Lezione preparata per la conferenza su Rolando Rivi tenuta dal mons. Massimo Camisasca assieme al prof. Danilo Morini sul tema: Tra fede e storia: testimonianza nelle parole di chi ha conosciuto Rolando e valore del martirio
Non è possibile addentrarci nella vita di Rolando Rivi, comprendere ciò che egli oggi continua a dire alle nostre esistenze, senza partire dalla parola sintetica che su di lui ha detto la Chiesa: martire. Essa è come un portale che ci introduce alla sua vita.
Chi è il martire?
Martirio, martire sono parole che, nelle nostre lingue latine, derivano dal greco μαρτυρία, μαρτυς, testimonianza, testimone. Si tratta di termini il cui significato originario è relativo al campo del diritto, in particolare al linguaggio processuale. Μαρτυς, in greco, è colui che testimonia alcuni fatti di cui è stato protagonista o ai quali ha assistito personalmente. [[È interessante notare che la radice del termine “martire” è la stessa di “memoria” (smer). La testimonianza, infatti, è sempre l’affermazione di qualcosa che è entrato a far parte della memoria di un uomo. È ciò che nella sua storia passata si rivela ancora importante per il presente. Da questo punto di vista potremmo affermare che il testimone è una figura chiave nel rapporto tra passato, presente e futuro. I fatti della storia passata si rendono presenti attraverso testimoni e, in questo modo, hanno la possibilità di determinare o influire sul futuro.]]
C’è una terza parola che dobbiamo prendere in considerazione, oltre a μαρτυρία e μαρτυς. Anch’essa ci è offerta dalla lingua greca ed è la parola μαρτύριον, il termine che tra l’altro è usato nelle lingue contemporanee. Curiosamente questa espressione non appartiene in modo speciale, come le altre, al linguaggio giudiziario-forense. Di essa il greco si serve per indicare la prova che accompagna una dichiarazione o un avvenimento e che documenta la sua verità. Potremmo dire che il μαρτύριον è ciò che rende una testimonianza vera, è il suggello della verità. Se diamo uno sguardo al greco biblico dei LXX siamo colpiti dalla assoluta prevalenza del termine μαρτύριον, segno di una preferenza esplicitamente accordata al termine che più degli altri esprime il rapporto tra testimonianza e verità. [[Esso è usato oltre 250 volte, nella maggior parte dei casi per tradurre l’ebraico mô‘ed, la tenda della testimonianza, cioè il segno visibile della presenza del Dio vero in mezzo al suo popolo]].
Rolando Rivi è testimone, martire, perché egli porta la prova della veridicità della sua testimonianza: il sacrificio della vita, espresso dal suo attaccamento a Gesù, simboleggiato dalla veste.
È proprio nella sua intima connessione con la verità, affermata come bene supremo, al di sopra degli interessi personali, che l’espressione testimonianza/martirio inizia ad assumere il significato che oggi noi diamo a questo termine.
L’idea di “martire” nel suo significato compiuto comincia ad affermarsi nel tardo giudaismo in particolare con l’esperienza dei Maccabei che durante la persecuzione di Antioco IV Epifàne (II secolo a.C.) accettarono la morte piuttosto che rinnegare la verità delle leggi paterne e, in ultima analisi, Dio stesso (cfr. 2Macc, 7). La loro vicenda riporta alla memoria le storie dei grandi profeti di Israele: Isaia, Geremia, Osea. Se ci soffermiamo a considerare la loro esperienza ci rendiamo conto che fin dall’inizio essa è caratterizzata dalla fedeltà del profeta alla parola ascoltata da Dio e annunciata anche a costo della propria vita. Vocazione, verità e sangue sono, dunque, elementi fortemente legati e fanno parte della definizione di “martirio” già prima dell’era cristiana.
Il contesto in cui la categoria della testimonianza emerge nell’Antico Testamento è quello dell’alleanza tra Dio e il suo popolo: Dio sceglie continuamente degli uomini come testimoni di questa alleanza, con il compito di richiamare il popolo ad essa, esortandolo ad abbandonare le strade della prostituzione e dell’idolatria.
Un testo sintetico di quanto finora affermato lo troviamo nel profeta Isaia: Si radunino insieme tutti i popoli e si raccolgano le nazioni… Voi siete i miei testimoni - oracolo del Signore - miei servi, che io mi sono scelto perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate che sono io… Io, io sono il Signore, fuori di me non v'è salvatore… Voi siete miei testimoni – oracolo del Signore – e io sono Dio, sempre il medesimo dall'eternità. Nessuno può sottrarre nulla al mio potere; chi può cambiare quanto io faccio? (Is 43, 8-13).
Troviamo in questo testo di Isaia l’essenza della concezione israelitica di testimonianza: l’elezione da parte di Dio (voi siete i miei testimoni… che io mi sono scelto), il mandato universale (a tutti i popoli… tutte le nazioni…), il contenuto della testimonianza (io sono Dio…).
Non chiunque, allora, può essere testimone in senso stretto, ma solo chi è stato chiamato da Dio e da Lui ha ricevuto una rivelazione. L’iniziativa è sempre e solo di Dio. E tale iniziativa riguarda non dei fatti in particolare, ma qualcosa di fondamentale, destinato a tutti gli uomini.
Questa testimonianza profetica, tipica dell’Antico Testamento, avviene spesso in ambienti ostili, si svolge attraverso la vita stessa del profeta e non solo attraverso le sue parole. Implica dunque una fedeltà eroica da parte di chi è stato scelto: deve essere pronto a sacrificare la sua stessa vita per il compito che gli è stato affidato. In questo senso potremmo affermare che il testimone per eccellenza nella rivelazione veterotestamentaria, prima e più ancora di Abramo e di Mosè, è la misteriosa figura del servo di JHWH, la cui vicenda esprime e testimonia in modo supremo la signoria di Dio [[cfr. Is 42,1: Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui: egli porterà il diritto alle nazioni. Is 49,1.6: Udite attentamente nazioni lontane; il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome… Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra; Is 50,6-8: Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso. È vicino chi mi rende giustizia]].
Martirio è dunque, già nell’Antico Testamento, una forma particolare, radicale, di testimonianza, quella che non si arresta neppure di fronte alla richiesta del sacrificio supremo che avviene spesso attraverso persecuzioni, torture, dolori terribili e infine morte.
Nei Vangeli, in particolar modo in Luca e Giovanni, e più in generale nel Nuovo Testamento, la categoria della testimonianza ha un’importanza assolutamente centrale. Se si sommano le ricorrenze nel Nuovo Testamento di μαρτυρία (37), μαρτυς (34), μαρτύριον (20) e μαρτύριέω (77) si rileva la presenza del concetto almeno 168 volte. [[Naturalmente questi dati dovrebbero essere studiati, bisognerebbe entrare nei dettagli e vedere con quale significato sono utilizzate le diverse espressioni e con quale frequenza nei vari autori. Si tratterebbe di un lavoro molto interessante, ma impossibile da trattare oggi nel tempo a mia disposizione. Mi soffermerò brevemente solo sul Vangelo di Giovanni e sugli Atti degli Apostoli.]]
Dai dati numerici che abbiamo considerato, emerge l’importanza che gli autori neotestamentari attribuiscono al concetto e all’esperienza veicolata da questi termini. Le ragioni di tutto ciò sono molteplici e molto profonde. Ma è soprattutto l’autocoscienza di Gesù, trasmessa poi anche ai suoi discepoli, a giustificare questa sottolineatura: Gesù concepisce se stesso come il testimone del Padre (cfr. Gv 3,11.31.32), testimone della veridicità del Padre. E questo diventa il suggello di tutta la storia della salvezza: è vero ciò che il Padre ha detto e promesso nella creazione, attraverso le Scritture, in particolare i Profeti, è vera ogni profezia che riguarda il Figlio e che ora si compie nel Vangelo.
La categoria di testimonianza assume un rilievo tutto particolare nell’opera giovannea. [[Basti pensare che, ad esempio, delle 37 ricorrenze di μαρτυρία nel Nuovo Testamento, 30 le troviamo in Giovanni. Egli si presenta nel suo vangelo come testimone: Costui è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera (Gv 21,24). Ma, ad uno sguardo d’insieme, emerge come in san Giovanni diversi siano i soggetti della testimonianza. Innanzitutto il Battista: Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui (Gv 1,7). Poi la Scrittura: Scrutate le Scritture: sono esse a rendermi testimonianza (Gv 5, 39). Infine i discepoli: Anche voi mi renderete testimonianza perché siete stati con me fin dal principio (Gv 15, 27. Cfr. anche Gv 17,20; 19,35).
Ma tutto questo poggia su un basamento cristologico:]] Nel suo vangelo, come anche in tutti gli altri scritti giovannei, vi sono vari testimoni: il Battista, lo stesso evangelista, le Scritture, i discepoli, lo Spirito, ma il testimone per eccellenza è Cristo stesso. Egli è testimone della verità (cfr. Gv 18,37), soprattutto è testimone del Padre e di sé come inviato dal Padre (cfr. Gv 3,11.31.32; 5,36; 10,25).
Vi prego di considerare queste parole che dirò come la chiave per comprendere l’esperienza di Rolando Rivi. Si può dire che tutta la vita del Figlio sia una testimonianza resa al Padre: per questo lo ascolta, lo prega, fa ciò che il Padre gli dice di fare, ciò che a Lui piace. Lo testimonia davanti agli uomini, pubblicamente, senza paura, di fronte ai potenti dei tribunali e delle sinagoghe. Allo stesso modo anche il Padre e lo Spirito rendono testimonianza a Gesù (cfr. Gv 5, 31-37; 8,18; 15,26; cfr. anche 1Gv 5, 6-12).
Appaiono così due caratteristiche costitutive della testimonianza di Cristo: essa nasce dalla comunione, dall’unità ricercata e affermata con Colui a cui egli vuole rendere testimonianza. In secondo luogo, essa è resa non nel segreto del cuore, ma nel cuore della storia, di fronte agli uomini, nelle piazze. Sono proprio i tratti fondamentali che ritroveremo anche nella testimonianza di Rolando Rivi.
Ritorniamo ancora sulle parole dell’evangelista. Per Giovanni la testimonianza di Cristo nasce dall’amore, dalla donazione con cui il Padre genera il Figlio e con cui il Figlio risponde a tale atto generativo.
Il Figlio sa che, per quanto lontano possa andare, per esempio nell’incarnazione, nella passione, nella morte, egli sarà sempre presso il Padre, da cui sarà sempre amato e generato (Egli mi ha detto: Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato, Sal 2,7. Cfr. anche Sal 109,3). Per questo il Figlio non teme la testimonianza di fronte ai potenti, agli accusatori.
La stessa comunione che vive col Padre, Gesù la vive con gli Apostoli. A loro chiede di rendere testimonianza a lui, come lui ha reso testimonianza al Padre. Chi mi riconoscerà di fronte agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio (Mt 10,32). Il valore eterno della persona sta nella testimonianza a Cristo. Nei discorsi dell’addio Gesù chiede ai suoi discepoli di amarsi gli uni gli altri (cfr. Gv 13,34; 15,17). Chiede di vivere quell’amicizia che lui stesso ha col Padre. È questa la testimonianza, che lo Spirito Santo renderà possibile.
[[Ma in Giovanni assistiamo anche ad un’evoluzione, ad un approfondimento, della categoria “testimonianza”. La testimonianza oculare, così importante negli altri vangeli, si affianca in lui ad una testimonianza più alta che è quella della fede, propria di chi – per opera dello Spirito – vede oltre ciò che vedono gli occhi. È per questo che egli, più degli altri evangelisti, descrive le vicende umane di Gesù, scorgendo in esse un segno della sua divinità. Lo sguardo di Giovanni è uno sguardo capace di penetrare le apparenze e di cogliere il senso profondo di esse.]]
Il vertice della testimonianza di Cristo è la croce: qui egli ha mostrato la sua profonda comunione con il Padre, qui ha donato, nell’acqua, nel sangue e nello Spirito, i beni che formano la Chiesa. Qui, sulla croce, la testimonianza è esplicitamente legata al sangue, al sacrificio della vita.
Vi è in particolare un passo della sua prima lettera che ritengo sintetico di questa visione giovannea: Questi è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l'acqua e il sangue, e questi tre sono concordi (1Gv 5, 6-8).
Negli Atti degli apostoli appare evidente come la loro autocoscienza derivi dalla stessa coscienza che Gesù aveva di sé come inviato del Padre. Essi stessi ora si concepiscono come testimoni di Cristo, della sua vita, della sua morte e, soprattutto, della sua resurrezione. E per questo inviati da lui. In tutta l’opera lucana “testimone” e “apostolo/inviato” sono quasi sinonimi. Le ultime parole di Gesù riportate da Luca all’inizio degli Atti, prima dell’ascensione al cielo, ruotano proprio intorno a questa espressione: Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra (At 1, 6-8). È interessante notare che qui, nel compito di testimoni affidato in modo solenne da Gesù agli apostoli, ritroviamo tutti gli elementi che abbiamo notato già nella testimonianza profetica dell’Antico Testamento. I discepoli sono innanzitutto eletti (cfr. At 1,2. 24). A loro Gesù si è rivelato in modo particolare. Essi sono testimoni oculari, hanno ascoltato Gesù, lo hanno visto (cfr. At 4,20), sono stati con lui fin dall’inizio della sua vita pubblica (cfr. At 1,22; 10, 40-41). Il testimone è colui che è stato con Gesù. Come i profeti dell’Antica Alleanza essi non sono chiamati ad annunciare se stessi, ma qualcosa di cui essi non dispongono. Ritroviamo poi il tema della destinazione universale del messaggio loro affidato (fino agli estremi confini della terra…). Ciò che cambia è semmai l’oggetto della testimonianza: non appena l’unicità e signoria di Dio, ma la sua presenza viva nel corpo di Cristo, la sua resurrezione (cfr. At 2,32; 3,15; 4,33; 5,32; 13,31; 22,15). Hanno fatto esperienza di questa resurrezione (cfr. At 1,3) e dal Risorto stesso hanno ricevuto il loro mandato (cfr. At 10,41). Lo Spirito Santo darà agli apostoli la forza e farà di loro non solo gli annunciatori della presenza di Dio, ma dei veri e propri protagonisti, strumenti attivi dell’opera redentiva di Cristo. Essi non sono solo i depositari e i custodi di una verità o di fatti accaduti nel passato, ma continuatori di questi stessi fatti. Sta qui, forse, l’elemento di maggiore novità rispetto all’antica concezione di testimonianza. Gesù non ha solo consegnato delle parole e dei fatti ai suoi apostoli, ma ha comunicato loro la sua stessa vita. Nella continuazione della sua vita attraverso di loro, sta il cuore della testimonianza apostolica.
Paolo stesso, già negli Atti, è presentato come apostolo in quanto toccato anch’egli, seppur in modo diverso ed unico, dall’esperienza di Gesù risorto. Nella visione di Damasco, infatti, Luca riporta le seguenti parole del Signore a Saulo: Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora (At 26, 16). Proprio per la sua esperienza particolare Paolo, che a differenza degli altri apostoli viene in contatto direttamente con il Risorto, si farà banditore, come e più degli altri, proprio della vita nuova inaugurata dalla resurrezione di Gesù. Egli, infatti, non predica le apparizioni di Gesù, ma questa vita nuova, possibile attraverso la fede e comunicata da Gesù Cristo morto e risorto, lo stesso che dopo la resurrezione è apparso prima agli apostoli, poi a più di cinquecento fratelli insieme e, infine, a lui, come ad un aborto (cfr. 1 Cor 15, 3-11).
Tutto ciò che abbiamo visto finora era ben vivo nella coscienza della Chiesa primitiva nella quale il martire, colui che testimonia con il sangue la sua fede in Cristo risorto, è considerato il santo per eccellenza.
La morte non è mai desiderata dai cristiani. Essi, però, piuttosto che rinnegare la vita che Cristo ha loro donato, sono pronti a subire i più atroci flagelli e, infine, anche a morire. Gli Atti dei martiri, che la Chiesa antica ci ha tramesso, sono una testimonianza commovente di questo attaccamento alla vita vera, sono una professione di fede nella vita che non finisce. Il martirio, o almeno la possibilità di esso, era avvertita dai cristiani come essenziale alla fede, tanto che, anche dopo la fine delle persecuzioni, hanno desiderato vivere la medesima radicalità nella sequela di Cristo. È nato così il monachesimo. La verginità, la consegna totale di sé a Dio, è una nuova forma di martirio, di testimonianza quotidiana.
Le persecuzioni, in realtà, non sono mai terminate. La Chiesa, fedele a Cristo, ha rappresentato e continua a rappresentare una pietra di scandalo per il mondo. C’è in essa qualcosa di non assimilabile alla mentalità mondana, qualcosa che costituisce una minaccia perenne per il potere.
Basti pensare quanto costi, ancora oggi, dare testimonianza a Cristo nella vita quotidiana, al lavoro, in famiglia, a scuola.
Il XX secolo, in particolare, è stato il secolo dei martiri. Giovanni Paolo II ne ha elevati agli onori degli altari 286, e questi sono solo una minima parte delle innumerevoli schiere di cristiani che sotto il regime nazista o comunista, durante la persecuzione messicana e quella spagnola, in Cina e in Africa, hanno testimoniato con il sangue la loro appartenenza alla Chiesa.
Ancora oggi, come affermava il cardinal Ratzinger nel 1977 in un suo scritto ecclesiologico, la realtà del martirio ci indica – insieme alla vita consacrata – «dove si trovi la Chiesa» (cfr. J. Ratzinger, Perché siamo ancora nella Chiesa, Rizzoli, Milano 2008, 26).
Ecco allora il primo dono che ci viene dalla considerazione della vicenda del piccolo Rolando Rivi. Il suo martirio è per noi il segno più grande della presenza della Chiesa nella nostra terra. È il segno della benedizione di Dio sul nostro popolo. I santi sono questa benedizione e i santi bambini lo sono in modo particolare. Sant’Agostino ha scritto: «Dovunque la Chiesa di Dio si diffonde attraverso i suoi piccoli santi» (Enarratio in psalmos, CXII). I santi bambini, dagli Innocenti uccisi da Erode in poi, sono presenti in ogni secolo cristiano, anche se solo di quelli recenti abbiamo notizie storiche dettagliate.
Nella vicenda di Rolando la prima cosa da cui siamo colpiti è proprio questa, il suo essere bambino: nato nel 1931, entrato in seminario a 11 anni, è ucciso a 14 anni da partigiani comunisti, accecati dal loro odio nei confronti della religione. Dio scegli i piccoli. Mi sono chiesto tante volte le ragioni di questo fatto. E san Paolo mi ha aiutato a capirle. Nella Prima lettera ai Corinti egli parla di se stesso e delle critiche che la comunità di Corinto gli rivolge: “non sai parlare, sei timido e per questo rischi di diventare arrogante”. San Paolo usa un’espressione che getta una luce molto profonda sulla mia domanda: Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono (1Cor 1, 27-12 28). Quest’ultima frase, soprattutto, mi sembra fondamentale per intraprendere la strada giusta: Dio sceglie i piccoli perché appaia chiaramente che tutto ciò che essi dicono e fanno è opera sua. Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza (Sal 8,3), dice il salmista. Dio non ha bisogno della teologia, non ha bisogno della filosofia né di discorsi sapienti, per usare l’espressione di san Paolo (1Cor 2,1). Ha bisogno semplicemente della testimonianza di cuori innamorati.
Ecco allora il primo elemento che abbiamo notato nella parola “martire” e che ritroviamo anche in Rolando: egli è stato scelto da Dio. Non per suoi meriti, non per sue particolari capacità. Come accadde ai profeti dell’Antico Testamento, la cui unica forza consisteva nell’elezione da parte di Dio e nella fedeltà alla loro vocazione.
Da questo punto di vista, la testimonianza di Rolando è molto singolare. Non ha lasciato nessuna parola scritta. Ciò che di più importante ha lasciato è il suo legame con l’abito talare, cosa piuttosto inconsueta per un ragazzo di quell’età. Per lui tale legame aveva un solo significato: il suo desiderio di dichiararsi di Gesù di fronte agli altri. Potremmo dire che la veste talare era per Rolando il suo μαρτυς: il segno inequivocabile della verità vissuta, della sua appartenenza a Cristo, la visibilità di tale appartenenza. Ritroviamo, dunque, in questa scelta, anche gli altri aspetti della testimonianza che abbiamo considerato: l’orizzonte universale, pubblico, della propria appartenenza e la fedeltà ad essa anche di fronte al pericolo che tutto ciò comportava.
Rolando aveva uno spirito missionario, aveva più volte espresso il desiderio di diventare un prete missionario. Egli comprendeva in modo naturale, come può farlo un bambino, che la missione non è propria solo di alcuni, ma fa parte della definizione stessa di cristianesimo. Non esiste vita cristiana che non abbia questo respiro cattolico, che non tenda ad abbracciare il mondo intero.
Ai genitori che, proprio il giorno in cui si stava avviando, senza saperlo, verso il martirio, gli chiedevano di togliersi la talare, per paura che potesse suscitare le ire dei partigiani, Rolando rispose: “La veste è il segno che io sono di Gesù”. Sulla sua bocca ricorrevano queste espressioni: “Gesù della mia vita, Gesù del mio cuore”. La sua testimonianza, dunque, più ancora che a delle parole, si riconduce alla semplicità di un abito. Non è un caso che coloro che lo martirizzarono innanzitutto gli tolsero l’abito e ne fecero una palla, con cui giocare davanti al corpo di Rolando.
“Domani un prete di meno”, questa la ragione della sua uccisione. Non una parola del ragazzo, non un suo gesto. Soltanto la sua pazienza che, attraverso la veste, gridava al mondo che Dio è presente, che egli basta a riempire la vita di un uomo, che è bello ed entusiasmante consegnare a lui tutta la propria esistenza. È questo, in fondo, che il mondo non può comprendere. È questo che crea “scandalo”, oggi come allora; allora come 2000 anni fa. È questo che ci insegna Rolando: la gioia di vivere solo per Gesù. La fedeltà a lui: non per opporsi agli altri, ma perché quando si ama qualcuno non si può più vivere senza di lui.
I testimoni degli anni giovanili di Rolando ci hanno raccontato l’assoluta semplicità della sua vita: ragazzo come gli altri, pienamente inserito nella vita dei suoi compagni, amante dello sport, dello sci e del pallone, dei canti, dei giochi. Simpatico, estroso; amante della musica e del canto. Tutte le domeniche accompagnava con l’harmonium la messa nella sua parrocchia. Si sentì chiamato per nome da Gesù, e sentì che Gesù gli chiedeva di donargli la vita per sempre. Riconosceva nella risposta a questa chiamata la sua felicità. Rispose semplicemente ‘sì’, fino all’ultimo sacrificio.