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Due persone, la sera di domenica 9 giugno al Festincontro, a dare testimonianza di un grande uomo.
Francesco Puglisi, insieme a Gaetano oggi deceduto, avevano accolto loro Papa Francesco di fronte alla casa dove Don Pino era stato ucciso 25 anni fa per ordine dei mafiosi Graviano. Abitazione diventata oggi la casa-museo Padre Pino Puglisi che il Pontefice aveva visitato e che accoglie ogni anno migliaia di pellegrini in quelle quattro stanze povere in cui il prete era cresciuto e viveva anche da parroco di Brancaccio.
Su quel marciapiede fu trovato il corpo del prete di fronte al civico 5 di piazza Anita Garibaldi che oggi si chiama piazzetta Beato Padre Pino Puglisi. Lì l’abbraccio commovente tra il Papa e i fratelli Puglisi che a Bergoglio avevano chiesto di benedire due progetti voluti fortemente dal centro Padre Nostro fondato da don Pino: l’asilo nido di Brancaccio “ultimo sogno di Don Puglisi” e la piazza per il quartiere “dimenticato” di Palermo.
Accompagnerà Francesco Puglisi anche Maurizio Artale, presidente del Centro “Padre Nostro” centro desiderato e fondato da Padre Pino nel 1991 che ha per scopo – come recita lo statuto – “di coniugare la evangelizzazione con la promozione umana, favorendo la partecipazione attiva alla vita cristiana delle fascie più svantaggiate della società.
Ascolteremo, così, due testimoni di un martire, perché così si può parlare di padre Pino.
Profetica, infatti era stata la testimonianza del sacerdote, un anno prima di morire, in un intervento a Trento al convegno annuale del movimento “Presenza nel Vangelo”.
Aveva infatti detto: “La testimonianza cristiana è testimonianza che diventa martirio. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza. Il testimone è testimone di una presenza di Cristo… Essere testimone soprattutto per chi conserva rabbia nei confronti della società che vede ostile… A lui il testimone deve infondere speranza…facendo comprendere che la vita vale se è donata”.
Edopo la morte di don Pino il suo arcivescovo aveva ripreso questa sua anticipata confessione: “Padre Pino è morto per aver avuto fame e sete di giustizia”. E il Papa: “Padre Pino fu un coraggioso ministro del Vangelo”.
E fu davvero un martirio, quello di don Pino, ma un martirio singolare, potremmo dire un martirio povero.
Già agli inizi degli anni Cinquanta il celebre teologo Charles Journet diceva: “Può accadere che l’epoca in cui siamo entrati conoscerà una forma di martirio molto povera, molto spoglia, senza nulla di spettacolare per la fede della comunità cristiana, un’epoca in cui sarà chiesto ai martiri, prima di morire corporalmente per Cristo, di essere avviliti e di rinunciare alla gioia di poter confessare Gesù in faccia al mondo”.
Elui, Don Pino, figlio di povera gente, di un papà calzolaio, era stato aiutato nel suo itinerario verso la consacrazione sacerdotale da un prete buono che gli aveva insegnato privatamente il greco e il latino, materie necessarie per intraprendere gli studi liceali.
Diventato prete, gli veniva spontaneo appoggiare le rivendicazioni della povera gente e soprattutto era capace di stimolare i laici a fare i laici, dal momento che aveva acquisito una grande sensibilità nei riguardi della missione dei laici, partecipando ai gruppi di Azione Cattolica, della Fuci e di associazioni ecclesiali di varia estrazione.
Si mobilitò in mezzo ai laici e i problemi di quartiere dei suoi laici divennero i suoi, senza essere, però, un agitatore politico o un assistente sociale.
Faceva il parroco e spargeva la sua carità pastorale là dove i suoi cristiani soffrivano e lottavano. E voleva dire rischiare la vita in prima persona, come poi è accaduto, perché la mafia è la mafia e vuol sempre farla da padrone.
Don Pino diceva ai suoi: “Voi avete famiglia e anche se mi ammazzano non mi interessa…”.
Non voleva che andassero a trovarlo a tarda ora perché temeva per loro.
E la persecuzione si intensificò con la creazione del Centro di accoglienza “Padre Nostro” nel 1991.
Ogni sorta di sfida: prima fu bruciato il furgone della ditta che eseguiva il restauro della chiesa parrocchiale poi ci furono pestaggi e minacce ai ragazzi che frequentavano il Centro: “Digli al prete che ci lasci lavorare in pace”.
Giovani che al Centro usufruivano di corsi di recupero scolastico, potevano, insieme alle loro famiglie, beneficiare di un pasto caldo, svagarsi in un piccolo giardinetto, una macchia verde in mezzo al cemento, che il padre usava per i colloqui personali con i ragazzi, spesso precedentemente sfruttati dalla mafia per piccolo spaccio e per lavoretti di contrabbando.
E una delle lamentele della mafia al processo contro i killer di don Pino era stata: “Lui si prendeva i bambini… Per non farli cadere in mano nostra”.
Ed era così mite che non fecero assolutamente fatica ad ucciderlo.
Era il giorno del suo compleanno, un giorno intenso, come del resto tutte le sue giornate: due matrimoni, in Comune per ottenere la sospirata scuola di quartieri, un po’ di festa e un brindisi con un po’ di amici, una preparazione al battesimo e poi verso casa per incontrare due sposi che gli avevano chiesto un colloquio.
“Padre è una rapina.” E mentre lui rispondeva: “Me lo aspettavo” gli avevano già sparato alla nuca. Il giorno prima durante la messa in una casa rifugio per ragazze madri, di cui aveva voluto continuare ad essere cappellano, nonostante il moltiplicarsi degli impegni, aveva fatto una predica particolare, profezia forse di quello che sarebbe accaduto?
“Quando noi abbiamo paura scattano le contrazioni sotto alla pelle… quando la contrazione è più forte, perché la paura è diventata angoscia si rompono i capillari. Ecco perché si dice Cristo sudò sangue. Sudò sangue per la paura umana del dolore.
Tutto questo ci fa sentire ancora di più Cristo vicino a noi, come un fratello. Egli ha dato la vita per noi e anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”.