornali non possono raccontare perché troppo intimo, troppo normale, troppo simile a quello che ciascun malato sperimenta. Quando sento le notizie che riguardano l’andamento della malattia di papa Francesco, quando vedo le immagini del Gemelli, rivedo me stessa: la soglia di quel Policlinico l’ho attraversata più volte, in quell’ospedale ha soggiornato a lungo. Credo di poter immaginare ciò che sta vivendo il Papa, mi sento partecipe della sua vita da malato. In questi giorni papa Francesco mi è ancora più caro, e prego perché tra pochi giorni anche lui possa dire a sé stesso di aver ricevuto un miracolo. Quello della guarigione lo faranno soprattutto la medicina e la professionalità di un personale molto qualificato. Ma c’è un altro miracolo che nessuno, tranne lui, potrà avvertire: quello di aver sperimentato che c’è un dolore che rende la nostra umanità più intensa e consapevole; che c’è un Amore che ci sostiene e ci fa credere alla bellezza della vita anche mentre attraversiamo l’inferno.





Sabato, 01 Marzo 2025

«Tutto il pontificato di Francesco è un inno alla vita. E il letto del Policlinico Gemelli in cui il Papa è ricoverato diventa una cattedra del dolore che è parte integrante del suo magistero, ma che al tempo stesso invita la Chiesa e il mondo intero alla fiducia e alla speranza». Il vescovo di Cassano all’Jonio, Francesco Savino, sa bene quanto il Vangelo chiami ad abbracciare chi è toccato dalla malattia e dalla sofferenza. Prima di essere chiamato proprio da papa Bergoglio a guidare la diocesi calabrese di cui è pastore dal 2015, aveva voluto a Bitonto l’Hospice centro di cure palliative “Aurelio Marena” per pazienti in fase avanzata o terminale di cancro. L’aveva aperto l’8 luglio 2007 nella città pugliese dove era parroco e rettore del santuario dei Santi Medici che custodisce la reliquia dei venerati taumaturghi Cosma e Damiano. «In una società che esorcizza tutto ciò che è fragile perché devono prevalere la prestanza e la forza fisica - spiega il presule - il credente è esortato a vedere nel dolore un luogo teologico: perché è uno degli spazi in cui facciamo esperienza dell’incontro con Dio». Una pausa. «La malattia è un Getsemani che rimanda a quell’orto degli ulivi di Gerusalemme dove il Signore tocca con mano l’angoscia, il tormento, la debolezza, la solitudine umana. Ed è nel Getsemani che Gesù chiede agli apostoli di vegliare con lui. Ecco, anche noi siamo tenuti a vegliare accanto ai malati. Il che significa stare al loro fianco, tenere la loro mano nella nostra mano, offrire una carezza».

Dal 2022 il vescovo Savino è vice-presidente della Cei per l’Italia meridionale. «Tutta la Chiesa italiana è stretta intorno al letto di papa Francesco. Un popolo che, con le mani giunte oppure in ginocchio o ancora in atteggiamento di adorazione, prega il Signore Risorto perché giunga la sua guarigione. Lo ha testimoniato la veglia che il nostro cardinale presidente, Matteo Zuppi, ha presieduto nella chiesa di San Domenico a Bologna o il Rosario che ogni sera viene recitato in piazza San Pietro».

?Eccellenza, come vive la malattia del Papa?

?«Due grandi sentimenti abitano in me. Il primo è quello della preoccupazione. Mai, come in questo frangente della storia dell’umanità e della Chiesa, abbiamo ancora tutti bisogno di papa Francesco. Un Papa coraggioso e profetico con il suo magistero e i suoi gesti. Diceva il grande don Tonino Bello che serve rinunciare ai gesti del potere ma non al potere dei gesti. Spesso le azioni valgono più di mille parole. Francesco ha fatto sintesi tra le ragioni di Dio e le ragioni della storia, tra la fedeltà al cielo e la fedeltà all’umano. Poi l’altro sentimento che avverto è quella della speranza. Speranza nella ripresa del Papa, speranza nella sua capacità di guida».

Un movimento orante sta accompagnando la degenza.

«La speranza è figlia della preghiera. Le nostre diocesi, le nostre parrocchie, tanta gente comune stanno invocando il Signore, anche attraverso l’intercessione della Vergine e dei santi, perché il Padre celeste possa anzitutto confortare il Papa nella difficile prova che sta attraversando, e poi perché lo faccia uscire dall’ospedale. Mi piace pensare che due tipologie di mani si stanno incrociando intorno a Francesco: le mani rivolte al cielo di chi prega per lui; e le mani dei medici che operano sul suo corpo e che lo stanno curando».

Come sostenere un malato, soprattutto se in condizioni critiche?

«Qualunque sia il suo quadro clinico, tanto più quando la guarigione è remota, è necessario stargli vicino. In questi giorni ho avuto un incontro su problematiche legate alla sanità, e ai medici ho proposto l’“etica della sedia”: vuol dire, appunto, essere seduti al fianco al paziente. Assieme alle cure e ai farmaci, il malato ha necessità di una presenza, di un sorriso, di una parola, di un gesto che dice vicinanza ed empatia. Vale per il personale sanitario. Vale per ciascuno di noi».

Il Papa ha chiesto trasparenza sulle sue condizioni di salute, quasi a spronare al coraggio nella malattia. Il tutto mentre in Italia si tenta di legalizzare il suicidio assistito.

«Tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia, c’è una terza via su cui anche papa Francesco è intervenuto più volte: è quella delle cure palliative che implica un approccio globale del malato. Nel rispetto di chi la pensa diversamente, dico che il Papa ci sta ancora una volta mostrando la sua coerenza, intesa come obbedienza alla vita. La vita non va mai sprecata o banalizzata. E va vissuta in tutte le sue espressioni, fino alla sua naturale conclusione».

Intanto continuano le insinuazioni mediatiche su di lui e sul futuro della Chiesa.

«Sono nauseato dalle ripetute speculazioni: le dobbiamo respingere al mittente. Si vuole confondere la verità con la menzogna. Ma, come insegna il Vangelo di Giovanni, è la verità che rende liberi. Non c’è libertà senza verità. Sono vergognosi certi interventi che non mostrano alcun rispetto per il Papa: è il caso delle voci sulle dimissioni. Lasciamo che Francesco possa superare questo momento. E lasciamo al futuro le decisioni che con saggezza e discernimento la Chiesa ha sempre preso in modo opportuno».

Il Giubileo con il Papa “lontano”. Come affrontarlo?

«Francesco ha avuto l’intuizione che l’Anno Santo ci chiamasse a essere “pellegrini della speranza”. Alla scuola di Abramo che ci invita alla “spes contra spem”, a sperare con ogni speranza, dobbiamo essere saldi nel paradigma della speranza».

Assume un volto diverso la Quaresima che inizia mercoledì?

«Sarà un’ulteriore occasione per essere ancora più vicini a papa Francesco e rinsaldare il legame fra preghiera, speranza e vigilanza».





Sabato, 01 Marzo 2025

Medici, infermieri, operatori sanitari, personale tecnico e amministrativo del Policlinico Universitario e dell’Ospedale “Gemelli Isola” di Roma: insieme hanno celebrato oggi il Giubileo attraversando la Porta Santa della Basilica di San Pietro, dopo il pellegrinaggio partito da Piazza Pia alle ore 10 guidato dall’assistente spirituale del Gemelli, don Nunzio Currao.

«È un grande dono per tutti noi poter celebrare oggi l’Eucaristia nella Basilica di San Pietro, il centro e il cuore della cristianità» ha detto nell’omelia della Messa il vescovo Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, «il nostro pensiero va in primo luogo al Santo Padre Francesco che pensavamo di poter incontrare questa mattina in Aula Paolo VI per la catechesi giubilare, ma ci ha sorpreso venendo lui da noi al Policlinico Gemelli. Il nostro pensiero va in primo luogo a lui e la nostra preghiera si innalza in forma ancora più intensa dalla sede del successore di Pietro, perché Papa Francesco possa riprendersi pienamente e in tempi brevi. Conosciamo l’altissima competenza dei nostri medici e sosteniamo anche loro con la preghiera perché possano fare le scelte terapeutiche più appropriate ed efficaci. Da tutto il mondo giunge incessante al Santo Padre il balsamo più prezioso: la preghiera. Anche per questo non abbiamo mai perso la speranza che il Pontefice possa superare questo difficile momento e riprendere a pieno e con tutte le energie necessarie il suo alto ministero apostolico».






Venerdì, 28 Febbraio 2025

Mi accorsi che piangeva, mentre le voltavo le spalle perché mi abbottonasse il grembiule per andare a scuola. Ero solo un bambino. «Mamma, è successo qualcosa?» le chiesi, preoccupato. «II Papa è grave» singhiozzò. Non compresi. Il papa gravemente ammalato era Giovanni XXIll. Lei, la mia mamma, come milioni di persone, semplicemente lo amava. Donna di paese, povera, con cinque figli da sfamare, del suo pontificato non sapeva quasi niente. Semianalfabeta, di certo non aveva letto le encicliche da lui emanate. Sapeva che era il Papa e le bastava. Di lui si fidava. Dal Papa buono si sentiva protetta. Quell’aria, poi, da vecchio parroco di campagna la rassicurava. Nella loro semplicità i poveri, i semplici, attribuiscono al Papa anche poteri che non ha. Di quella mattina di fine maggio, di tanti anni or sono, ricordo tutto: il suo volto, che pochi anni dopo non avrei più rivisto, il posto dove eravamo, il tono lamentoso della voce, le guance che tentava di asciugare.
Si può piangere per il Papa, ammalato, incompreso, o inascoltato che sia? È giusto pregare perché il Signore ce lo conservi ancora? In fondo è una persona anziana e sofferente. Certo che si può, anzi, si deve. Sulle spalle di Francesco, ci siamo tutti, credenti e non credenti. Nessuno più di lui brama la pace per questa povera e bistrattata umanità. Nessuno più di lui la implora presso il trono del buon Dio. I credenti lo sentono vicino, gli parlano, gli aprono il cuore come si fa con i santi in paradiso. Lasciateli stare, non vi intromettete. Il popolo santo di Dio ha conservato una sensibilità particolare per captare la voce dello Spirito. Mettiamoci in ascolto. Milioni di persone avrebbero come unico desiderio quello di poterlo vedere, stringergli la mano, accarezzarlo, essere da lui benedetti.
In questi anni tanti lo hanno stiracchiato di qua e di là. Troppo progressista, ancora troppo tradizionalista. Fughe in avanti, rigurgiti nostalgici. Lo dico sorridendo: se potessimo mettere insieme i “consigli” che da ogni parte del mondo gli abbiamo suggerito, la biblioteca vaticana non basterebbe a contenerli. La Chiesa è bella anche per questo, nella nostra antica e grande casa c’è posto per tutti, le opinioni sono benvenute, le idee hanno diritto di cittadinanza, i consigli sono accolti. Nessuno, però, osi pensare di essere l’Illuminato di cui non si possa fare a meno. Siamo tutti inutili servi. Se non ci fosse il Papa resteremmo ad accapigliarci per i prossimi millenni oscurando la luce del Vangelo. A lui, non a me, è affidato il timone della Nave; su di lui, non su di te, incombe il peso schiacciante della Chiesa. Ma può un uomo, anziano, sofferente, fare fronte a tanta fatica in un mondo in cui gli anziani non suscitano troppa simpatia?
L’esempio lampante lo abbiamo sotto gli occhi. Dirgli grazie è un dovere. Sostenerlo in ogni modo, una grazia. La preghiera non è un toccasana ma nemmeno un’illusione. È comunione con Dio, con i fratelli, con l’umanità, con il Creato, con i morti. È respiro dell’anima, apertura della mente, riposo del corpo. Di Dio non bisogna aver paura. Cercare il suo volto è averlo già intravisto. Nessun imbarazzo, quindi, a insistere nel chiedergli la guarigione di Francesco, sempre rimettendoci alla Sua volontà. Nessun timore nel parlargli cuore a cuore. Se solo al Papa potesse arrivare il giornale che abbiamo tra le mani, vorrei potergli dire: «Forza, Francesco! Non arrenderti, non cedere, resisti. Tu ci sei prezioso. Le nostre preghiere e quelle dei tuoi prediletti, i poveri, non sono solo parole, ma gemiti accompagnati da lacrime sincere. E tu, meglio di chiunque, sai che piange solo chi veramente ama».





Venerdì, 28 Febbraio 2025

«Il futuro non verrà costruito con la forza, nemmeno con il desiderio di conquista, ma attraverso la paziente applicazione del metodo democratico, lo spirito di consenso costruttivo e il rispetto della libertà». Questa citazione di Alcide De Gasperi, figura di spicco del cattolicesimo democratico, racchiude la sua visione di politica e governance che oggi avrebbe ancora tanto da insegnare. La firma del verbale e la consegna di 24 plichi sigillati con la ceralacca contenenti oltre 22mila documenti. È il rituale che oggi a Roma ha accompagnato la sessione di chiusura dell’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù eroiche, fama di santità di Alcide De Gasperi (1881-1954). Fra i fondatori della Democrazia Cristiana, è stato otto volte presidente del Consiglio fra il 1945 e il 1953, traghettando l’Italia dalla monarchia alla Repubblica, affrontando le trattative di pace dopo la fine della seconda Guerra mondiale, gestendo la fase riformista della ricostruzione post-bellica. «Padre di famiglia e laico», come viene indicato nei documenti del processo. E padre dell’Italia repubblicana, statista lungimirante che ha contribuito a gettare le basi dell’Europa unita.


Un impegno sociale e politico il suo, guidato da un’incrollabile fede nella Provvidenza. È stato «un politico mosso da una profonda spiritualità e da una visione cristiana della vita e del servizio pubblico - ha affermato il cardinale vicario di Roma Baldo Reina che ha presieduto il rito nella Sala della Conciliazione del Palazzo Apostolico Lateranense -. La granitica fede fu per lui una guida costante che ispirò ogni sua scelta e azione politica. Non si limitò a professarla nel privato, ma la tradusse in un impegno concreto nella costruzione di una società giusta e solidale».


Nato il 3 aprile 1881 a Pieve Tesino, piccolo paese nel Trentino all’epoca sotto l’Impero austro-ungarico, da giovane Alcide De Gasperi subì la persecuzione del regime fascista. Fu arrestato nel 1927 e condannato a quattro anni di reclusione, ottenendo successivamente la grazia. Visse per anni in condizioni economiche precarie, trovando rifugio presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. «Uno dei tratti distintivi del suo carattere era la capacità di affrontare le difficoltà con serenità e speranza - ha proseguito il porporato -. La sua visione dell’Europa, fondata sulla cooperazione tra i popoli, rifletteva un approccio inclusivo e lungimirante, in netto contrasto con le divisioni nazionalistiche che avevano segnato il continente nei decenni precedenti. Per lui, il confine non era una barriera divisoria, ma un ponte tra culture diverse».


Parlamentare in Austria nel 1911 fra le fila dei Popolari, aveva fatto parte in rappresentanza della Dc del Comitato di liberazione nazionale. Padre costituente, rimase in Parlamento fino al 1954, anno della sua morte avvenuta il 19 agosto nella sua casa in Val di Sella (nel Comune di Borgo Valsugana in Trentino) dove amava trascorrere lunghi periodi con la famiglia. È sepolto a Roma, nel portico della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura.


Sottolineando la capacità dello statista di esercitare «la politica con senso di giustizia e rettitudine», il cardinale vicario di Roma ha affermato che «l’eredità politica di De Gasperi è ancora oggi oggetto di riflessione per il suo approccio pragmatico, la sua capacità di mediazione e la sua visione strategica». La sua linea politica costituisce un’eredità importante «in un momento storico in cui si avverte la necessità di leader credibili e coerenti - ha concluso il cardinale Reina -. È un modello attuale, capace di offrire insegnamenti validi per le persone impegnate in politica e nel sociale. La sua eredità spirituale e politica continua a essere un faro per le future generazioni, dimostrando che l’integrità, la dedizione e il senso del dovere possono lasciare un segno indelebile nella storia di un Paese».


Al termine della cerimonia particolarmente commosso è apparso Paolo Catti De Gasperi, nipote dello statista. Essere il nipote di un uomo sulla via degli altari rappresenta «una grossa responsabilità», ha dichiarato, senza nascondere l’emozione per la chiusura della fase diocesana della causa, «un risultato che la famiglia aspettava silenziosamente da molto tempo». La causa diocesana era stata aperta a Trento nel 1993. Il prefetto del Dicastero delle cause dei santi, il cardinale Marcello Semeraro, dopo aver ottenuto l’assenso sia dell’arcivescovo di Trento, sia del cardinale vicario per la diocesi di Roma, ha trasmesso il rescritto concedendo il trasferimento della competenza del foro alla diocesi di Roma. Postulatore della causa di beatificazione e canonizzazione è Paolo Vilotta, al quale sono stati consegnati gli atti processuali, in doppia copia conforme, chiusi in contenitori sigillati, da trasmettere al dicastero vaticano.


Alla cerimonia hanno partecipato, tra gli altri, il cardinale decano Giovanni Battista Re, che da tempo approfondisce la figura del servo di Dio, e l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini, che è stato esponente della Democrazia Cristiana. Per l’ex vice presidente del Consiglio dei ministri, Angelino Alfano, attuale presidente della Fondazione De Gasperi, nata nel 2022 per promuovere la causa, «in un tempo che grida l’urgenza di testimonianza cristiana al servizio pubblico, la vita e la fede di De Gasperi continuano a illuminare come un faro il cammino di chi ha voglia di dedicarsi alla politica. Ha lasciato un’impronta indelebile nella storia spirituale del nostro Paese e dell’Europa».?





Venerdì, 28 Febbraio 2025

Assistiamo ad una rivoluzione mondiale ognuno a casa propria, illudendoci che non succederà niente e che tutto ritornerà come prima, a quelli che riteniamo fossero i tempi d'oro. Ed era invece la nostra giovinezza, se ora siamo anziani, o la favola che ci raccontavano da bambini sparita nelle nebbie degli anni, se siamo giovani. Dobbiamo avere il coraggio di guardare al mondo così come ci si presenta e nello stesso tempo rivedere quali sono le cose primarie alle quali non possiamo rinunciare, quali sono i nostri doveri in una società che ci appartiene, dove siamo tenuti a dare la nostra opera perché migliori.
Ciò che sembra mancare è la consapevolezza che il mondo siamo noi e che nessuno ci aiuterà se non cominciamo a farlo noi stessi. Il primo compito è quello di guardarsi dentro e vedere cosa c'è da usare, da rendere più in armonia con i tempi e da giocare sul terreno non solo personale, ma comune. Allo stesso modo non saranno le armi che mandiamo ai popoli in guerra che decideranno la loro sorte, ma le idee, i principi di una civiltà moderna, la coscienza politica, l’impegno morale, l'istruzione che darà un futuro ai popoli giovani che entrano oggi nell'esperienza stimolante di un mondo globale. E l'Europa sembra perdere colpi, come un motore invecchiato, e forse incomincia a rendersi conto che, per esportare i risultati del suo cammino, bisogna anche non averli dimenticati o perduti.
Ci sono certe periferie di città che sono diventate, in ogni senso, terre di missione. Un prete, alcuni giorni fa, diceva che nella sua parrocchia aveva dato inizio ad una scuola di educazione civica dove si insegna anche quale significato ha il sedersi a tavola e mangiare con i propri familiari, dove incomincia la libertà personale e quale è il suo confine naturale e quello della legge. Cosa si può sopportare e dove invece è giusta una posizione entro i confini del diritto. Con sua sorpresa egli vedeva che ogni età è buona per incominciare, se si rinuncia alle sole critiche e recriminazioni.
A questo proposito ci sono alcune lettere di De Gasperi scritte a sua moglie quando, appena uscito di prigione, non trovava lavoro e doveva passare inosservato tra la gente senza dire proprio nome, quasi fosse un galeotto. «Mia cara - scrive a Francesca quando vive solo a Roma non essendo in grado di farsi raggiungere dai suoi, perché privo di beni materiali -, eccomi qua nella nuova pensione di famiglia. Di famiglia c'è veramente poco, se non la necessità di starsene pigiati attorno ad un tavolo con le due sorelle padrone di casa, un avvocatino, una signora anziana, un'altra con un figlio studente ed un medico. Gente che non so da che parte vengano, né loro sanno di me: l'unico vantaggio, appena mangiato me la svigno e me ne vado in fretta, ma quanti noviziati devo ancora fare, ai miei verdi anni! Oggi è una giornata resa gaia da un raggio di sole: Jacini mi annuncia la traduzione dal tedesco di un'opera storico-bibliografica, il lavoro lo farei io, naturalmente anonimo. Potrei guadagnare 8 lire a pagina. Capisci, mogliettina mia, se la cosa va, dopo un po' di esercizio, posso arrivare a tradurre anche dieci pagine al giorno; ma se fossero anche cinque o sei per intanto sarei a posto. E poi tutto è incominciare, ringrazio il buon Dio che non mi abbandona. Intanto leggo Byron con una collega di pensione che è maestra di inglese e imparo a dattilografare nello studio di Spataro. Il guaio è la sera perché in camera fa freddo e non posso trattenermi a studiare, allora esco per il mio sobborgo e talvolta per ripararmi finisco al cinema, e lì ci rimetto i denari che risparmio non bevendo vino! Bell'economia, vero?». Aveva 47 anni, una vita di grandi prospettive dietro di sé ormai bruciata, un presente duro ed un futuro tutto da afferrare con le proprie qualità usando resistenza fisica, fiducia e grande speranza.





Venerdì, 28 Febbraio 2025

Questo intervento di Maria Romana De Gasperi, figlia dello statista Alcide, fa parte della raccolta scelta delle sue rubriche apparse su Avvenire per oltre vent'anni e riunite nel volume Mio padre, Alcide, pubblicato nella collana Pagine Prime di Avvenire e Vita e Pensiero.

Sella di Valsugana, 1943. De Gasperi vi aveva trascorso qualche giorno di riposo fuori stagione per riprendersi da un esaurimento che gli avevano causato il troppo lavoro, la sua sensibilità colpita dalla politica condotta dal fascismo e il suo essere cosciente di non poter fare nulla per arginare gli errori.

Una cartolina postale inviata alle sue bambine il giorno prima del ritorno a casa dice: «Ultimo saluto da qui. Dunque addio monti dirupanti sulla valle, come se la volessero cingere d’assedio; addio nudi boschi di castagni che spogli e secchi paiono di lontano culture di stuzzicadenti; addio vigneti che si direbbero seminagioni di pali, graticole cinte da muri entro i quali, come segno di spezzettamento della proprietà, si vedono centinaia di casottini che da quaggiù paiono tabernacoli di una Via Crucis che sale verso l'altipiano: e sono in verità la Via Crucis di codesti poveri contadinelli che salgono i serpeggiando con la gerla pesante».

«Addio pettirossi e cinciallegre che sul rami secchi aspettate l'ombra delle fronde per ricovero o per fare il nido; addio grilletti filosofi; addio trote del Brenta che, scendendo per lo specchio argentato del canale, siete insidiate e prese da bande di monelli che si gettano in acqua seminudi».

«Oggi ancora soffia gelato il vento, ma quando torneranno le mie bambine, le montagne rivestiranno il manto verde, i vigneti distenderanno i festoni dei loro pampini, i filosofi grilli saranno protetti dell'erba folta, gli uccellini dalle fronde spesse, allora andremo lassù assieme, dove non ci sono ambulatori, né ospedali, dove nessuno muore. Abbracci, papà».

E l'unico a morire a Sella fu proprio lui. Ma quanto lontana questa poesia dalla nostra realtà. La burocrazia si è sostituita al buon senso: per tagliare il proprio bosco ci vogliono infiniti permessi e carte, i prati non vengono sfalciati perché non sono in piano, i pascoli non servono più perché gli armenti vengono serviti direttamente nelle stalle e i “casottini” sono scomparsi mangiati dai boschi.

Resta il fascino dei grandi silenzi, il volo degli uccelli e il timido passo dei caprioli che in questa stagione fuggono il cacciatore. E mentre noi saremo portati ad una malinconia di ricordi, mio padre invece aveva sempre presente, con la realtà del suo tempo, il futuro. Mai lo abbiamo sentito disperare per ciò che il suo mondo mano a mano perdeva, al contrario egli aveva una grande speranza per il domani.

La sua vita fu quasi sempre divisa in eguale misura da una visione poetica delle cose e l'accettare o il governare, quando ne fu il tempo, con forza la realtà quotidiana: un equilibrio tra l'ispirazione e la tensione al bello e al buono e la lotta costante è dura con chi voleva distruggere il nostro paese invece di edificarlo.

Soprattutto era la sua fiducia instancabile che niente va mai perduto, che le cose e i tempi cambiano, non distruggono, che il futuro è nella mente di Dio, ma anche nelle mani dell’uomo.

Oggi che il nostro Orizzonte si è immensamente allargato e che i problemi di chi abita un piccolo centro vanno sempre più assomigliandosi a quelli di chi vive a New York o a Tokyo, dobbiamo essere pronti ad affrontare insieme il futuro anche senza togliere al nostro spirito il respiro di una poesia.





Venerdì, 28 Febbraio 2025

Dallo scorso 8 febbraio, Gorizia accompagna la città slovena di Nova Gorica nell’esperienza della Capitale europea della cultura per il 2025. Un percorso a cui partecipano con un ruolo da protagonista e con una serie articolata di iniziative le Chiese di Gorizia e Koper.

Il programma dei vari momenti che verranno proposti alle comunità ma soprattutto lo spirito che ne ha segnato la definizione, sono stati illustrati mercoledì scorso nella cornice della Sala del ‘700 della chiesa di Sant’Ignazio nel capoluogo isontino alla presenza, fra gli altri, dell’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, e del direttore di Avvenire, Marco Girardo.

Nel suo intervento iniziale, Redaelli ha voluto evidenziare il messaggio che dal territorio isontino giunge all’Europa in un momento non semplice per il Vecchio Continente. «Se non ci fosse l’Europa – ha sottolineato l’arcivescovo – saremmo ancora divisi da una rete, avremmo ancora paura a passare di qua e al di là del confine saremmo ancora bloccati da timori e rancori». Certamente per ridare slancio ai valori europei non basta qualche riflessione e qualche suggestione ma «occorre riprendere continuamente i fili di ciò che ci unisce e non sono solo i soldi e i commerci, ma la cultura, l’arte, la poesia, la musica e anche la vita quotidiana di famiglie, di uomini e donne come noi a prescindere dalla lingua, dalla mentalità, dalla religione».

I temi del confine, della memoria e della pace sono stati al centro della riflessione proposta dal direttore di Avvenire, Marco Girardo. «La pace – ha evidenziato il relatore – si cerca lavorando per immaginare creativamente una via d’uscita dal labirinto del confine, uno scarto capace di sbloccare la situazione. È solo la capacità di cambiare la dinamica imposta da chi mette inizio al conflitto che può ribaltare la prospettiva».

E proprio dalla narrazione quotidianamente proposta ai lettori da tante parti del mondo dai giornalisti del quotidiano cattolico emerge la certezza che «chi, come volontario o componente dei corpi civili di pace o mediatore e mediatrice, continuamente frappone il suo corpo con un gesto concreto di pace, superando la logica della contrapposizione, crea le condizioni per preservare l’umanità in un contesto disumano e disumanizzante».

«Accanto alla storia – ha concluso – l’esperienza dimostra che l’impegno per la pace contiene una profonda sapienza umana: testimonia che la guerra non è qualcosa di cui parlare in astratto ma è sempre un vissuto drammatico di persone, prime vittime della violenza bellica. L’impegno umanitario è un investimento indispensabile per preparare la ricostruzione sociale, umana, economica, materiale dei Paesi in guerra».

Sono state quindi presentate alcune delle numerose iniziative predisposte dall’arcidiocesi di Gorizia in collaborazione con la diocesi di Koper. Ai valori dell’Europa sarà dedicato in particolare un ciclo di incontri il primo dei quali vedrà giovedì 20 marzo la presenza del cardinale José Tolentino de Mendonça, nella duplice veste di prefetto del Dicastero vaticano della cultura edi poeta in lingua portoghese: un momento per il quale sono stati coinvolti i ragazzi delle scuole cittadine e che sarà preceduto dall’inaugurazione della rinnovata sede dell’Archivio storico diocesano.

In programma, poi, accanto a momenti curati anche dalle associazioni e gruppi diocesani, la proposta di alcune mostre per evidenziare le radici della Chiesa di Gorizia con la valorizzazione, ad esempio, nel nuovo allestimento, del tesoro del Duomo.

Al tema del confine sono dedicate una serie di pubblicazioni mentre un’attenzione particolare viene data ai Cammini che permettono di conoscere il territorio e il suo significato religioso e umano: fra essi, quello transfrontaliero da Aquileia a Sveta Gora-Monte Santo e il percorso tra i luoghi della carità.

Ad accompagnare tutte le iniziative sarà un logo realizzato da Serena Cavalli, vincitrice di un concorso di idee cui hanno partecipato gli studenti del locale liceo artistico “Max Fabiani”.






Azione Cattolica Italiana - Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla - Atto normativo

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