Uno scricciolo di corporatura, un’aquila maestosa nella scrittura, una colomba ferita quando parla della sue radici armene, e dalla voce quasi sommessa dell’inizio passa in crescendo al tono forte e volitivo della denuncia.
Antonia Arslan si presenta nella chiesa di Gavassa la sera conclusiva del Festincontro, lunedì 12 giugno. La introduce l’amica Maria Chesi, ma anche il presidente di Ac Andrea Cavazzoni nel finale ci tiene a coccolarla, ringraziandola con parole affettuose. Difficile in effetti non voler bene a questa scrittrice e saggista laureata in archeologia, che ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova; tanto più sapendo dei suoi venti giorni di malattia e coma, raccontati da lei stessa per Rizzoli, nel 2010, in uno dei suoi fortunati libri, “Ishtar 2. Cronache dal mio risveglio”, dove Ishtar 2 è il nome del reparto di Rianimazione in cui fu ricoverata.
Donna coraggiosa e affabile, comincia a trattare il tema affidatole, “Dal genocidio alla speranza”, partendo proprio dalla definizione adottata dall'Onu nel 1948, secondo cui per genocidio si intendono “gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.
Una parola d’autore, spiega l’ospite, coniata dall’esperto Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, che la inserì per la prima volta nel 1944 in un suo testo, dopo uno studio della specialissima forma di sterminio degli armeni che durava da ventidue anni. Lemkin, la cui famiglia venne deportata ad Auschwitz e che riuscì ad imbarcarsi per gli Stati Uniti, trovando ospitalità a Yale, avvertì l’esigenza di un neologismo per descrivere uno dei peggiori crimini contro l’umanità; lo pensò mettendo espressamente in relazione – a lungo inascoltato - la tragedia del popolo armeno con quella degli ebrei, e per costruirlo si servì del greco (ghénos razza, stirpe) e del latino caedo (uccidere).
Antonia Arslan, sia pure per cenni, ripercorre la pianifica zione del genocidio perfetto, compiuta a tavolino dai Giovani Turchi in base al principio di “omogeneizzazione” della Turchia a danno delle minoranze e tramite le armi, mostrando nella scientificità e nelle malefiche astuzie ingannatrici utilizzate dai carnefici il doloroso parallelo con la Shoah. Già alla fine dell'Otto cento, dice la relatrice, i giornali della Germania, che ambiva a diventare il partner più importante della Turchia, parlavano degli armeni come degli “ebrei dell’impero ottomano”.
Così, dopo avere avviato già nella primavera del 1909 le prove generali di quella follia che il popolo armeno chiama Metz Yeghern (il Grande Male, con un numero di vittime vicino a due milioni di persone), il 24 aprile 1915 i Giovani Turchi iniziarono a concentrare all’interno dell’Anatolia e a massacrare tutti gli esponenti dell’élite culturale armena, seguiti dagli uomini dai 18 ai 60 anni, arruolati e soppressi nell’esercito, quindi da donne, vecchi, bambini e dai pochi uomini validi rimasti (coi loro mestieri tipici, tra cui la scrittrice ricorda l’orologiaio, il panettiere, il fabbro), deportati e spesso uccisi durante la marcia. L’operazione di massa venne mascherata come uno spostamento di persone da ipotetiche zone di guerra. Quando nel 1923 sale al potere il presidente Atatürk, trasformando in repubblica l’impero ottomano e cancellando il ruolo del sultano, che viene esiliato (e morirà a Sanremo, annota la Arslan), sul genocidio armeno scende una coltre di silenzio che, con la complicità di Gran Bretagna, Francia e Italia, durerà sessant’anni.
Furono molte le bambine e le ragazze armene che, per il fatto di essere alfabetizzate sin dall’infanzia, vennero strappate a forza dalle loro case e inserite in famiglie turche.
Una vicenda esemplare, che ha scoperchiato una catena di storie simili, è stata narrata dall’avvocatessa Fethiye Çetin nel commovente libro “Heranush, mia nonna”: l’anziana, quando ormai era prossima alla morte, spinta dal desiderio di ritrovare i suoi cari, rivelò l’origine armena e il suo vero nome alla nipote Fethiye, raccontandole di essere stata deportata nel 1915, quando aveva dieci anni, dal suo villaggio di religione cristiana; adottata da un capitano dell’esercito turco, la donna iniziò una nuova vita da musulmana con il nome di Seher, mentre la sua famiglia subiva la diaspora e in parte riparava in America.
Un algoritmo affidabile calcola che circa un quarto degli attuali turchi sarebbe di sangue armeno. E i processi di ricerca ancora in atto sono innumerevoli, benché oggi risultino come “sospesi” nella grave crisi democratica attraversata dalla Turchia di Erdogan, che non potrà guarire fino a quando si attesterà su una posizione ufficiale di negazionismo.
Secondo la scrittrice la disumanizzazione culminata nei genocidi del secolo scorso è stata preparata da tutta la filosofia dell'Ottocento: lo sfondo è sempre quello di una lotta tra il bene e il male che “non è solo memoria, ma – ammonisce Arslan – si svolge anche all’interno di ciascuno di noi”.
La speranza, conclude, è quella temprata di un popolo resiliente che si è visto confinare in una zona montuosa del Caucaso, perdendo tutte le pianure che aveva tranne quella davanti al monte Ararat, che pure non gli appartiene e può solo ammirare in lontananza.
È quella seminata dai tanti “Giusti”, molti ignoti, che anche nella tragedia armena non sono mancati. È quella di Fethiye e di molti turchi che riscoprono, insieme alle origini armene, un passato di cui prendere consapevolezza per non tornare ad avvantaggiare il male nella sua lotta sempiterna con il bene.
Edoardo Tincani