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L'incontro con Don Armando Matteo

Martedì 10 dicembre 2013

Progetto Famiglia 2013
Incontro con Don Armando Matteo: il testo della relazione

La trasmissione della fede, la sfida del nostro tempo

Introduzione

Alcuni anni fa, ho coniato l'espressione "prima generazione incredula". L'intento era quello di richiamare l'attenzione ecclesiale sulla questione della trasmissione della fede.

Con quell'espressione intendevo e intendo definire sommariamente il difficile rapporto dei giovani e delle giovani, nati dopo il 1981, con la fede cattolica. Costoro non si pongono contro Dio o contro la Chiesa, ma stanno iniziando a vivere - e a vivere pure una certa ricerca di spiritualità - senza Dio e senza la Chiesa. Incredulità significa la loro fatica a comprendere la rilevanza della fede nel personale percorso di accesso all'età adulta; significa difficoltà a rispondere a questa domanda: a che cosa mi serve la fede quando sarò adulto? Intorno a tale domanda si concentra a mio avviso la sfida seria posta dalla trasmissione della fede.

Perché a tale domanda sul legame tra fede ed essere adulti, si può imparare a rispondere solo nel gioco relazionale delle generazioni; ad esso dobbiamo restituire l'importanza essenziale in ogni atto educativo, anche per quello relativo alla fede.

Ero convintissimo di ciò allora e lo sono ancora di più oggi, confermato da quanto si può leggere nella prima enciclica di Papa Francesco, la Lumen Fidei; al numero 38 vi si legge: «La trasmissione della fede, che brilla per tutti gli uomini di tutti i luoghi, passa anche at¬traverso l’asse del tempo, di generazione in gene¬razione. Poiché la fede nasce da un incontro che accade nella storia e illumina il nostro cammino nel tempo, essa si deve trasmettere lungo i secoli». In altre parole, non si diventa credenti da soli, isolatamente, ma all'interno di relazioni significative.

La fede si deve trasmettere, allora; cioè: la generazione adulta deve trasmettere la fede alla generazione che viene, cioè creare quelle condizioni perché si possa apprezzare la luce che la fede dona all'esperienza umana. So bene che l'espressione "trasmettere la fede" è contestata da alcuni, ma con essa mi riferisco all'impegno a creare le condizioni familiari, sociali, culturali ed ecclesiali che permettono ai ragazzi e ai giovani di cogliere e vivere quella verità circa il cristianesimo che papa Benedetto XVI ha espresso in modo mirabile nella sua prima enciclica Deus caritas est (passaggio ora citato anche dall'Evangelii gaudium): «All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».

Con il mio piccolo saggio provavo a dire che questa cosa non funziona più. Allora ho asserito la cosa molto cautamente. Oggi mi sento molto più confortato da quel bagno di realtà cui ci invita Papa Francesco che, in Evangelii gaudium, scrive che «negli ultimi decenni, si è prodotta una rottura nella trasmissione generazionale della fede cristiana nel popolo cattolico» (n. 70).

Se questo è vero, è vero che qui sta la grande sfida della Chiesa attuale.

Per cercare di cogliere bene questa sfida, svolgerò la mia riflessione in quattro tappe:

1. I dati delle indagini più recenti sul rapporto giovani e fede

Iniziamo dall'ascolto dei dati delle più recenti indagini sul rapporto tra giovani e fede cristiana. Le indagini dalle quali assumo i dati sono le seguenti:

Quali sono i dati più evidenti di queste indagini?

1) il primo è il cosiddetto "salto generazionale": il fatto cioè che coloro che sono nati dopo il 1981 rappresentano la fascia di popolazione più "lontana" dall'universo ecclesiale (Segatti usa il temine "più estranea"), in termini di dichiarazione di cattolicità, di affermazione del credere, di assiduità alla preghiera personale e alla frequenza ai riti religiosi. La cosa che colpisce è proprio lo stacco che cresce negli ultimi cinque-sei anni in modo progressivo: si passa da una differenza con le generazioni precedenti di 15-20 punti sino ad arrivare anche a 50 punti. Quindi siamo davanti a qualcosa di più di un semplice effetto di avanzamento della secolarizzazione. La differenza Nord-Sud riguarda solo la dichiarazione di cattolicità, con una maggiore punta al Sud.

2) Il secondo elemento è che nelle nuove generazioni non c'è più una sostanziale differenza di genere. I mutamenti più evidenti sono esattamente sulla linea femminile. E questo è un grande inedito per il nostro cattolicesimo. Questo ci conferma nel pensare che siamo dinanzi a un trend generazionale. Non c'è solo un effetto del ciclo di vita, ma la manifestazione di un cambiamento più profondo. Nuovi scenari (papa Francesco, questione donna).

3) Provando ad andare più in profondità, troviamo che nei nostri ragazzi e nei nostri giovani la religione rimane quasi sempre e quasi solo come una sorta di "rumore di fondo", pur avendo per lunghi anni frequentano la parrocchia e l'insegnamento di religione a scuola. Insomma dopo 1000 minuti di prediche, 5000 minuti di catechismo e 500 ore di religione a scuola, nella maggior parte di loro la religione non incide quasi per nulla sul processo di creazione della propria identità. Dichiarano francamente che faticano a capire a che cosa serva la fede nel cammino verso l'età adulta, verso la maturità.

4) In molti resta una sete di spiritualità, ma molto spesso ha un carattere anarchico e molto centrato su di sé. Va nella direzione di una sorta di benessere e sostegno psicologico che non in quella dell'apertura all'alterità.

5) Ovviamente sono confermate alcune cose ampiamente conosciute:

6) Un ultimo dato ci interroga non poco ed è il fatto che i giovani non riescano a cogliere la differenza qualitativa del Vangelo rispetto ad altri testi del passato.

2. Lettura complessiva

I dati sopra riportati ci dicono che siamo sostanzialmente di fronte a una radicalizzazione delle difficoltà del rapporto tra la religione cattolica e il mondo giovanile. Siamo perciò dinanzi a una generazione – quella nata dopo il 1981 – che non si pone contro Dio e contro la Chiesa, ma che sta imparando a vivere – e a vivere pure la propria ricerca spirituale – senza Dio e senza la Chiesa. Nulla ci autorizza a pensare un passaggio da "non cattolico" ad "ateo" o ad "agnostico". Il trend generale è piuttosto quello dell'estraneità (cfr. il film Corpo celeste), carattere che non indica un essere contro, ma un essere senza.

A mio avviso solo una prospettiva intergenerazionale può dare ragione e conto di questa situazione: è possibile cogliere fino in fondo le ragioni dell'inedito credere/non credere dei giovani italiani, unicamente prendendo in considerazione le generazioni che hanno preceduto questa che io ho chiamato prima generazione incredula.

Per essere piuttosto diretti, la crisi di fede cattolica che qui si annuncia non è da addebitare alla generazione nata dopo il 1981, ma alla generazione degli adulti.

Si tratta in verità di riconoscere che i dinamismi fondamentali della cinghia di trasmissione della fede, tra le generazioni, si sono inceppati. Ed è questa una verità che la comunità dei credenti fa fatica a cogliere, a causa – scusate l'espressione un po' forte – dell'eccessiva enfasi data al catechismo parrocchiale. (EvG: I genitori trasmettono la fede).

In verità, il luogo oveogni bambino può efficacemente imparare la presenza benevola di Dio, e cioè il fatto che Dio abbia qualcosa a che fare con la felicità, con la custodia e la promozione dell’umano, non sono prima di tutto la Chiesa o la lezione del catechismo, quanto piuttosto gli occhi della madre e quelli del padre.

La Lumen Fidei lo ricorda chiaramente al numero 43: la «struttura del Battesimo evidenzia l’im¬portanza della sinergia tra la Chiesa e la famiglia nella trasmissione della fede. I genitori sono chia¬mati, secondo una parola di sant’Agostino, non solo a generare i figli alla vita, ma a portarli a Dio affinché, attraverso il Battesimo, siano rigenerati come figli di Dio, ricevano il dono della fede. Così, insieme alla vita, viene dato loro l’orienta¬mento fondamentale dell’esistenza e la sicurez¬za di un futuro buono, orientamento che verrà ulteriormente corroborato nel Sacramento della Confermazione con il sigillo dello Spirito Santo».

Se è dagli adulti che i figli ricevono l'orientamento fondamentale dell'esistenza verso Dio, potremmo anche dire il primo annuncio, dobbiamo riconoscere che da quarant’anni a questa parte gli adulti non onorano più questo compito.

I giovani di cui i sociologi evidenziano l'estraneità alla fede sono in verità figli di genitori che non hanno dato più spazio alla cura della propria fede cristiana: hanno continuato a chiedere i sacramenti della fede, ma senza fede nei sacramenti, hanno portato i figli in Chiesa, ma non hanno portato la Chiesa ai loro figli, hanno favorito l’ora di religione ma hanno ridotto la religione a una semplice questione di un’ora. Hanno chiesto ai loro piccoli di pregare e di andare a Messa, ma di loro neppure l’ombra, in Chiesa. E soprattutto i piccoli non hanno colto i loro genitori nel gesto della preghiera o nella lettura del vangelo. Qui vi prego di prestare attenzione: la LF dice al numero 53 che «è importante che i genitori coltivino pratiche comuni di fede nella famiglia, che accompagnino la maturazione della fede dei figli». Ebbene, cosa ci dicono le nostre indagini? Castegnaro ha registrato il fatto che dalle interviste da lui effettuate con i giovani non emerge alcuna traccia di una preghiera fatta in famiglia. Inoltre basterebbe prestare attenzione ai tanti adulti presenti nella tv: non pregano mai, non hanno alcuna devozione, non esercitano alcuna pratica di pietà.

Inoltre c'è da tenere conto del significativo ampliamento della platea di adulti di riferimento per i nostri ragazzi e i nostri giovani, sin dalla tenera età. Questo è un fatto importante e decisivo per la decifrazione dell'umano da parte dei piccoli (si pensi a quanti docenti, pediatri, dentisti, istruttori incontrano).

Si tratta, allora, di prendere atto che gli adulti attuali, la maggior parte di loro, hanno imposto una divergenza netta tra le istruzioni per vivere e quelle per credere, una divergenza che, pur non negando direttamente Dio, ha avallato l’idea che la frequentazione della vita in parrocchia e all’oratorio e pure la scuola di religione fosse un semplice passo obbligato per l’ingresso nella società degli adulti e tra gli adulti della società. Più semplicemente: se Dio non è importante per mio padre e per mia madre, non lo può essere per me. Se mio padre e mia madre non pregano, la fede non c’entra con la vita. Se non c’è posto per Dio negli occhi di mio padre e di mia madre, non esiste proprio il problema del posto di Dio nella mia esistenza.

In una parola, la teoria del catechismo non trova riscontro nella pratica della famiglia e la fede diventa una cosa da bambini e finché si è bambini.

Si è dunque molto ridotto il catecumenato familiare, cioè quella silenziosa ma efficace opera di testimonianza della famiglia, che la nostra azione pastorale normalmente presuppone, quale prima iniziazione alla fede. Colpisce al riguardo l'esortazione del papa emerito Benedetto XVI rivolta ai giovani, nella prefazione al catechismo Youcat: egli ha, infatti, loro raccomandato di «essere più profondamente radicati nella fede della generazione dei [loro] genitori».

Più sinceramente, è l'ora di dirci tutta la verità: il Dio degli adulti è un Dio estraneo ai giovani. Più precisamente perché il Dio degli adulti è un Dio estraneo alla religione cattolica.

Qui si apre un capitolo molto delicato che riguarda le ragioni profonde dell'interruzione della cinghia di trasmissione della fede nel nostro Paese. Perché il Dio degli adulti è diventato un Dio estraneo ai giovani e alla religione cattolica?

Crisi di fede del mondo adulto

Se proviamo ad interrogarci sull'identità della generazione adulta, in particolare quella nata tra il 1946 e il 1964, la prima e principale caratteristica di essa è data dal fatto che, in prospettiva intergenerazionale, è una generazione che ama più la giovinezza che i giovani. Con le parole lucide di Francesco Stoppa si deve dire che «La specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur divenuti adulti o già anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane».

La generazione nata tra il 1946 e il 1964 ha compiuto, nei fatti, una vera e propria rivoluzione copernicana tra le età della vita nell’immaginario collettivo. Ed ha riscritto il significante "diventare adulti" in quello di " restare giovane", liquidando la realtà stessa dell'adultità.

Per questo oggi al centro dell’immaginario collettivo vige il desiderio di restare giovane. E non si intende qui la giovinezza dello spirito. No: si intende proprio la giovinezza nella fisicità delle sue caratteristiche, oltre i limiti dei suoi originari e inconfondibili tratti (età, capacità riproduttiva, genuinità dello sguardo sul reale). Solo se riesci a mostrare la giovinezza nel modo di vestire, nella traccia del tuo corpo, nel modo di considerare l’esistenza come possibilità sempre aperta, solo allora hai diritto alla felicità. La giovinezza è grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l'affermazione della propria sensualità, del proprio successo, del proprio fascino.

Quella degli adulti è perciò una generazione che ha fatto della giovinezza il suo bene supremo e sta procedendo ad un inquinamento senza precedenti del nostro immaginario umano di base. Si pensi alla lingua che parliamo. La cosa che stupisce molto al nostro tempo è l’ampiezza con cui si utilizza l'aggettivo "giovane". Di persona deceduta con i 70 anni, è facile sentir affermare che "è morta giovane"; a un cinquantenne che aspira a qualche ruolo dirigenziale, nella società o nella Chiesa, è addirittura più comune che gli venga detto di pazientare: "sei ancora molto giovane"; viceversa se si parla di qualche fatto di cronaca che investe ragazzi di scuola media inferiore, i giornali non ci pensano due volte a rubricarlo sotto "disagio giovanile" o "bullismo giovanile"; pure nella comunità ecclesiale con l’espressione "incontro dei giovani" spesso capita di intendere una riunione di preadolescenti e di adolescenti, senza dimenticare infine le più recenti categorie di "giovanissimi", di "giovani adulti" e da ultimo di "adultissimi".

Tirato troppo verso l’alto o troppo verso il basso, il termine giovane sembra non essere più in grado di indicare quel gruppo specifico di cittadini che hanno un’età compresa tra i 15 e i 34 anni. Più precisamente dalle nostre parti, giovane è diventato un aggettivo ecumenico: non conosce frontiere né alcuna sorta di limite.

E questo perché per coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964 la giovinezza non può finire. Non deve finire. E da quest'amore per la giovinezza poi discende una lotta senza quartiere contro la vecchiaia e tutte le sue manifestazioni.

Pensate alle tinte per i capelli, agli interventi estetici, alle creme e alle pillole blu, agli stili di vita “adulterati” degli adulti, alle manie dietetiche, ai lavori forzati in palestra, con lo jogging e il calcetto ecc... La pubblicità, inoltre, che ha studiato bene questo tratto degli adulti (che sono coloro che hanno concretamente poi i soldi), non usa altro linguaggio che quello della giovinezza e contribuisce all'inquinamento del nostro spirito. Per questo il mercato non offre (agli adulti in particolare) solo prodotti, ma alleati per lotta contro il tempo che passa, alleati per la giovinezza: lo yogurt che ti fa andare al bagno con regolarità, l’acqua che elimina l’acqua, le creme portentose che contrastano il cedimento cutaneo, nutrono i tessuti, proteggono dagli agenti patogeni, rimpolpano, ristrutturano, ecc...

E come non restare basiti rispetto all'idea principale della pubblicità per la quale il nemico numero uno sia la vecchiaia? Nulla si vende che prima non abbia, almeno come promessa, affermato di essere contro l'invecchiamento, anti-age. E la cosa funziona. Nonostante la crisi economica, il settore della cosmesi in Italia non conosce parole come stagnazione o recessione: il suo fatturato complessivo è di 9 miliardi l'anno.

E cosa dire ancora della percezione diffusa delle età della vita? Quando inizia infatti da noi la vecchiaia? Lapidario è al riguardo Ilvo Diamanti: «[…] Colpisce che il 35 per cento degli italiani con più di quindici anni (indagine Demos) si definisca “adolescenti” (5 per cento) oppure “giovani” (30 per cento). Anche se coloro che hanno meno di trent’anni non superano il 20 per cento. Peraltro, solo il 15 per cento si riconosce “anziano”. Anche se il 23 per cento della popolazione ha più di sessantacinque anni. D’altronde, da noi, quasi nessuno “ammette” la vecchiaia. Che, secondo il giudizio degli italiani (come mostra la stessa indagine condotta pochi anni fa: settembre 2003), comincerebbe solo dopo gli ottant’anni. In altri termini, vista l’aspettativa di vita, in Italia si “diventa” vecchi solo dopo la morte». E una tale vecchiaia che diventa nemico "numero uno" cambia il sentimento di vita.

Nessuno insomma ammette la vecchiaia: è parola che non trovi neppure su wikipedia! Oggi vecchio è sinonimo di rimbambito, rincitrullito, babbeo. C'è forse oggi un complimento più bello per un adulto del "ma come sembri giovane!" e viceversa c'è forse oggi un'offesa della quale è possibile pensarne una maggiore del "ma come ti sei invecchiato!"? Se uno vuole rompere definitivamente le relazioni con qualcuno, basta, la prima volta che lo vede, fargli presente di quanto sia invecchiato, per constatare quella persona letteralmente sparire dal proprio orizzonte di vita.

Ma se la vecchiaia a causa del mito della giovinezza finisce nel cono dell’irrealtà, nel cono della maledizione, nel cono di ciò che le persone per bene e politicamente corrette evitano di nominare, essa trascina con sé anche l’età adulta, che di fatti oggi nessuno onora più. Maledire la vecchiaia significa disconoscere la verità della finitezza dell'essere umano e la logica che ne preside allo sviluppo e cioè che «la rinuncia è la condizione della crescita».

La stessa malattia non è più interpretata come un messaggio - come sintomo - che ci giunge dal nostro corpo nella sua globalità (del tipo: non esagerare, mangia di meno, riposati ecc.), ma come un temporaneo e specifico blocco o disturbo da eliminare prima possibile, per riprendere la nostra pazza corsa, senza spesso sapere neppure dove andiamo.

E cosa dire della morte? Oggi nessuno muore: basta guardare ai manifesti funebri. La gente scompare, viene a mancare, si spegne, compie un transito, si ricongiunge, ma nessuno muore! E la medicina ormai tratta la morte alla stregua di una malattia. Non a caso si parla della nostra come di società postmortale.

Ma che umano è uno che non sa dare del tu alla morte? La grande sapienza filosofica di ogni tempo e cultura ci ha insegnato che uno diventa adulto solo quando è capace di questo "tu": il tu alla morte.

La giovinezza è pertanto la grande macchina di felicità degli adulti odierni, l’unica fonte di umanizzazione. È il bene. Per questo i maestri di oggi sono i figli, i giovani, ed è saltato in aria ogni possibile dialogo educativo.

Il punto è che tutto questo non è solo questione di estetica, né solo di etica. È questione teologica. Dio compare ogni volta che l'uomo cerca la propria felicità, il proprio ben-essere al mondo. Il segreto non detto della generazione adulta è il seguente: noi crediamo solo alla giovinezza quale luogo della destinazione felice dell'umano. Proprio una tale virata degli adulti verso il culto della giovinezza rende pertanto la loro testimonianza del vangelo della vita buona, quando c'è, una testimonianza scialba, esangue, inefficace.

Qui si interrompe la sinergia tra Chiesa e adulti, tra Chiesa e mondo della famiglia, tra Chiesa e sentimento diffuso dell'umano, ed è per questo che la proposta della fede cattolica va ad impattare, nell'universo giovanile, su un sequestro della questione della felicità e del compimento dell'umano da parte dell'idolo della giovinezza, che come abbiamo visto censura l'esperienza del limite, il lavoro della crescita e l'insuperabilità della malattia, e che conduce sino all'esorcizzazione linguistica della vecchiaia e della morte. Si tratta cioè di tutti quegli snodi vitali, su cui si costruisce il possibile incontro tra le generazioni e la trasmissione di un sapere dell'umano, toccato e fecondato dalla parola del Vangelo.

L'adulto in presa diretta crede solo alla giovinezza e solo questo può trasmettere.

L'urgenza del lavoro con gli adulti

Da quanto sin qui detto mi pare emerga con evidenza l'idea che il futuro dell'azione pastorale debba essere quello di un grande lavoro con gli adulti, cioè con coloro che transitano tra i 45 e i 60 anni. Solo così la trasmissione della fede potrà accadere di generazione in generazione.

Questo elemento era stato intravisto con straordinaria lucidità già nel Documento base per la catechesi del 1970, ove, al numero 124 si può leggere: «Gli adulti sono in senso più pieno i destinatari del messaggio cristiano, perché essi possono conoscere meglio la ricchezza della fede, rimasta implicita o non approfondita nell’insegnamento anteriore. Essi, poi, sono gli educatori e i catechisti delle nuove generazioni cristiane. Nel mondo contemporaneo, pluralista e secolarizzato, la Chiesa può dare ragione della sua speranza, in proporzione alla maturità di fede degli adulti».

La cosa è stata ribadita con uguale intensità anche nel bel documento Il volto missionario delle nostre parrocchie in un mondo che cambia, ove si dichiarava necessaria una coraggiosa rilettura dell'intera azione pastorale perché essa «sia più aperta e attenta alla questione dell'adulto».

La questione dell'adulto! Questo è il nostro grande compito, la nostra grande sfida del futuro.

Che tipo di lavoro si tratta di fare con gli adulti? Indico una priorità e quattro traiettorie di lavoro. La priorità è quella di rievangelizzare l'adultità e ovviamente anche gli adulti. Le traiettorie del lavoro sono le seguenti:

a) innanzitutto a livello culturale

Si tratta innanzitutto di restituire dignità e tensione morale alla dimensione adulta dell'esistenza e di creare le condizioni per sottrarre gli adulti attuali all'incantamento cui sono oggi finiti. Ci serve perciò un discorso e un tono nuovi per parlare dell'ambizione del diventare adulti. Dobbiamo dunque rievangelizzare l'adultità. Non possiamo apprezzare solo la giovinezza e solo ciò che farmaceuticamente e chirurgicamente vi rassomiglia. Dobbiamo riaffermare e riargomentare che crescere non è il peggiore dei mali possibili, non è la più grande delle maledizioni che possa toccare ad un uomo. Che c'è vita oltre la giovinezza.

Si richiede pertanto un'opera di grande ripulitura della figura dell'adulto, recuperandone i tratti essenziali, inscritti

Tutto questo non è un compito facile. La cultura diffusa non aiuta per nulla, anzi vuole degli eterni giovani, cioè delle persone straordinariamente infelici "a loro insaputa". Ora quale strumento migliore di quello dell'illusione della giovinezza, che è una metà semplicemente impossibile, per avere consumatori sempre insoddisfatti? Giovinezza è qui ideale di grande salute, di performance, di libertà come revocabilità di ogni scelta; giovinezza è qui censura delle esperienze fondamentali e fondanti dell'umano, quali il limite, la malattia, la vecchiaia, la morte. Grazie a questo dispositivo, i consumatori adulti sono sempre e solo parzialmente soddisfatti (il consumatore soddisfatto è l'incubo del mercato, perché non spende più) e perciò sempre disponibili a cadere nella rete delle sue illusioni. Dobbiamo lottare molto contro questo incantamento e incatenamento del mondo degli adulti attuali. C'è un sonno dogmatico in mezzo a noi circa la vera qualità dell'umano, della vita buona, che richiede appunto un deciso investimento di profezia, di liberazione, di risveglio delle coscienze. Non di solo giovinezza vive l'uomo (e la donna).

Concretamente: incontri, letture, cineforum sulla mutazione dell'essere adulto (gli adulti non sono più quelli di una volta...) e sul bisogno di adultità da parte del mondo giovanile.

b) a livello di (primo) annuncio

Liberare dall'incantamento della giovinezza, significa sostanzialmente permettere agli adulti di scoprire che ciò che ogni idolo promette e non dona è quell'amore di cui abbiamo bisogno per poter amare noi stessi, quella benedizione di cui abbiamo bisogno per poter benedire noi stessi, quell'ospitalità affettuosa e misericordiosa di cui necessitiamo per poter ospitare con affetto e misericordia noi stessi. Nessun idolo è capace di ciò. Dirò di più: nessun essere umano è capace di ciò. Né mio padre né mia madre né mio fratello né mia sorella né mia moglie né mio marito né mio figlio né mia figlia né il mio amante né la mia amante né il mio compagno né la mia compagna né il mio confratello né la mia consorella né la mia superiora né il mio vescovo.

La parola di Gesù è al riguardo di una precisione chirurgica: Ama Dio è la prima parte dell'ordine dell'amore. È una priorità ontologica. Tutti vogliamo amore. Ma il punto di partenza, per Gesù, resta quell'Ama Dio. Riconosci cioè innanzitutto e soprattutto Dio quale presenza benedetta e benedicente sulla tua vita. Corrispondi al Suo amore. Da qui devi partire. Qui si capisce la grande insistenza di Papa Francesco per l'annuncio della misericordia di Dio. È proprio questo Suo amore precedente ed eccedente, che siamo chiamati a riconoscere e che ci autorizza ad amare la nostra esistenza, con tutte le sue grazie e con tutte le sue ferite. Se accogliamo questo amore, se viviamo questo amore, allora potremo amare gli altri come noi stessi e noi stessi nella verità di quel mistero che ciascuno di noi è, senza aver più bisogno di botulino, viagra, Activia, Red Bull, cocaina, e tutto l'armamentario della nostra lotta continua contro la vecchiaia, la malattia e la morte.

Dobbiamo perciò annunciare con tutte le nostre forze questo amore di Dio, questo amore verso Dio. Concretamente dobbiamo scommettere di più sulla possibilità di leggere, ascoltare, studiare, innamorarsi del Vangelo. Quanto Vangelo c'è nella dieta di chi crede?

Leggere la Bibbia nell'ottica di Lumen fidei, 18: partecipare al modo di vedere di Gesù.

Dobbiamo insomma capire che "essere adulti" non è un gioco da ragazzi! E dobbiamo dare alimento e forme di allenamento. Bibbia e preghiera. E qui passiamo al livello successivo.

c) a livello liturgico

Il luogo in cui si attua questo amore tra ciascuno di noi e il Dio del Vangelo è quello della preghiera. Oggi però non solo la gente non conosce più le preghiere (del tipo: "il Corpo di Cristo", "Grazie"; del tipo: funerali e matrimoni celebrati senza che nessuno risponda alle parole del sacerdote; ecc.), più radicalmente abbiamo perso il senso stesso della preghiera, del pregare. Noi preghiamo in quanto riconosciamo il nostro essere "precario" e lo accettiamo senza risentimenti e frustrazioni. Si può essere, infatti, (un) precario solo in forza di una preghiera ascoltata, nella misura di un permesso concesso: la preghiera accolta è la condizione di possibilità di ogni precarietà. E la vita umana è fortemente segnata dalla precarietà, dalla finitezza, dal limite, che sono pure risvolti della nostra singolarità e irripetibilità. E proprio per vivere con verità questa situazione ci serve pregare. La preghiera ci dona appunto la grazia di poterci riconciliare con noi stessi, ponendoci di fronte all'istanza misericordiosa di Dio che Gesù ci ha manifestato con la sua croce gloriosa. La preghiera ci dona la grazia di sfondare la cappa soffocante delle nostre preoccupazioni e idiosincrasie, lasciandoci inondare dal soffio dello Spirito Santo. La preghiera ci dona la grazia di rimettere la nostra causa e la nostra fatica, il nostro patire e il nostro lottare alla speranza del futuro, alla promessa del paradiso abbandonandoci alle mani fedeli e giuste del Padre.

Dobbiamo perciò preoccuparci molto di iniziare o meglio re-iniziare alla preghiera, alla preghiera personale, alla preghiera quotidiana, alla preghiera degli adulti e alla preghiera dei giovani. Ci preoccupiamo della preghiera di chi crede?

d) a livello di testimonianza

L'ultimo profilo riguarda la testimonianza e pone una questione semplice: siamo felici di essere cristiani? Già F. Nietzsche insisteva su questo punto, quando gridava contro i cristiani del suo tempo che erano proprio i loro volti tristi la prova delle prove che da quel sepolcro non è mai uscito nessuno...

Dobbiamo insomma provare a sciogliere quel nodo tra fede e depressione che fin troppo ci contraddistingue. Per cui a volte non capisci se alla fine dei conti andiamo in Chiesa perché siamo depressi ovvero se siamo depressi perché andiamo in Chiesa. Cosa significa per l'esistenza dei credenti aver fede, aver trovato misericordia presso Dio, aver scoperto che lui ci ama infinitamente di più di quanto potevamo pensare, che egli ci ha liberato dal peccato e ci ha affrancato dai falsi idoli, che egli ha aperto il nostro cuore alla promessa di cieli nuovi e terra nuova? Esiste un'allegria dell'essere cristiani dentro le nostre comunità? È questa allegria dell'essere cristiano l'autentico antidoto contro gli idoli del nostro tempo, in particolare contro l'idolo della giovinezza. Se invece l'incontro con i fratelli e le sorelle nella fede è formale, se la partecipazione è dettata dal solo precetto, se la vita liturgica è ripetitiva con canti che risalgono a Giuseppe Garibaldi, possa Dio avere misericordia di noi!

L’esperienza della fede di per sé tonifica, irrobustisce l’anima, la mente e il corpo. Si dovrebbe perciò scommettere di più sul fatto che la depressione della fede non è il destino del cristianesimo. Per questo ai credenti serve il coraggio di interrogarsi sulla qualità umana della propria fede, sui sentimenti che l’accompagnano, sui ritmi che essa frequenta, sulla musicalità che essa sprigiona o meno, e sulle relazioni che grazie ad essa nascono.

Questo è un tema oggi molto urgente, rispetto al quale mi piace ricordare cosa afferma il pensatore canadese Charles Taylor. Egli ha infatti rimproverato alla comunità cattolica di aver marginalizzato il carattere “festivo” della dimensione religiosa propria di ogni essere umano: cioè il carattere di gioia, di letterale ri-creazione, di ospitalità, di elaborazione del negativo, di liberazione, di interruzione, che è efficace preludio ad una nuova e più convinta irruzione, immissione nella quotidianità.

Da questo punto di vista, allora, lavorare per creare comunità capaci di generare adulti contenti di essere adulti e felici di essere cristiani è la sfida che ci attende. Così può riattivarsi la trasmissione della fede: «la fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma» (LF, 37).


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