Il Concilio Un tesoro da riscoprire |
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Alle radici del rinnovamento |
“Gaudet Mater Ecclesia…”: con queste parole papa Giovanni XXIII, l’11 ottobre 1962, apriva solennemente il Concilio Ecumenico Vaticano II. Lei era quindicenne… Vorrei sapere quali sono i suoi ricordi personali di quelle giornate storiche.
Siamo agli inizi degli anni Sessanta, contrassegnati da un grande slancio in avanti della società occidentale. Un ottimismo che faceva dimenticare o almeno mettere in secondo piano i gravi problemi che pure esistevano: l’Europa era divisa in due parti, l’ondata di benessere che effettivamente stava radicandosi in Europa apriva, però, problemi di trasformazione culturale di enorme portata (una nuova concezione della famiglia con il diffondersi della pillola, una diversa visione del tempo libero, una nuova esperienza della mobilità, una nuova concezione dell’uomo e della vita portata dallo sviluppo della televisione e del cinema, ecc…). Si scopriva la fame nel mondo: esistevano milioni di uomini sottoalimentati, che vivevano in condizioni di precarietà assoluta. La Chiesa era perseguitata nei Paesi comunisti, viveva una tragedia di cui non si conoscevano bene i contorni. Eppure l’ascesa di un cattolico alla Casa bianca, un nuovo stile di esercizio del ministero petrino portato da Papa Giovanni,… tutto sembrava presagire un’epoca nuova.
Nel ’61-’62 avevo 15-16 anni, erano gli anni del ginnasio. La fede e la Chiesa erano per me due dati molto profondi e molto solidi, portati dall’educazione dei miei genitori. Non potevo neppure lontanamente immaginare cosa sarebbe accaduto di lì a pochi anni: il ’68, la contestazione ecclesiale, il terrorismo… Furono per me anni luminosi. Nell’annuncio e nell’inizio del Concilio vidi un segno di vitalità della Chiesa. Non potevo però assolutamente immaginare le dimensioni di ciò che sarebbe accaduto.
Torniamo all’annuncio del Concilio. Fu un fatto dirompente o in qualche modo il terreno era già preparato ad accogliere quel seme?
L’annuncio di un nuovo Concilio da parte di Giovanni XXIII si inserì all’interno del diffuso clima di rinnovamento di cui ho parlato prima. Da questo punto di vista fu un annuncio naturale, ma nello stesso tempo inaspettato. Naturale, poiché i germi di una radicale esigenza di rinnovamento della Chiesa erano stati gettati da lungo tempo, già durante il pontificato di Pio XII, fondamentale perché maturasse nella Chiesa l’esigenza di una nuova assise conciliare. C’era stato, lungo tutto il Novecento, un ritorno alle fonti (bibliche, liturgiche e patristiche).
Ma nello stesso tempo fu un annuncio inaspettato e nuovo. Nessuno si aspettava una decisione simile da un Papa che, nella mente di chi lo conosceva solo superficialmente, doveva segnare un periodo di transizione tra il lungo pontificato pacelliano e il nuovo.
Leggendo con attenzione la Gaudet Mater Ecclesia, possiamo entrare nel cuore di Giovanni XXIII. «Il grande problema, posto davanti al mondo, dopo quasi due millenni resta immutato»: con Cristo o senza Cristo. Il Papa va alla radice delle questioni: necessità per la Chiesa di annunciare l’immutata verità di Cristo in modo da raggiungere l’uomo moderno e contemporaneo. È ottimista Giovanni XXIII, e comunica ottimismo. «A noi sembra – dice – di dover dissentire dai profeti di sventura che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani… che si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della Chiesa».
Qual era il compito principale del Concilio nella volontà di Giovanni XXIII che lo indisse?
Risponde lui stesso sempre nella Gaudet Mater Ecclesia: «Questo massimamente riguarda il Concilio ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace». Ma il Papa non si limita a enunciare lo scopo – custodire e insegnare in modo più efficace –, ne indica anche il fondamento nella perennità e immutabilità della rivelazione che Dio ha fatto nel suo Figlio unigenito. Entra così anche nel merito del metodo attraverso cui il Concilio deve conseguire il suo scopo: «Perché tale dottrina raggiunga i molteplici stadi dell’attività umana… è necessario anzitutto che la Chiesa non si discosti dal sacro patrimonio della verità ricevuto dai Padri; e al tempo stesso deve anche guardare al presente, alle nuove condizioni e forme di vita introdotte nel mondo odierno, le quali hanno aperto nuove strade all’apostolato cattolico… Dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti conciliari del tridentino e del Vaticano I… è necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo». Dunque uno sguardo rivolto in avanti, avendo i piedi ben saldi nella storia e nella Tradizione che ci raggiungono dal passato. Tutto questo, nelle intenzioni di Giovanni XXIII era da conseguire «usando la medicina della misericordia piuttosto che quella della severità».
E Lei come definirebbe lo scopo del Concilio, anche alla luce del suo sviluppo e delle sue interpretazioni?
Per comprendere qualcosa del Concilio Vaticano II occorre allargare lo sguardo e considerarlo all’interno dell’intera storia della Chiesa. Senza una visione globale, infatti, rischieremmo di assolutizzare dei particolari e ci sarebbe precluso l’accesso al cuore di questo grande evento che la Chiesa ha vissuto.
Parlare del Concilio, dunque, significa innanzitutto parlare della necessità continua che la Chiesa ha di rinnovarsi: Ecclesia semper reformanda. Perché la Chiesa ha bisogno di rinnovamento? In cosa consiste questo rinnovamento? Come il Vaticano II ha incarnato questo bisogno? Queste mi sembrano le domande fondamentali.
Occorre umiltà per parlare della Chiesa, e più ancora per parlare di una rinascita della sua vita, per parlare di una riforma nella Chiesa. Occorre immedesimarsi col disegno di Dio nella storia, disegno che sorpassa sempre ogni nostra possibilità di previsione e di comprensione.
Dio è un riformatore. Vuole che la sua opera rinasca nei cuori degli uomini e nella storia dell’umanità. Per questo pensare alla riforma nella Chiesa vuol dire cercare di entrare, domandare di entrare, in ciò che Dio vuole.
La parola “riforma”, però, è uno di quei termini dai mille significati (si parla da anni di riforme istituzionali, per esempio…). In che senso il Concilio Vaticano II ha costituito una riforma della Chiesa?
La riforma è innanzitutto cambiamento che riguarda la mia vita. È un’esperienza, presente e passata, che ha segnato profondamente la mia esistenza. Come posso rispondere a colui che mi ha amato e mi ama? Come può cambiare la mia vita per rispondere a Cristo?
A differenza della storia profana, o almeno di alcune sue correnti storiografiche che concepiscono la storia come un cammino in avanti attraverso una serie continua di riforme o rivoluzioni, la riforma nella Chiesa nasce da un processo che tende contemporaneamente in avanti e all’indietro, come abbiamo notato leggendo la Gaudet Mater Ecclesia. In avanti, perché segue il cammino degli uomini, delle loro scoperte, delle loro filosofie. All’indietro, perché per la Chiesa la riforma è una riproposizione in forme nuove del principio che l’ha generata.
La Chiesa è lo sviluppo nel tempo e nello spazio del corpo di Gesù. Essa, pur nei travagli inevitabili della storia, è abitata da un principio vitale che urge continuamente il processo delle riforme, ma nello stesso tempo impedisce che tali riforme diventino rivoluzioni. In altre parole, nella Chiesa non c’è mai un momento in cui si riparte da zero, in cui si costruisce tutto di nuovo. L’elemento conservatore si coniuga continuamente con quello progressivo, che spinge la Chiesa nella sua missione verso nuovi territori, nuove lingue, nuove conquiste.
La riforma nella Chiesa si basa dunque su due pilastri: da un lato, alla sua origine c’è un evento fondativo, un evento originario, la vita di Gesù con gli apostoli, che ha come cuore la sua incarnazione, passione, morte e resurrezione, e il dono dello Spirito. Dall’altro lato, questo evento, per l’azione dello Spirito Santo, è contemporaneo in ogni tempo. Deve essere accolto dagli uomini, mettere in azione la loro libertà, dare forma ad ogni epoca della storia. L’azione di Dio infatti, non scavalca mai, ordinariamente, la libertà degli uomini, la struttura temporale e complessa dell’esistenza umana. Agisce attraverso cambiamenti spesso infinitesimali che diventano clamorosi soltanto nell’incontro con un numero infinito di altre libertà in azione.
Il suo ragionamento è convincente. Non possiamo ignorare però che la ricezione del Concilio è stata ed è tuttora materia di accesi dibattiti e polemiche.
È vero. La spiegazione più chiara di quanto lei dice l’ha data Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato, in uno dei discorsi più importanti che ci ha regalato. Parlando alla Curia romana nel dicembre 2005 il Papa si poneva proprio questa domanda. «Nessuno può negare – diceva – che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile». Perché? – si chiedeva. «Tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio […], dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”» – che è ciò che intendevo quando prima parlavo di “rivoluzione” – dall’altra quella che il Papa definiva “l'ermeneutica della riforma”, che è quanto ho cercato di esprimere prima.
Centrale, nella comprensione di quell’evento straordinario, resta (nel passaggio di testimone da Giovanni XXIII a Paolo VI) la cosiddetta ecclesiologia del Concilio. Riprendiamo così in mano la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la “Lumen Gentium”, promulgata il 16 novembre 1964. Tra le tante “immagini di Chiesa” consegnate alla storia da quel documento, quali le paiono più recepite e quali invece più trascurate, oggi?
La Chiesa è una vita in movimento. Essa, come dicevo, è la continuità di un principio, di un evento che ne costituisce l’inizio e la sua presenza in ogni istante della storia.
Come ha affermato Benedetto XVI nell’ultima lectio magistralis del suo pontificato, parlando ai parroci di Roma (13 febbraio 2013), occorre leggere la riflessione del Vaticano II sulla Chiesa come una prosecuzione di ciò che il Vaticano I aveva incominciato con la sottolineatura del primato petrino. Si trattava dell’inizio di un rinnovamento dell’ecclesiologia bruscamente interrotto dalla prima guerra mondiale, rinnovamento che veniva da lontano e che, dopo la chiarificazione della dottrina sul primato, esigeva un suo completamento. La Mystici Corporis di Pio XII è espressione autorevole di questa esigenza. La Chiesa non è appena un’istituzione, un’organizzazione, ma una realtà viva della quale ogni battezzato è protagonista. Ogni “io” è inserito nel grande “noi” dei credenti.
Penso sia questa coniugazione tra il protagonismo dell’io e la sua realizzazione nel noi di Cristo e della sua Chiesa il cuore dell’ecclesiologia del Concilio. Le varie formule e immagini di Chiesa che ci ha consegnato la Lumen gentium – ovile del quale solo Cristo è la porta, podere o costruzione di Dio, soprattutto Corpo di Cristo e Popolo di Dio – si riassumono proprio in questa tensione alla comunione, dono che proviene da Dio Trinità e si fonda sulla vita, morte e resurrezione di Cristo. «Solo tramite la cristologia – ha affermato il papa – diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti (Corpo di Cristo e Popolo di Dio, ndr)… Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica… La relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione… È frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa».
Oggi la grande sfida che abbiamo di fronte è proprio entrare in questa comunione, nelle sue ragioni, nella sua vita, nella possibilità di realizzazione della persona che essa significa. Dobbiamo abbandonare i toni ideologici che per troppo tempo hanno caratterizzato i dibattiti sulla natura della Chiesa. Siamo assieme, attorno a Pietro, per vivere la comunione con Cristo e realizzare la nostra vera statura. La Chiesa è comunione perché rinasce continuamente dai sacramenti, soprattutto dall’eucarestia, che ci rende una sola cosa con Cristo. Autorità ed eucarestia sono i due fuochi della Chiesa come Comunione.
Con la “Gaudium et Spes” entriamo nel rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo…
Vorrei accennare a delle coordinate di lettura del rapporto tra Chiesa e mondo che nascono dal mistero dell’Incarnazione. Dio parla alla Chiesa e al mondo, anche attraverso i fatti della storia. La stessa storia della Chiesa partecipa della storia degli uomini. «La Chiesa – afferma proprio la Gaudium et Spes – cammina assieme con l’umanità tutta e sperimenta, assieme al mondo, la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana» (n. 40). Si può dire che le due vicende siano inestricabilmente congiunte, come Agostino aveva predicato delle due città, quella di Dio e quella dell’uomo. La Chiesa deve continuamente interrogarsi sulla natura di tale legame.
Un “interrogarsi” sul rapporto Chiesa e mondo che non è tanto o solo un esercizio intellettuale, quanto piuttosto una forma di compartecipazione. Tra gli estremi della contrapposizione e della sovrapposizione… come si colloca il Concilio?
La Chiesa è interessata al mondo innanzitutto perché è essa stessa parte del mondo. Essa è legata agli uomini perché è “fatta” di uomini. La Chiesa non è altro che il mondo che si converte a Cristo. È il mondo degli uomini, delle loro esistenze, dei loro interessi, che porta con sé tutta la creazione verso Cristo. L’uomo che si converte a Cristo, e attraverso il battesimo viene innestato in lui, trascina con sé tutto il creato, il suo lavoro, i suoi affetti, la sua vita quotidiana e la natura che partecipa di essa.
Ma, come dicevo prima citando il numero 40 della Gaudium et Spes, la Chiesa non si confonde con il mondo. Ha la “pretesa” di esserne l’anima. Sa che ha una responsabilità grave nei confronti dell’umanità. Benché a volte misconosciuta e osteggiata, la Chiesa sa di portare in sé il segreto del mondo. Il desiderio di conoscere le dinamiche profonde delle società e dei popoli nasce quindi dalla passione per il destino degli uomini, dal desiderio di comunicare loro la salvezza. L’evangelizzazione rimane il compito primario della Chiesa. Come ha luminosamente testimoniato Giovanni Paolo II, la Chiesa è interessata all’uomo, perché è interessata a Cristo presente in ogni uomo. Ed è interessata a Cristo perché solo lui svela all’uomo la sua identità (cfr. n. 22).
Anche e soprattutto grazie al Concilio, la Bibbia è oggi molto più presente di un tempo nelle case della gente. Più difficile, partendo dalla Rivelazione, attualizzare il rapporto fra Scrittura e Tradizione. D’altra parte questo fa parte del suo ministero di apostolo. Cosa le dice – e cosa “ci” dice – in proposito la “Dei Verbum”?
Mi ha molto colpito la semplicità e l’acume con cui il Papa, quando mi ha ricevuto assieme agli altri vescovi dell’Emilia Romagna, ha sintetizzato il contenuto dei principali documenti del Concilio. A proposito della Lumen gentium e della Dei Verbum ci ha detto che parlano della Rivelazione, così come la Sacrosantum Concilium parla della centralità dell’Eucarestia e la Gaudium et Spes della forza che muove il mondo, che è la fiducia nel Signore risorto.
La Dei Verbum, dunque, parla della rivelazione, cioè della comunicazione che Dio fa di se stesso agli uomini. Certamente la forma storica attraverso cui Dio si è comunicato all’uomo è la sua Parola, cioè Suo Figlio. Questa Parola, pur non riducibile alla Sacra Scrittura, trova in essa la sua prefigurazione e la sua espressione perenne. Il Concilio ha avuto il grande merito di sottolineare l’importanza della Sacra Scrittura, aiutando il popolo di Dio ad abbeverarsi ad essa anche attraverso una maggiore presenza nella liturgia di testi scritturistici. Proprio la liturgia è il contesto che più di ogni altro permette di leggere la Bibbia, poiché la sottrare a interpretazioni soggettive fuorvianti e, soprattutto, la proclama all’interno di un contesto vivo nel quale solo si rende intellegibile. La Dei Verbum ha sottolineato, a questo proposito, l’intima unità di Scrittura e Tradizione viva della Chiesa: «La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono l’unico sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa… Il compito di interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa, è stato affidato al solo magistero vivo della Chiesa» (Dei Verbum, n. 10). Non è possibile leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa senza perderne il senso profondo, cioè la rivelazione del Figlio di Dio che è risorto ed è vivo oggi.
«Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi – ha affermato significativamente Benedetto XVI – [...] penetrati nei dettagli della sacra Scrittura [...] ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio [...]. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico, una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto» (Dall’omelia di Benedetto XVI nella Santa Messa con i membri della Commissione teologica internazionale, Cappella paolina, 1 dicembre 2009).
A questo proposito pochi giorni fa il Papa ha parlato della Chiesa come luogo vivo «nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nella quale è nata. Già il fatto del canone è un fatto ecclesiale». E continuava: «Sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte» (Benedetto XVI, Discorso ai Parroci e ai preti di Roma, 13 febbraio 2013).
Siamo nell’Anno della fede voluto da Benedetto XVI e indetto con la “Porta fidei”, ma già Paolo VI indisse (con l’Esortazione apostolica “Petrum et Paulum Apostolos”) un Anno della fede che si estese dal 29 giugno 1967 al 29 giugno 1968. Il 30 giugno 1968 proclamò il “Credo del Popolo di Dio”, che meriterebbe di essere riascoltato per intero. Entriamo nella stagione del post-Concilio, tra speranza e angosce: solo quattro anni dopo lo stesso Montini ebbe a dire: “Attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa”. Come le pare oggi la situazione della Chiesa, in questa stagione, rispetto alle inquietudini di Paolo VI?
Paolo VI sentiva fortemente l’urgenza di parlare all’uomo moderno. Nello stesso tempo non voleva tradire il contenuto della fede. Cercò di appoggiarsi agli uomini che sentiva più vicini alle proprie aperture, ma infine si trovò solo. Come d’altra parte aveva preannunciato in un appunto scritto durante un ritiro spirituale all’inizio del pontificato: “Mi sento come una statua sopra una guglia di un duomo”. Una meditazione che probabilmente gli era nata guardando la sua cattedrale di Milano.
Gli studi sul Concilio Vaticano II ormai possono documentare ampiamente quanto e dove egli sia intervenuto per bloccare le spinte indebite in avanti verso un dissolvimento dell’identità ecclesiale. Ma soprattutto egli cercò di bloccare tale processo negativo attraverso la parola, la sua parola drammatica e accorata che si affidava a Dio di fronte alle forze disgregatrici dell’unità ecclesiale.
Il Credo del popolo di Dio fu una delle espressioni più intense e impegnative di tale volontà di intervento. Pubblicato in occasione dell’anno della fede in pieno ’68 vuole essere un’enunciazione sintetica ed organica dei contenuti della fede. Tutte le verità espresse intorno a Cristo e alla vita cristiana nei Concili di Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia fino a Trento e al Vaticano I, all’Immacolata Concezione e all’Assunzione di Maria vi si trovano assieme alla dottrina del Vaticano II sulla Chiesa. Paolo VI insistette sull’importanza di un’espressione formale delle verità di fede. Non si dovevano tralasciare troppo facilmente le parole che i Padri avevano scovato lungo i secoli anche a costo di lunghe lotte. Paolo VI riaffermò la dottrina della Transustanziazione, il celibato ecclesiastico, ebbe il coraggio di condannare la contraccezione e di subire l’opposizione di vasti settori della Chiesa a seguito di tale decisione. Ascoltava le ragioni di tutti e infine decideva. A lui si deve riconoscere il grande merito di non avere mai ceduto. Non avremmo avuto Giovanni Paolo II senza Paolo VI. Nell’ultimo discorso del suo pontificato, il 29 giugno 1978, festa dei santi Pietro e Paolo, poco più di un mese prima della morte, ebbe a dire: “Ci sentiamo a questa soglia estrema contrastati e sorretti dalla coscienza di avere instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (Mt 16,16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede (2Tim 4,7)… Infatti la fede è più preziosa dell’oro (1Pt 1,7)… non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà”. Fidem servavi. Proprio queste parole sembrano suggellare tutto il senso del suo pontificato. Certamente egli non ha potuto risolvere tutti i problemi dottrinali e disciplinari. Proprio nel discorso che ora ho citato esprime piena consapevolezza di un lavoro ancora da svolgere e volge un accorato invito a coloro che all’interno della Chiesa sono causa di eresie e di scisma affinché si guardino dal turbare ulteriormente la comunità ecclesiale. Tale compito di rinnovamento della Chiesa sarà al centro del pontificato di Giovanni Paolo II.
Temo non ci sia il tempo di analizzare il pontificato del Beato Giovanni Paolo II. Fermiamoci agli ultimi otto anni. Quali sono le linee fondamentali del rinnovamento che Benedetto XVI ha indicato alla Chiesa?
L’intero pontificato di Benedetto XVI si trova totalmente inscritto all’interno del grande alveo di rinnovamento creato dal Concilio: è iniziato nel 2005, proprio nell’anno in cui la Chiesa celebrava i 40 anni dalla fine del Concilio, e si è concluso nel cinquantesimo della sua apertura.
Penso che le linee fondamentali del rinnovamento che Benedetto XVI ha indicato si collochino sulla stessa linea di orizzonte dell’intendimento con cui Giovanni XXIII ha convocato il Concilio Vaticano II. Papa Giovanni parlava di una ripulitura del volto della Chiesa, di una cancellazione delle sue macchie provocate dal sedimentarsi della polvere del tempo sul suo volto (cfr. Giovanni XXIII, Discorso inaugurale per l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962). Benedetto XVI si colloca sulla stessa lunghezza d’onda. Per lui si tratta di un’opera di cancellazione di tutto ciò che è inautentico, di purificazione, di semplificazione appunto. Di un dialogo continuo con l’origine: non per ripresentare le forme storiche di un’età dell’oro che non è mai esistita, ma per ritrovare nell’esperienza di Cristo con gli apostoli la forma originaria che ogni secolo cristiano è chiamato a rivivere. Per trovare una risposta al problema del rinnovamento della Chiesa, il cardinale Ratzinger affermava, negli anni Sessanta: «sarebbe necessario porre la domanda: che cosa risulta falso nella Chiesa, se messo a confronto con le origini? Questo appunto, e questo solo è il problema che vale come criterio dello sforzo di rinnovamento della Chiesa» (J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, 295).
La storia della Chiesa è una serie continua di inizi nuovi. «Il vero attore della riforma è lo Spirito Santo che favorisce inizi sempre nuovi e genera uomini portatori di tali inizi, profeti di una nuova fruttificazione del Vangelo» afferma ancora nel 2001 (J. Ratzinger, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, in colloquio con Peter Seewald, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 2001, 361).
Siamo ancora al Joseph Ratzinger fine teologo, però. Come Pontefice, ha saputo essere “riformatore”, nel senso espresso dal Concilio?
Diventato papa, Joseph Ratzinger modula continuamente queste note in nuove sinfonie. Qualche mese dopo la sua elezione alla cattedra di Pietro, nella Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia, presenta i santi e i beati come i veri riformatori della Chiesa e come protagonisti di una rivoluzione positiva in tutto il mondo. «Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo». Sempre nello stesso anno, il 22 dicembre, in occasione degli auguri natalizi alla Curia romana, in un discorso che rimarrà famoso, sostiene che ogni autentico rinnovamento nella Chiesa è un «insieme di continuità e discontinuità». Continuità con l’inizio, con le istituzioni fondamentali volute da Cristo, la regula fidei, il sacerdozio, il primato di Pietro. E discontinuità perché la comunità della Chiesa, per poter essere fedele al suo fondatore, deve rinascere continuamente nel confronto giorno dopo giorno con le persone e le culture che incontra, misurandosi con i problemi che sorgono e attraverso i quali il Signore la sfida. Con i vescovi tedeschi, in visita ad limina nel novembre del 2006, non può che toccare il tema della riforma. Critica l’attivismo esteriore delle riforme non autentiche e non spirituali e ribadisce che deve essere «la fede stessa a scandire in tutta la sua grandezza, chiarezza e bellezza il ritmo della riforma… di cui abbiamo bisogno». Le udienze del mercoledì dei primi anni del pontificato rileggono tutta la storia della Chiesa attraverso le vite dei santi: «essi sanno promuovere un rinnovamento ecclesiale stabile e profondo, perché essi stessi sono profondamente rinnovati, sono in contatto con la vera novità: la presenza di Dio nel mondo» (Udienza generale, 13 gennaio 2010).
Siamo in un periodo storico eccezionale, con la Santa Sede vacante e il Papa emerito. Grandi sfide attendono il nuovo Pontefice. Ancora sul tema della riforma della Chiesa, qual è la consegna fondamentale che Benedetto XVI ci lascia?
Alla luce di tutto ciò che ho detto fin ora si può comprendere che per Benedetto XVI il luogo fondamentale della riforma sia la liturgia. È attraverso di essa che l’uomo entra nella «gioia della fede, [nella] radicalità dell’obbedienza, [nella] dinamica della speranza e [nella] forza dell’amore» (Omelia per il giovedì santo, 5 aprile 2012). La liturgia consente quella conformazione a Cristo che è il presupposto e la base di ogni riforma autentica. Per Ratzinger “conformarsi a Cristo” vuol dire innanzitutto entrare nella sua obbedienza, quella che Lui ha vissuto e vive nei confronti del Padre e continua nella Chiesa come comunione con Pietro e i successori degli apostoli uniti a lui. Negli ultimi tre secoli l’Europa ha visto una generale contestazione al principio di obbedienza e di autorità. Reazione comprensibile di fronte all’autoritarismo e al clericalismo di tanti ambienti civili ed ecclesiali. Ma entrare nell’obbedienza non vuol dire cancellare la ragione, distruggere i sentimenti, annientare la propria umanità. È possibile obbedire a Dio obbedendo a degli uomini. Per questo il papa propone i santi come «traduzione dello stile di vita di Cristo». Essi ci mostrano come sia possibile vivere interamente la propria umanità in una sequela a Cristo e all’autorità della Chiesa in cui si coniugano obbedienza e libertà.
Il cuore della riforma è la santità, come aveva detto il Concilio parlando di «vocazione universale alla santità» (cfr. Lumen gentium, nn. 39ss).
Questa è, in definitiva, la sfida che sempre di nuovo la Chiesa si trova di fronte.